Ancora alle prese con l’annoso quesito “Chi ha inventato l’heavy metal?”, con annessi i soliti corollari: furono le band rock di fine anni sessanta ad inventarlo?, oppure i Black Sabbath, i Judas Priest, gli Iron Maiden, i Manowar? Basta suonare “pesanti” o è necessaria la consapevolezza di appartenere al movimento? E' dunque solo una questione stilistica o anche culturale? Ma soprattutto: che cazzo ce ne frega?
Il fatto è che siamo degli onanisti dediti alla masturbazione mentale, e se già abbiamo indicato quelli che secondo noi sono i dieci migliori album del metal, in questa occasione ci concentreremo su dieci titoli che hanno contribuito a forgiare quel linguaggio e quell’immaginario che siamo soliti associare al nostro genere preferito.
Rintracciare le radici del metal ci può portare molto indietro nel tempo. Dal blues disperato che infestava il delta del Mississippi ai suoni viscerali del primo rock‘n’roll, fino ad arrivare alle rock band della seconda metà degli anni sessanta: anni in cui si è sviluppato quel modulo “riff di chitarra/pattern ritmico” che avrebbe costituito il primo mattone di quell’edificio che, anni dopo, avremmo chiamato heavy metal. Senza poi contare la rivoluzione scatenata dall'estro di Jimi Hendrix, il quale letteralmente re-inventò la chitarra elettrica: una potenza e densità di suoni che non definiamo metal solo perché ancora troppo bluesy.
Ma quando si è iniziato a parlare di heavy metal? L'espressione è stata utilizzata per la prima volta dal critico musicale Lester Bangs, riprendendo un verso del brano “Born to be Wild” degli Steppenwolf (anno 1968). Con questo nuovo appellativo costui intendeva descrivere il sound di quelle band che, mettendo al centro della loro visione artistica la potenza della chitarra elettrica, si differenziava nettamente da quelle di estrazione rock/blues che le avevano precedute. Partiamo dunque dal 1968...
Cream, “Wheels of Fire” (9 agosto 1968)
Se non possiamo catalogare i Cream sotto la voce "heavy metal", di certo essi hanno presenziato con onore fra gli antesignani delle band hard rock, buttando sul piatto della Storia un'epica esecutiva davvero dirompente: non è da pazzi pensare, in fondo, che dai virtuosismi di questi tre straordinari musicisti sarebbe scaturita quell'attitudine di tronfia ed ostentata virilità che diverrà tipica dell'heavy metal. Jack Bruce (voce e basso), Eric Clapton (chitarra) e Ginger Baker (batteria) davano del tu ai propri strumenti e, ancora immersi in quell'universo blues da cui provenivano, dimostrarono con questo mitico doppio album (per metà registrato in studio, per metà dal vivo) di saper tracciare quei solchi che avrebbero portato, fra riff memorabili e jam incendiarie, al rock duro di Led Zeppelin, Deep Purple e Black Sabbath.
Led Zeppelin, “Led Zeppelin” (12 gennaio 1969)
Nemmeno i Led Zeppelin possono essere considerati metal, ma è innegabile che essi abbiano fatto compiere al rock un ulteriore passo in direzione metal. Grazie alle loro invenzioni (in particolare a soluzioni che integravano chitarra e batteria in modo inedito) spianarono la via ad una miriade di altre band (fra cui i Deep Purple, per loro stessa ammissione), andando così a consolidare una nuova concezione di rock: l'hard rock. Il carisma del frontman Robert Plant, l’estro chitarristico di Jimmy Page, la potente base ritmica assicurata da John Bonham e John Paul Jones: molta della "grammatica" che il metal adotterà si trova già in nuce in queste nove composizioni, ancora sospese fra blues fumoso, epiche ballate e fucilate proto-metal come “Good Times Bad Times” e “Communication Breakdown”.
Black Sabbath, “Black Sabbath” (13 febbraio 1970)
Secondo il nostro umile parere, tuttavia, il metal nasce esattamente qua: nello scrosciare della pioggia, nel lugubre rintocco di campana a morto, nella tragica calata del riff pesantissimo di “Black Sabbath”, il vero primo brano metal nella storia, dove il cordone ombelicale che ancora univa il rock al blues viene finalmente reciso. Certo, non tutto l’album proseguirà sullo stesso tenore, palesando il fatto che i quattro di Birmingham stavano inventando l’heavy metal senza esserne consapevoli, restituendoci “semplicemente” quella che era la loro visione (pesante, funerea, visionaria) dell’hard rock. E di fatto sopravvivevano nelle prime produzioni del Sabba Nero forti ancoraggi ad un bagaglio stilistico ereditato dal blues, dal rock psichedelico e da quello progressivo. Ma sarà solo questione di tempo…
Deep Purple, “In Rock” (3 giugno 1970)
Il contributo alla causa del metal è fondamentale in questa release che ancora poteva e doveva essere definita hard rock: l’ugola affilata di Ian Gillan, il virtuosismo alle sei corde di Ritchie Blackmore, il drumming fantasioso e trascinante di Ian Paice (per tacere, almeno una volta, dell'organo infuocato di Jon Lord e del basso pulsante di Roger Glover) si incontravano/scontravano in un dinamismo che si esprime in brani certo irruenti, ma ben strutturati e costellati dai preziosismi dispensati dai talentuosi musicisti (senza farsi mancare qualche incursione dalle parti della musica classica). Perché il metal, lo vedremo successivamente, non è soltanto la versione più pesante ed oscura dell’hard rock, ma un insieme di stilemi che si integrano seguendo regole ben precise. Ascoltare la devastante opener "Speed King" e la monumentale "Child in Time" (dieci minuti di saliscendi al cardiopalma con un Gillan in stato di grazia) per credere.
Kiss, “Destroyer” (15 marzo 1976)
Spiace dover includere in questa lista anche quei "pagliacci" dei Kiss, ma non possiamo ignorare il fatto che essi, al netto di trucco/parrucco e fuochi d’artificio, siano sistematicamente citati come fonte di ispirazione da pressoché chiunque si sia cimentato nel suonare metal, dal più classico al più estremo (e se lo dice Chuck Schuldiner, da sempre fan di Gene Simmons e compagni, ci crediamo). “Detroit Rock City”, “King of the Night World” e “God of Thunder” sono una tripletta da KO tecnico che mette in mostra un rock muscolare supportato da una produzione potente. Bordate di chitarra stordenti, voci tracotanti, cori da arena, il tutto condito da quell’essere sopra le righe, plateale, anthemico, forse cafone, che certo non è un modo di essere del tutto estraneo alla sensibilità del metal. Il percorso di definizione del metal è passato dunque anche dalle zeppe e dalle linguacce dei Kiss...
Judas Priest, “Sad Wings of Destiny” (23 marzo 1976)
Dopo i Black Sabbath, i Judas Priest compiono il fondamentale passo successivo, relegando in cantina i pantaloni a zampa di elefante, e calzando senza esitazioni pelle e borchie. Ma soprattutto forgiando quello che diverrà esattamente il linguaggio dell’heavy metal classico come oggi lo conosciamo: il canto affilato di Rob Halford, i duelli di chitarra fra Glenn Tipton e K.K. Downing, un carattere epico e fiero che ammanterà quelle che possiamo definire (finalmente) delle autentiche cavalcate metalliche, cosa che raramente si ritrova in altre incarnazioni hard rock del periodo (potremmo citare una “Return to the Fantasy” degli Uriah Heep, che tuttavia va presa come caso isolato). Qualora qualcuno abbia dei dubbi sul fatto che qui si parla di heavy metal in senso compiuto, si vada ad ascoltare “Victim of Changes”, brano capolavoro in cui, in sette minuti, si passano in rassegna più o meno tutti quelli che diverranno i cliché del metal classico: dai riff appuntiti alla batteria quadrata, passando per continui cambi di tempo ed un break di colpo sconquassato da un acuto stellare di Halford e seguito da una accelerazione che certo non è passata inosservata agli Slayer. Ed è tutto dire...
Rainbow, “Rising” (17 maggio 1976)
Con i Rainbow torniamo per un attimo in territori più propriamente hard rock, anche se l’ugola da leone indomito di Ronnie James Dio (icona indiscussa dell’heavy metal) e i suoi testi fantasy introducevano ulteriori spunti che l’heavy metal avrebbe adottato sull'onda di una spinta reazionaria dettata dalla disillusione che seguiva proprio gli anni della contestazione e delle utopie in cui il rock si era formato. Il tutto corredato dalla strabiliante chitarra di Ritchie Blackmore che, accoppiata alle tastiere avvolgenti di Tony Carey ed al drumming terremotante di Cozy Powell, guidava composizioni di impatto, ma pregne di un pathos che avrebbe ispirato più di un artista metal.
Motorhead, “Overkill” (24 marzo 1979)
Cambiamo bruscamente argomento e introduciamo il punk che, a partire dalla seconda metà degli anni settanta, si sarebbe imposto, mettendo in forte difficoltà le band dedite al rock/blues, tanto in voga fino a qualche anno prima. Il metal, più o meno apertamente, accoglierà certe caratteristiche del punk, in primis la velocità e il procedere caotico e dirompente. I Motorhead di “Lemmy” Kilmister sono da sempre un caso unico nella storia del rock: un mix massiccio di virile punk e selvaggio rock’n’roll che saprà ulteriormente alzare l’asticella del consentito, gettando nel calderone del neo-nascente heavy metal quei suoni rozzi (con in evidenza il basso sferragliante e la voce roca del leader) e quella velocità (la doppia cassa sparata della title-track è solo un esempio) che porteranno direttamente al thrash metal degli anni ottanta.
Iron Maiden, “Iron Maiden" (8 febbraio 1980)
Eccoci finalmente nel cuore della New Wave of British Heavy Metal. Sebbene l'opera in questione non sia l'apice della produzione artistica della Vergine (complice anche la voce punkettosa del primo vocalist Paul Di'Anno), essa si impone nel panorama del periodo per una serie di caratteristiche che poi rimarranno i punti di forza della band in tutta la decade ottantiana: copertina a sfondo orrorifico dal tratto fumettoso (che diverrà presto la norma in tema di artwork di album heavy metal), una scrittura di alto/altissimo livello (quasi tutti i brani in scaletta diverranno dei classici) ed innovazioni stilistiche capaci di caratterizzare il volto dell'heavy metal stesso (dalle cavalcate di basso di Steve Harris agli intrecci di chitarra a cura di Dave Murray e Dennis Stratton). Gli Iron Maiden dunque debuttavano con il botto, forti di una formula che coniugava hard rock, punk e spunti prog/teatrali (l’incredibile “Phantom of the Opera”) che rendevano ancora più maturo e coinvolgente il genere, non più da classificare in modo riduttivo come la variante rumorosa del rock.
Manowar, “Battle Hymns” (7 giugno 1982)
Concludiamo il nostro excursus con quello che certo non è il miglior album dei Manowar, ma che di certo rappresenta la piena (oseremmo dire ostentata!) consapevolezza di appartenere ad un genere autonomo ed indipendente: l’heavy metal. I debuttanti Manowar celebravano l’heavy metal (“Metal Gaze”) e se stessi (“Manowar”) inaugurando un trend che nel tempo sarebbe divenuto fin troppo stucchevole, ma che certo è stato determinante nella creazione di un'idea di appartenenza al movimento. Perché l’heavy metal non è un semplice insieme di tratti stilistici, ma una vera e propria filosofia di vita, che vede il legame di fratellanza fra i metallari (e la contestuale lotta contro i poser) come un forte tratto identitario. Tutto questo vitaminizzando/pompando brani diretti e di impatto (in Usa lo chiamavano power metal), non compiendo chissà quali rivoluzioni stilistiche, considerate anche le non eccelse capacità tecniche dei Nostri (anche se c'è da ricordare che l’accezione di epic metal sorge proprio fra i solchi della bellissima title-track, mentre gli acuti strappa-tonzille di Eric Adams e le bordate del basso di Joey DeMaio diverranno altrettanti cliché dell’heavy metal più enfatico e massimalista).
La definitiva emancipazione del metal dagli stilemi, non solo blues, ma anche da quelli più ingombranti dell’hard rock, avverrà l’anno successivo per mano di quattro ragazzi brufolosi che, a nome Metallica, avrebbero nel 1983 dato alle stampe un certo dischetto di nome “Kill ‘em All”...
...ma questa è un’altra storia…