22 mag 2018

RECENSIONE: "MYTHOLOGY" (D. SHERINIAN)




“È colpa tua! Sei stato te! Giuda!” 

Derek Sherinian è stato additato, per anni dopo “Falling into infinity” dei Dream Theater, come il responsabile dei mali della band di Petrucci, la causa delle negatività del pianeta, il motivo delle ingiustizie del mondo e nessuno lo ha mai perdonato, e anzi è stato per quell'album stigmatizzato. 

Per noi che seguiamo spesso le cause perse degli ultimi, ci troviamo a riabilitare agli occhi del mondo bacchettone questo tastierista che realizza uno dei suoi migliori dischi con “Mythology”.
La formula temutissima è quella di un disco strumentale (eccezione fatta per l’ultima traccia) con numerosi ospiti, da Zakk WyldeSteve Lukather, si passano in rassegna chitarristi di diversa estrazione e ognuno regala il proprio tocco all’arte sfaccettata delle composizioni di Derek.

La colpa primigenia di Sherinian è quella di possedere un animo metal aperto; se vogliamo connotarlo con un gusto potremmo dire che è un sound agrodolce quello che viene dalle note di “Mythology”. Come quando ti siedi in un bel ristorante indiano e sei deciso a sperimentare qualche piatto dal nome accattivante, ma nella zuppa che ti viene servita arriva improvvisamente un aroma variegato di troppe spezie, o assaggi una fragola avvolta nelle cipolle. Ecco questa sensazione di straniamento accompagna il lavoro di Derek che non annoia mai, nonostante sia un album strumentale non arriva mai il tedio della ripetizione ossessiva di note dalla tastiera. 

Sa fare un passo indietro, comporre e dare il giusto spazio a tutti, così da essere bilanciato nella sua esposizione sonora. Emerge, in queste note da grande autore, lo stesso gusto di un album di Satriani, ma con minor spocchia e tanta piacevolezza sonora. “One way or the other” presenta ad esempio un momento progressivo di grande qualità con il violino accompagnato dalla chitarra di Holdsworth, che ricorda i maestri progressive degli anni Settanta. 

Il problema infine non sta nella sua presenza in “Falling into infinity”, ma nella scelta dei Dream Theater di chiamarlo, perché la contaminazione che vive nelle orecchie di Derek si comprende fin da subito che poco c’entra con Petrucci & co. 

Non ascoltate insomma la vox populi su Derek, perché è come quel passante che decide di andare a Manhattan la mattina dell’11 settembre, è la persona sbagliata nel momento sbagliato nel posto sbagliato, ma non ha colpe e anzi in questo caso ci regala un disco interessante. 

Voto: 7

Canzone top: “Day of the dead”

Momento top: la performance di Steve Lukather in “Goin to church”

Canzone flop: “The River Song” 

Anno: 2004

Etichetta:  Armoury Records 

Dati: 9 canzoni, 45 minuti