16 mar 2023

A SCUOLA DI BELLEZZA CON I CYNIC

 


Con colpevole ritardo mi ritrovo a parlare oggi dei Cynic. Non mi riferisco al ritardo di quasi un anno e mezzo rispetto all’uscita dell’ultimo nato in casa Cynic “Ascension Codes”, edito nel novembre del 2021. Mi riferisco ad un lasso di tempo ben maggiore, ossia ai tre lustri che ci separano dal ritorno sulle scene della band con “Traced in Air” nel 2008: quindici anni in cui mi sono fidato di qualche tiepida recensione in rete, rifiutandomi di conseguenza di ascoltare qualsiasi cosa uscisse a nome Cynic, probabilmente per non intaccare la perfezione del ricordo della band che portavo grazie al mitico “Focus”. 

Bene, l’abbiamo menzionato una volta, ma adesso basta, voltiamo pagina, ma non perché il debutto dei Cynic sia qualcosa di insuperabile (anche se in questo caso il 10 e lode è davvero a portata di mano), semmai perché quello che è venuto dopo è stata un’altra storia. E mi rendo sempre più conto grazie alla vecchiaia che continuare a giudicare le cose e le persone per il loro passato (in questo caso remoto) è sbagliato come approccio ed anche ingiusto: ingiusto, in questo caso, nei confronti di una band troppo geniale per poter essere liquidata con leggerezza. 

Possibile che cotanta genialità si sia totalmente persa? Che di quell'equilibrio, quell'armonia non sia rimasto nulla di nulla? O solo qualche pallida traccia?  

Possibile, invece, che questa genialità abbia acquisito un’altra forma? E' difficile mantenere una posizione neutrale nei confronti di una band che, rilasciato un unico capolavoro e poi scomparsa, decide dopo molto tempo di riemergere dall'oblio. Questo significa fare necessariamente i conti con il passato, e per i Cynic il passato è molto ingombrante, è indubbio, ma, come si diceva sopra, band straordinarie come queste si meritano uno sforzo di comprensione maggiore, soprattutto quando esse decidono di non ripercorrere pedissequamente i sentieri del passato. Mi sono dunque riapprociato ai Cynic, ho provato a guardarli sotto una luce diversa, e le impressioni che ho avuto in merito alla loro produzione recente non sono state affatto negative. Anzi, nel caso di “Ascension Codes”, da me totalmente ignorato al momento della sua uscita ed incrociato di recente per oscure congiunture astrali (probabilmente attirato dalla bellissima copertina), mi sento di esprimermi in termini più che entusiastici. 

Si scrive Cynic, ma si legge Paul Masvidal, unico membro originario della band, visto che con un tragico tempismo sono deceduti, a nemmeno un anno di distanza l’uno dall’altro, i due Sean, Reinert e Malone (notizie che non mi hanno lasciato indifferente all’epoca – correva l’anno 2020 – ma che al tempo stesso non mi hanno spinto a recuperare il materiale della band rilasciato nel secondo corso della carriera). Questo può essere un primo elemento per capire “Ascension Codes”, coerente con la storia della band, ma anche così diverso. 

E’ un album solista di Masvidal, quindi, supportato per l’occasione da più che validi compagni. Matt Lynch dietro alle pelli non fa rimpiangere Reinert, senza nulla togliere a Reinert che, a parere di chi scrive, è stato uno dei migliori batteristi di sempre dell’epopea metal. Ma del resto i quindici anni di differenza che corrono fra i due batteristi fa sì che il buon Lynch (classe '86) porti una rinnovata freschezza ed energia ai raffinati soundscape di Masvidal. E poi, se devo essere sincero, l'ho trovato meno ingombrante di Reinert, lasciando egli maggiore respiro al talento di Masvidal. Quanto a Malone, non troviamo qui un bassista in carne ed ossa a sostituirlo, bensì i sintetizzatori del guest Dave Mackay (anche alle tastiere), chiamato ad evocare le movenze del prodigioso Malone con pulsazioni basse e profonde: pazza idea, questa, che però dona molto al suono futurista/spaziale dell'album. 

Un album solista di Masvidal, dunque dove il chitarrista si ritrova da solo (e con onore) a portare avanti la storia dei Cynic, dati per spacciati più volte e poi inaspettatamente ritornati (i Cynic sono morti, i Cynic sono vivi, potremmo gridare!): una solitudine, quella del chitarrista, che macchia di umori luttuosi, di toni malinconici il linguaggio cynic-iano, da sempre fortemente spirituale. 

Se con "Traced in Air" (a mio parere un lavoro comunque valido) i Cynic vollero recuperare gli stilemi per cui divennero noti, perdendo però il confronto con il passato, con “Ascension Codes” la band sembra trovare la sua via, surclassando nettamente il precedente “Kindly Bent to Free Us”, un lavoro obiettivamente poco riuscito. Se in quel lavoro il distaccamento dal metal era dettato da una leggerezza nei toni e da un fare quasi scanzonato che attingeva financo nel rock sessantiano o da certe sonorità alternative successive, qui si parla il linguaggio di un prog minimalista che esonda volentieri nell’ambient e nella musica cosmica. E’ come se quelle atmosfere spaziali che imperlavano il debutto, adesso si affermassero definitivamente e sottomettessero tutto il resto. "Ascension Codes" è l'altra faccia della medaglia di "Focus", la sua naturale prosecuzione. 

E' un album impalpabile, che ama smaterializzarsi, scomparire, nascondersi dietro alle ombre, per poi di colpo inasprirsi e divenire inaspettatamente dinamico. Come suggerito dal titolo, porta con sé un senso di ascesa, e così funzionano i brani, impregnati di una quiete spirituale, una pace apparente che si evolve in texture strumentali di caratura melodica altissima. Tanta gente - ho letto - ha trovato inutili e ridondanti le brevi tracce strumentali che fungono da intermezzi e che intervallano gli otto brani dell’album, ma io in verità non capisco tutto questo accanimento contro degli inserti ambient che, nei loro 30 secondi di durata in media, potrebbero costituire benissimo l’introduzione o la coda dei brani effettivi. Peraltro in un album che si presenta omogeneo alle orecchie e che potrebbe ambire ad essere una lunga suite di quasi cinquanta minuti. 

Un album che in certi momenti si approssima al silenzio, per poi riprendere per mano l’ascoltatore attraverso passaggi che sanno mettere insieme tecnica e potenza melodica, come del resto è sempre successo in casa Cynic (probabilmente questa è la reale cifra stilistica di Masvidal). Lynch non sta fermo un attimo ed inietta continuamente vita alle visioni del chitarrista, tanto chiuso in sé stesso a tratti quanto in grado di salire in cattedra ed impartire lezioni di classe sopraffina e bellezza assoluta

Non è questa una recensione, quindi non aspettatevi una descrizione dettagliata della scaletta, ma vorrei citare almeno l’assolo strepitoso in “The Winged Ones” (seconda traccia, ma opener a tutti gli effetti) e le incalzanti progressioni di “Mythical Serpents” (sesta traccia ma terzo brano effettivo): un uno-due che mi ha colpito nel pur distratto primo ascolto e che mi ha fatto esclamare “cazzo che discone, andiamo a vedere cos’altro succede!”. Il prosieguo non sarà certo da meno, con soluzioni pescate da mondi lontani ma perfettamente amalgamate dall’ispirazione e da una visione artistica chiarissima nella testa di chi suona. 

Non aspettatevi un album new age in quanto i momenti sostenuti non mancheranno (a qualcuno potrebbero venire in mente sprazzi di Dream Theater, di Porcupine Tree, di (ultimi) Opeth, di Devin Townsend) e – badate – non si rinuncerà totalmente nemmeno al growl: l’ospite Max Phelps viene incaricato di questo ma comprensibilmente relegato ad un ruolo di terzo, anzi, di quarto piano, autore di un unico gorgoglio in lontananza, non altro che un elemento d’ambiente mescolato alle perturbazioni astrali che striano continuamente la policromia sonora dell’album. 

Non aspettatevi nemmeno tanta fusion, jazz, Pat Metheny, questo è un bagaglio di sonorità meno presente che in passato: Masdival a questo giro abbraccia in toto il verbo progressivo, esondando talvolta in area post-rock (si pensi al montare impetuoso della porzione strumentale della conclusiva – anzi penultima – “Diamond Light Body”, altro highlight dell’opera). I Mogwai, quelli più cinematici e da colonna sonora, vengono talvolta in mente, e non solo per la voce vocoderizzata: una componente, quella vocale, usata con vera parsimonia in un album che poteva essere benissimo strumentale. Il tutto baciato da dei suoni semplicemente straordinari, capaci di valorizzare ogni singola sfumatura (e v’è da dire che ve ne sono molte di sfumature), che si tratti di dettagli nel background o complessi intrecci strumentali. 

Insomma, contro ogni pronostico, questo “Ascension Codes” mi ha stregato di colpo e definitivamente conquistato con gli ascolti successivi, a dimostrazione di come laddove vi sia sostanza, anche gli schemi mentali più calcificati sono destinati a sgretolarsi. 

Non fate il mio stesso errore, date una seconda possibilità ai Cynic!