“Infinite Granite”
è un album ingannevole, si svela strada facendo: all’inizio lo liquidi
come la spersonalizzazione definitiva di un percorso iniziato con il
botto (“Roads to Judah” e “Sunbather” contribuirono alla
definizione del cosiddetto blackgaze) e poi deviato verso lidi sempre
più lontani dal metal estremo ed appiattito su schemi ampiamente
conosciuti (quelli dello shoegaze e del post-rock). Ascolti “Shellstar” e “In Blur” e capisci che il sound dei
Nostri, così originale ed ispirato in campo estremo, si è andato ad
adagiare su arpeggi riverberati, impalpabili melodie eteree e scoppi di chitarre a dir poco
telefonati. Intuisci
che la voce di George Clark non ce la fa a reggere un intero album su registri puliti, che la magia delle composizioni dei soliti My Bloody Valentine, Slowdive e Ride è un’altra cosa.
Eppure,
brano dopo brano, ti rendi conto che, sotto la "scorza
sognante", cova la complessità e la pesantezza che solo una band metal
può avere...
Sulle prime l’ascolto di “Infinite Granite” mi aveva suscitato una sensazione di impotenza del metal, una sensazione infastidente di incapacità del metal di saper esprimere emozioni fresche, in modo
semplice, diretto, come se l'artista dedito al metal non si volesse mai
veramente “mettere a nudo”, ma dovesse in qualche modo sempre
mascherarsi. Del resto il metal nasce e si afferma come un genere
"iperbolico", poco incline all’intimità e più all'esagerazione: le
emozioni ci sono, ma sono spesso esasperate, enfatizzate.
Provai una sensazione simile anche l'anno scorso in un paio di occasioni: pensieri che
formulai nella mia testa ma che non ho avuto modo di sistematizzare per
iscritto. Ero in procinto di concedermi una settimana al mare, avevo voglia di leggerezza e varietà e, senza nemmeno troppi pensieri, mi sono ritrovato nell’autoradio “69 Love Songs” dei Magnetic Fields:
un album triplo, più di 170 minuti, per un totale di 69 tracce,
appunto. In quell’album c'è un po’ di tutto: folk, cantautorato,
country, elettronica, synth-pop, indie-rock, free-jazz, tutte
suggestioni che trovano coesione grazie al talento del mastermind Stephin Merritt
che scava a fondo nella sua arte, consegnandoci, fra dramma ed
auto-ironia, un affresco stupefacente della sua sfaccettata interiorità.
Insomma – pensai – una cosa che non avrebbe mai saputo fare il metal
con la stessa scioltezza, ma anche con la medesima capacità di
penetrazione esistenziale.
Un’altra cosa che non farà mai il metal è un album come “Microphones in 2020” dei Microphones,
album che ebbi modo di ascoltare nella medesima vacanza, e che usavo
mettermi come sottofondo a colazione. Questo lavoro è costituito da un
unico lungo brano di tre quarti d’ora dove Phil Elverum, l'uomo
dietro al progetto, semplicemente si racconta, supportato da un unico
giro di chitarra (e vari diversivi distribuiti durante il disco): una
narrazione che ripercorre un’intera esistenza, tanto che all'ascoltatore
parrà di sfogliare le pagine di un diario, fra ricordi, considerazioni, fra eventi personali ed elementi del contesto socio-culturale dell'epoca. Ripeto, una cosa che non farà mai il metal, che
se deve realizzare una suite di quaranta minuti, o un triplo album, deve essere per forza un qualcosa di epico o fantascientifico, in ogni caso un concept elaborato e dalle maestose velleità.
I
Deafheaven, si diceva, con “Infinite Granite” si lasciano alle spalle
il passato estremo per calarsi definitivamente nella dimensione dello
shoegaze. Come dunque poter bissare la magia intimistica di quel genere che mette al centro di tutto la fragilità interiore e le emozioni?
Se questo deve essere il metro di paragone, allora i Nostri perdono il
confronto, in quanto non possono competere con chi lo shoegaze lo ha
inventato e lo continua a suonare di professione.
Il
fatto è che il metal, come tutti i generi, ha i suoi pregi e i suoi
difetti, limiti che difficilmente vengono valicati perché per farlo
serve una sensibilità che si deve necessariamente creare altrove. La
domanda è dunque mal posta. Potremmo invece partire dicendo che
anzitutto i Deafheaven non hanno commesso l’errore dei colleghi Alcest di “Shelter”,
lavoro nel quale i francesi per davvero abbracciarono in toto gli
stilemi del dream-pop, abbandonando non solo ogni asperità ereditata
dall’universo estremo da cui provenivano, ma anche ogni pur piccola
velleità di complessità compositiva.
I Deafheaven di “Infine Granite” sono invece una band metal che ha deciso di accantonare la componente più harsh per concentrarsi su quella melodica, che peraltro è sempre stata parte fondante del proprio sound,
ma il cui approccio alla scrittura non sembra essere mutato.
Soprattutto a non essere cambiata è l’accuratezza, l'attenzione al dettaglio, la cura degli
arrangiamenti condita da tecnicismi ed armonizzazioni di melodie
mutuate dal modus operandi del metal: tutti aspetti a cui evidentemente non ambisce l’universo
non-metal, più interessato alla tramutazione dei sentimenti in musica
senza troppe mediazioni. In altre parole, se da un lato l'approccio metal toglie immediatezza, dall'altro aggiunge tecnica, struttura ed imprevedibilità.
La
ricerca ritmica, per esempio, conferisce allo sviluppo dei brani dei
contorni progressivi, senza rinunciare a quella solidità che i momenti
più tesi richiedono. Le chitarre si intrecciano continuamente in melodie
che non sono altro che la conversione delle texture tipiche del metal classico nella dimensione dello shoegaze. Si pensi all’attacco di chitarre di “Great Mass of Color”, per non parlare del crescendo finale in cui Clark si fa scappare un mezzo screaming dalla concitazione. Quindi non shoegaze e black metal come due mondi distinti, bensì l'uno come la prosecuzione dell'altro, con il secondo ad emergere quando il primo esaurisce la propria potenza espressiva e c'è bisogno di "rincarare la dose".
La strumentale “Neptune Raining Diamonds” è un intermezzo di tastiere e sintetizzatori che spiana la strada all’ottima “Lament for Wasps”, altro pezzone del disco che, pur rimanendo coerente con il sound
espresso fino a quel momento dalla band, sfoggia passaggi di grande
raffinatezza strumentale che svelano uno spirito, nella sostanza, più
vicino al progressive che alle dilatazioni emozionali dello shoegaze.
Quanto alla voce, qui si apprezza la volontà di emancipazione dal canto
etereo che si perde fra gli strumenti e lo sforzo di centrare melodie
iconiche, ricorrendo alle lezioni dei maestri Depeche Mode, da sempre capaci di coniugare con naturalezza spleen malinconico e appeal radiofonico (e non a caso lo spettro di Dave Gahan si rivela in più frangenti).
Da qui in poi è un piacere arrivare alla fine del disco, con toni pacati che si alternano a momenti più sostenuti, con uno screaming che sporadicamente riemerge (come succede nel finale di “Villain”)
e trame che svelano, in modo oramai esplicito, la propensione ad
incastri melodici di grande gusto ed ispirazione, nel contesto di brani
dalla durata considerevole e dagli sviluppi non sempre prevedibili - due
ottimi esempi sono le incalzanti “The Gnashing” e “Other Langiage”, verbo shoegaze elevato all’epicità propriamente metal.
E vi dirò, il finale esplicitamente black metal della conclusiva “Mombasa” (con tanto di blast-beat e screaming
agonizzante) non era neppure indispensabile per confermare la libertà
di pensiero ed azione della band. Le ragioni per la scelta di questo
finale possono essere molteplici, dai sensi di colpa di una band black
metal che aveva bisogno di dimostrare che sa ancora picchiare duro
quando vuole, all'ipotesi di una reale esigenza artistica, come se il
black fosse la spontanea esasperazione dello shoegaze (noi propendiamo
per la seconda). Ma certo questo colpo di coda, inaspettato fino ad un
certo punto, non altera il giudizio complessivo sul platter: chi si è avvicinato alla band per il lato più orecchiabile probabilmente non rimarrà turbato, mentre i vecchi fan - quelli si - potrebbero provare una punta di rimpianto per i vecchi
lavori, che comunque sono sempre disponibili per essere riascoltati in
ogni momento.
Del
resto i Deafheaven non hanno mai riscosso pareri unanimi né da parte del pubblico
né da parte della critica: c’è chi li stroncava persino ad inizio carriera (laddove
oggi si riconoscono i classici della band e dell’intero genere),
figuratevi come i detrattori sono ingrassati con i più recenti “New Bermuda” e “Ordinary Corrupt Human Love”. C'è sempre stata la tacita convinzione che i Deafheaven si trovassero al termine di un perenne vicolo cieco, pronti al passo falso, ma nel frattempo una via di fuga veniva sempre trovata e il loro seguito cresceva,
irretendo quelle nuove generazioni di ascoltatori che sempre meno si
curano delle classificazioni. Certamente qualche sostenitore della prima ora si sarà perso per la strada, ma quello che importa, in questi casi, è che il ricambio di fan base abbia portato ad un saldo positivo: giusto premio per un percorso artistico caratterizzato da onestà e dedizione.
E
se oggi la svolta di “Infinite Granite” può sembrare fatta per meri
motivi commerciali, la verità è che, con la consueta professionalità, i
Nostri confezionano un album denso di idee e contenuti, spesso nascosti
agli occhi del distratto che si ferma al guscio.
Per me, fra i dischi dell'anno!