Il dolore di Jon Oliva ha
assunto proporzioni fuori controllo. Jon Oliva ad un certo punto,
come in molti sanno, non si trova più a suo agio dentro i Savatage,
e apre dei progetti paralleli, rimanendo comunque anche ad operare
nei Savatage, lasciando come una ferita aperta. Allo stesso tempo ne
apre altre, e senza mai chiuderle.
Una rapida scorsa ai
testi dei JOP, e si ha l'impressione che trattino di esistenza, di
morale, di varia umanità come si dice. Eppure serpeggia la
sensazione che Jon si stia lamentando ad alta voce. Un
lamento che
inizia in maniera maestosa e tragica, ma che poi finisce per assumere
i connotati di uno “sbomballamento” (alla romana), tanto è
insistito e condito da una malcelata vena polemica contro il mondo.
Innanzitutto, una
caratteristica comune ai lavori di Jon è quella che segue. Più nei
testi (già ai tempi di "Streets") si parla di incomprensione, di
solitudine morale, di perdite e di delusioni, di distanze
incolmabili, più questi sentimenti sono rappresentati coralmente,
come se Jon volesse costringere la natura e il mondo a partecipare al
suo dolore, a calci in culo. Mentre il classico “coro” della
tragedia prende parte per rinforzare e commentare le vicende
attraverso un occhio esterno che partecipa, il coro di Oliva è una
eco dell'assenza di partecipazione del mondo.
Questo artista, almeno
fino a "Streets", ha un dialogo paritetico con il mondo. Lo scopre, lo
racconta, anche attraverso il dolore. Dopo accade qualcosa. Se posso
anche cogliere gli aspetti più grotteschi di questa trasformazione è
perché personalmente, ai tempi, io ho sofferto per quest'uomo. Negli
anni '90 cominciò ad avere bisogno di progetti diversi dai Savatage
per dire quello che, sostanzialmente, avrebbe potuto dire anche con i
Savatage. E che continuò a dire anche con i Savatage. Solo che aveva
bisogno di dirlo due volte, tre volte. E – se si può individuare
una differenza programmatica tra gruppo madre e altri progetti-, fuori
dai Savatage poteva dirlo in maniera paradossalmente più corale.
Perché il coro che cercava era un'espansione di sé, in assenza di
reale compagnia al suo dolore.
La radice del dolore di
Jon può essere facilmente fatta risalire alla perdita del fratello,
eppure i segni di una esondazione compositiva si vedono fin da prima.
Si è detto che la storia di "Streets", del musicista che si sta per
distruggere da solo, e invece ritrova la fede e la voglia di vivere
solo dopo aver toccato il fondo, rispecchiasse proprio i problemi di
Oliva in quel periodo. Se così è, il finale felice di "Streets" coincide invece con una rinascita problematica di Jon, che nel disco
successivo rimane nelle retrovie. Nella vita vera, quando si tocca il
fondo si rimane ammaccati per un po', come minimo. E quel Dio che Jon
invoca e ringrazia in "Streets", se non lo lascia morire, lo salva per
poi metterlo di fronte ad un altro dolore, la morte del fratello
Criss. Egli risorge, anche con fatica perché non è Gesù, per poi
stringere tra le dita una manciata di pioggia ("Handful of rain").
Il dolore non fu quindi
solo e soltanto quello della perdita del fratello, ma è un discorso
più complesso che aveva radici in sentimenti ed esperienze
pre-esistenti, e che al momento della morte di Criss Oliva, forse,
entrò in una fase senza ritorno. Un debito di dolore ormai
insanabile da qualsiasi grazia divina.
E' da quel momento che il
rapporto tra Jon e il cielo si tinge di un colore livoroso. Prima
quasi devoto, quasi invaso da uno stupore positivo per la ripresa
della vita, Jon comincia a farsi torvo. Sempre magniloquente, sempre
struggente, sempre sorridente contro la tempesta, ma rancoroso nei
confronti del cielo. Da quel momento in poi, come simboleggiato bene
dalla polifonia di “Chance” (da "Handful of rain"), Jon vuole
ripetere fino allo sfinimento la storia del suo dolore, bussare con
quella recriminazione alle porte del cielo, bussare e bussare finché
qualcuno gli apra. Per chiedergli scusa, finalmente. Jon diventa lo
stalker del Cielo, degli Angeli e di chiunque stia lassù a dirigere
il tutto con la sua Volontà, chiamatelo come volete. E Oliva compie questa
impresa titanicamente, perché in sostanza è da solo, anche se
moltiplica le proprie forze e il proprio impatto facendo eco a se
stesso.
I Jon Oliva's Pain
divengono il punto di arrivo di questo percorso. Una sorta di
accampamento spirituale, di teatro sempre aperto in cui, sipario giù
o sipario giù, il dolore di Jon Oliva è sempre sul palco. Il legame
con Criss è evidente, e i primi dischi lo citano (il titolo del
primo, e le composizioni del secondo), ma soprattutto un che di
“non-detto” che serpeggia per le composizioni. I dischi di Jon
non parlano sempre del fratello, e quasi mai del suo personale
dolore, eppure si ha come l'impressione che stia sempre alludendo a
quello, con rabbia. Più Jon si allontana da quell'evento, più
sembra che non ne voglia parlare, e più a pelle sembra invece che
stia proprio parlando di quello.
Il disco “dedica” al fratello, non a caso, si chiude con un brano in cui Jon ripropone anche spezzoni di canzoni passate, come a dire “ecco dove dovevamo arrivare, a che io mi salvassi dalla rovina per trovarmi a cantare la tua morte”. E da lì in poi basta, il cielo non ha meritato più una sola parola esplicita su questo. Da lì in poi ha parlato il coro dei Jon Oliva's Pain, una sorta di lettera anonima, ma firmata poi all'ultimo col nome, in cui si rinfaccia al mondo, agli uomini, al cielo la verità sul dolore ingiusto.
Il disco “dedica” al fratello, non a caso, si chiude con un brano in cui Jon ripropone anche spezzoni di canzoni passate, come a dire “ecco dove dovevamo arrivare, a che io mi salvassi dalla rovina per trovarmi a cantare la tua morte”. E da lì in poi basta, il cielo non ha meritato più una sola parola esplicita su questo. Da lì in poi ha parlato il coro dei Jon Oliva's Pain, una sorta di lettera anonima, ma firmata poi all'ultimo col nome, in cui si rinfaccia al mondo, agli uomini, al cielo la verità sul dolore ingiusto.
A cura del Dottore