15 giu 2018

"MONOCHROME": L'INSPIEGABILE ALBUM SOLISTA DI DANIEL CAVANAGH


Nei Depeche Mode la testa pensante è sempre stata Martin Gore, compositore principale, nonché artefice primo del sound della band inglese. Le sue prove soliste sono sempre state pregevoli, ispirate e curate nel dettaglio, eppure rispetto ai lavori dei Depeche Mode ad esse manca qualcosa: il carisma di Dave Gahan. Con le dovute proporzioni possiamo affermare la stessa cosa per i fratelli Gallagher degli Oasis (Noel, il chitarrista/compositore, e Liam, il front-man/interprete), ma anche per altri due fratelli inglesi, che francamente ci interessano di più: Daniel e Vincent Cavanagh degli Anathema, of course.
Nell'ottobre del 2017, peraltro a pochi mesi di distanza dalla pubblicazione di "The Optimist", usciva "Monochrome", primo album solista di Daniel Cavanagh: un lavoro che io definirei inspiegabile.
Se un'opera in solitaria spesso nasce da un'urgenza creativa, da un nucleo di energie dirompenti che non possono essere espresse in seno alla band madre, certo non si capisce il motivo artistico che ha portato il compositore principale degli Anathema (dove egli ha piena libertà di espressione e il controllo di tutto) a ritagliarsi uno spazio personale.


Se pensiamo ad una carriera solista come una boccata d'aria fresca, un luogo dove poter respirare e liberarsi da altre personalità ingombranti (mi viene in mente un Bruce Dickinson in fuga dal dispotico Steve Harris...), anche in questo caso ci chiediamo cosa abbia spinto il buon Daniel a muoversi al di fuori del pianerottolo di "casa sua": una band che, più che un progetto artistico, è una famiglia (non solo in senso figurato, dato che il Nostro opera in una assoluta confort zone in compagnia dei fratelli Vincent e Jamie, senza poi contare altri due fratelli veri, nonché amici di vecchia data, ossia John e Lee Douglas).
Se, infine, una dimensione solista è l'occasione per uscire fuori dalla luce accecante dei riflettori, potremmo chiederci di quali riflettori stiamo parlando visto che gli Anathema non hanno mai operato sotto grandi pressioni, agendo sempre liberamente, cambiando continuamente pelle a seconda dell'ispirazione del momento, curandosi ben poco di critica e pubblico (basti pensare all'incuranza con cui la band si ostina a non riproporre dal vivo i brani più datati che sarebbero invece molto graditi ai loro fan).
Insomma, perché allora Daniel Cavanagh ha sentito la necessità di realizzare "Monochrome"?
Noi vogliamo tanto bene a Daniel Cavanagh e lo apprezzeremmo anche in veste di neomelodico napoletano, ma l'identità di "Monochrome", che stentiamo ancora a definire, è più vicina alla categoria "scarti degli Anathema" che a quella di "imprescindibile espressione di una personalità artistica altrimenti sacrificata".
Quello che troveremo in questa prova solista, fra ballate strappalacrime, spunti neo-prog e dilatazioni ambient, è perfettamente in linea con quanto gli Anathema hanno saputo proporre nell'ultimo decennio, senza però quell'alchimia fra musicisti che la band ha saputo trovare come ensemble, album dopo album, a partire dal lavoro della rinascita "We're Here Because We're Here".
Non basta il consistente contributo di Anneke Van Giersbergen (protagonista in più di un brano), che, da parte sua, pare aver perduto per sempre la bacchetta magica. Capiamoci: è sempre un piacere imbattersi nella divina Anneke, che fra l'altro aveva già collaborato con gli Anathema ai tempi di "Falling Deeper", ma la splendida voce dell'olandese non riesce quasi mai a rianimare brani assai ripetitivi e tappezzati dalle medesime frasi reiterate in modo quasi patologico (vi capiterà di sentire così tante volte "Can you feel me?" che alla fine sarete costretti a domandarvi di quali scompensi emotivi e carenze di affetto il Nostro possa mai soffrire…).
Daniel Cavanagh perde dunque il confronto con la band madre e questo accade sotto molti punti di vista. Intanto il Nostro si fa carico di tutti gli strumenti (fatta eccezione per i già citati contributi della ex voce dei Gathering e per il violino di Anna Phoebe) e la cosa non giova alla resa finale del prodotto che, alle orecchie dell'ascoltatore, si offre come un’opera assai statica, sguarnita sul fronte ritmico, priva di quelle policromie che sono tipiche degli Anathema e che siamo soliti associare al song-writing di Daniel.
Sebbene inoltre il Nostro, consapevole dei propri limiti, riduca al massimo i suoi interventi dietro al microfono, la sua voce, assai piatta e monocolore, non può rivaleggiare in nessun modo con quella del fratello. Siamo infatti certi che con la voce di Vincent questi pezzi, così anathemiani nella vocazione e nell'impianto, avrebbero maggiormente brillato (una convinzione che si accresce quando l’attenzione viene focalizzata sui testi, i quali richiamano continuamente le smancerie degli ultimi Anathema).
Si sente inoltre la mancanza di una mano sapiente dietro al mixer: laddove uno Steven Wilson o (meglio ancora) un Tony Doogan erano riusciti a dare profondità alla musica degli Anathema, la produzione di "Monochrome" risulta penalizzata da un sound scarno e da arrangiamenti poco elaborati che cozzano con le ambizioni. E per ambizioni intendiamo brani anche assai lunghi (in certi casi di otto e nove minuti) che da un lato sembrerebbero guardare alla magniloquenza pinkfloydiana, ma che dall'altro si rivelano mosaici mal composti di passaggi di pianoforte (lo strumento ormai prediletto da parte del musicista) e intarsi di chitarra che non rendono giustizia a chi ha apposto la firma su un album monumentale come "The Silent Enigma".
Peccato, perché a momenti si ha come l'impressione che Daniel avesse voluto in qualche modo recuperare certe atmosfere "universalizzanti" che appartenevano agli Anathema prima che prendessero la sbandata per i Radiohead. Purtroppo invece, il più delle volte, dovremo dolorosamente constatare come anche buone intuizioni (che ci sono) non vengano poi adeguatamente sviluppate. Un esempio potrebbe essere la lunga strumentale "The Silent Flight of the Raven Winged Hours": un brano che nei suoi saliscendi sa a tratti coinvolgere (il montare della cassa, le linee di synth squisitamente prog che ricordano certe prelibatezze dei tempi di "A Natural Disaster"), ma senza mai sfociare in un climax convincente, come se il brano si andasse a spegnere proprio in quei momenti in cui sarebbe dovuto decollare.
A salvare l'intera operazione (e forse a darle un senso), rimane l'opener "The Exorcist", a cui torniamo con amarezza ad ascolto terminato: l'album era infatti partito decisamente bene con questa ballata-capolavoro che avrebbe potuto trovare felice collocazione nel prossimo album degli Anathema (vengono i brividi ad immaginaria cantata da Vincent), ma che il buon Daniel ha voluto tenere tutta per sé.
E forse è proprio questo il motivo per cui il Nostro ha deciso di gettarsi in un'avventura solista: verrebbe infatti da pensare che questo brano, ad alto tasso emozionale, sia un qualcosa di così profondamente intimo e personale che il Nostro lo abbia voluto associare forzatamente alla sua sola persona. Cazzo - avrà detto - scrivo da anni musica per gli Anathema, ma questo brano lo tengo tutto per me!
E come dargli torto....

"Can you feel me?
Can you see me?
Can you feel me now?
Can you see me somehow?"