17 ott 2023

DEPECHE MODE, MARDUK: RICORDATI CHE DEVI MORIRE!




E' quantomeno curioso constatare che sia i Depeche Mode - veterani del pop più sofisticato - che i Marduk - paladini del black più bellicoso - se ne siano usciti nel 2023 con un album intitolato alla stessa maniera, "Memento Mori" per l'esattezza. Cosa potrebbe aver spinto due realtà così distanti a scegliere il medesimo titolo per le loro ultime release, peraltro pubblicate a pochi mesi di distanza l'una dall'altra?

Probabilmente non sono l'unico ad aver notato la cosa, ma il fatto che il mio pseudonimo sia per l'appunto mementomori mi costringe a riversare sulla tastiera del PC una riflessione o due al riguardo. 

Memento mori, che in latino significa "ricordati che devi morire", è una espressione che ha origine in epoca romana come monito indirizzato a ridimensionare la boria e l'esuberanza di certi condottieri che, tornati vittoriosi dalla guerra, si pensavano immortali. La Morte, in questo caso, era come la livella di Totò, ossia un destino che accomunava tutti gli uomini: ricchi, poveri, belli e brutti. Riferendosi alla brevità ed alla caducità della vita, l'espressione memento mori fungeva da antidoto nei confronti della vanità umana

Nel corso del medioevo e con il messaggio cristiano il senso dell'espressione sarebbe divenuto più severo: in una cornice di epidemie e carestie, memento mori diveniva un monito affinché ci si comportasse bene in vista del Giudizio Universale. Non è un caso che l'espressione fosse stata adottata da certi ordini di frati che ovviamente conducevano un'esistenza minimale e lontana dalle lusinghe della mondanità. Ma i fedeli in generale non venivano risparmiati, tanto che memento mori divenne uno slogan assai martellante, corredato da una iconografia ad hoc fatta di nature morte, fiori appassiti, teschi, scheletri, clessidre ed orologi. Ricordati che devi morire! 

Memento mori avrebbe assunto un carattere ulteriormente minaccioso nella società odierna basata sull'illusione che la felicità origini dal consumismo e da un'esistenza materiale. Nella nostra società la Morte è divenuta un vero tabù e viene negata sistematicamente nella speranza fallace di poter rimanere giovani e dunque felici per sempre. Eppure, proprio in un contesto di questo tipo, l'espressione potrebbe acquisire una valenza positiva, nel senso che può suonarci come sveglia, ricordarci, appunto, che il nostro tempo è limitato e che dovremmo sfruttarlo nel miglior modo possibile. Un invito, in definitiva, a vivere con pienezza la vita! 

A questa ultima accezione sembra appartenere la visione di Martin Gore e David Gahan nel concepimento del loro ultimo album. Sulle prime il titolo "Memento Mori" ci ha fatto pensare che esso fosse collegato alla recente scomparsa del membro storico Andrew Fletcher, supposizione subito smentita dai due superstiti che sono andati prontamente a spiegare come in realtà l'album fosse praticamente già stato scritto prima della scomparsa improvvisa del collega. Lecito pensare, invece, che una riflessione sulla morte sia scaturita dall'esperienza della pandemia, che ovviamente ha segnato tutti noi (e i musicisti in modo particolare). 

Si è detto che "Memento Mori" è il miglior album dai tempi di "Playing the Angel" (2005), ma a me sinceramente queste affermazioni non piacciono: le trovo dannatamente miopi e strettamente legate al momento in cui esse sono rilasciate. Da grande estimatore della band inglese posso esprimermi e riformulare il giudizio semplicemente sostenendo che "Playing the Angel" e "Memento Mori" sono stati gli unici episodi passabili dopo la pubblicazione di "Ultra", avvenuta nel lontano 1997: l'incantesimo si sarebbe rotto, la bacchetta magica smarrita e la creatività sarebbe stata rimpiazzata da un approccio manieristico/revivalistico. 

"Memento Mori", così come era successo con "Playing the Angel", recupera un mood oscuro ed intimistico che aveva caratterizzato capolavori come "Black Celebration" (1986) e "Violator" (1990). Già la copertina, curata dal sempre ottimo Anton Corbijn e ritraente un paio di corone mortuarie a forma di ali di angelo, porta con sé atmosfere da trapasso, ribadite dal videoclip del primo singolo "Ghosts Again", dove si cita la famigerata partita a scacchi con la Morte di bergmaniana memoria: un brano dai toni agrodolci che riflette sul tema della perdita, ma sempre in un'ottica di speranza. 

Perché, come si diceva sopra, l'album intende impostare una riflessione sulla brevità dell'esistenza terrena, ma anche lanciare un invito a viverla pienamente, non facendosi ostacolare da pessimismo e pensieri negativi. Del resto Gahan è uno che la morte la conosce per davvero (essendo praticamente morto per un paio di minuti nel 1996 a seguito di una overdose), mentre Gore ha la sensibilità e sufficiente intelligenza per capire cosa sia la morte anche senza averla vista in faccia. I due, rispettivamente di 61 e 62 anni, hanno l'età in cui ci si inizia ad interrogare su certi temi, a maggior ragione se se ne son vissute di cotte e di crude (alcol, droga, separazioni, lutti, depressione ecc.). 

Il messaggio, sospeso fra irrequietudine e speranza, ferite e medicazioni, si concretizza attraverso dodici brani di un raffinatissimo e ricercato synth-pop che guarda principalmente al passato ottantiano della band, restituito con i suoni nitidi e fluidi di una produzione con i piedi ben piantati nel presente. Un bell'ascolto nel complesso e potrebbe far venire più di un sussulto ai fan più nostalgici (e comprensivi), ma sinceramente l'unica traccia che mi ha veramente dato i brividi è stata l'opener (e secondo singolo) "My Cosmos is Mine" che richiama certe sonorità dark-industrial esplorate dalla band in passato. 

Il resto è artigianato di ottima fattura ove emerge l'innata classe, ma anche molto mestiere e il contributo non secondario di uno stuolo prestigioso di collaboratori a fare da argine al calo di ispirazione. I ripetuti ascolti non hanno migliorato le cose, anzi, per certi aspetti le hanno peggiorate: quelli che in apparenza sembravano gioielli pop destinati a crescere con gli ascolti si sono infine rivelati stanchi e laccati tentativi di rievocare i fasti del passato, con la sola eccezione della conclusiva "Speak to Me", episodio intimistico che strega per il mood sinceramente malinconico e con un crescendo finale di grande intensità. Sono consapevole che dopo più di quarant'anni di carriera un album sufficientemente ispirato come questo e con qualche guizzo degno del nome della band è tutto grasso che cola, ma come fan di vecchia data non posso definirmi pienamente soddisfatto. 

Anche in proposito del "Memento Mori" dei Marduk piace dire in giro che si tratta del migliore album della band dell'era Mortuus (subentrato nel 2004), ma davvero queste affermazioni lasciano il tempo che trovano, soprattutto se rilasciate qualche giorno dopo l'uscita dell'album. In fondo i Marduk hanno sempre suonato i Marduk, rappresentando il perfetto esempio di uno di quei gruppi da cui sai sempre cosa aspettarti: può uscir loro un album leggermente meglio o leggermente peggio a seconda delle circostanze, ma sempre entro un preciso range stilistico e di accettabilità. 

L'entusiasmo che è avvampato intorno all'uscita è in parte giustificato dal fatto che si parla di un prodotto qualitativamente valido, ma secondo me è anche una questione di tempismo e di momento storico. Se è vero che il black metal classico entrò in crisi con l'inizio del nuovo millennio, lasciandosi sorpassare da altre correnti interne al genere stesso (il blackgaze, il depressive, l'atmospheric, il post-black metal, etc.), dopo circa vent'anni torna fisiologicamente la voglia di casa: la sbornia per le novità è passata, certi percorsi alternativi si sono completati o hanno raggiunto la saturazione; si è perso in definitiva l'interesse per novità sempre meno sorprendenti. Storicamente e generazionalmente si torna ad aver bisogno di roba essenziale, diretta, incisiva: in altre parole torna la voglia della solida vecchia scuola (non si spiegherebbe altrimenti tutta l'attenzione che è stata data all'ultima release dei Tsjunder...).  
 
Sia quel che sia, i Marduk - che la Storia l'han fatta per davvero! - si fanno trovare pronti all'appuntamento con la congiuntura storica: reduci da un trionfale infinite-tour volto a celebrare il trentennale della propria carriera, rientrano a gamba tesa nel mercato discografico con un album riuscitissimo, forse un poco meglio dei diretti predecessori, ma comunque in linea con le aspettative. Credo che il merito debba andare principalmente all'operato di Mortuus, che non è solo un solido vocalist, ma anche un musicista. Anzi, un polistrumentista, mente dei geniali Funeral Mist nonché titolare del progetto dark-ambient DomJord. La sua indole sperimentale ha giovato indubbiamente al sound inossidabile degli svedesi. La vicinanza fra Marduk e Funeral Mist si è così assottigliata di album in album, e "Memento Mori" è senz'altro l'opera in cui il contributo di Mortuus è stato più incisivo, occupandosi egli anche di basso, chitarra, effettistica e soprattutto della scrittura, vergando il maggior numero di brani. Insomma, Morgan è un grande chitarrista e il garante essenziale del brand, ma probabilmente da solo non ce l'avrebbe fatta a mantenere la musica della sua creatura a tali livelli qualitativi. 

Si parla di morte, perché evidentemente la pandemia ha lasciato il suo marchio anche in Svezia, ma non dobbiamo aspettarci un disco doom; "Memento Mori" si compone di dieci brani per poco più di quaranta minuti di furiosissimo black metal divinamente old school, ben scritto, ben realizzato, equilibrato nelle sue componenti e soprattutto baciato da una produzione grezza e metallica che rifugge quei suoni ultra-vitaminizzati a cui ricorrono oggi molte realtà meno consistenti da un punto di vista artistico. 

Si parla di morte, dunque, ma come avrete facilmente intuito il tema non viene trattato con intenti costruttivi come accaduto con i Depeche Mode. Per i Marduk la storia dell'uomo è stato un susseguirsi di violenza e morte, già ce lo raccontavano ai tempi del capolavoro "Nightwing". In questa visione apocalittica della storia sono coerentemente confluiti anche gli album più "bellici" ("Panzer Division Marduk", "Frontschwein", il recente "Viktoria"): album controversi per le tematiche trattate, ma coerenti con lo sguardo pessimistico dei Nostri. "Memento Mori" si smarca da ogni possibile polemica revisionista puntando direttamente alla madre di tutte le battaglie, ossia quella - fallita in partenza - ingaggiata con la Morte. Un concetto che viene eloquentemente espresso anche dai versi finali de "La Morte" di Fabrizio De André:

"Guerriero che in punta di lancia
Dal suolo d'Oriente alla Francia
Di stragi menasti gran vanto
E fra i nemici il lutto e il pianto
Di fronte all'estrema nemica
Non vale coraggio o fatica
Non serve colpirla nel cuore
Perché la morte mai non muore
Non serve colpirla nel cuore
Perché la morte mai non muore"

L'album affonda il piede nella piaga in modo morboso ed insistito, proclamando ad ogni passo l'inevitabilità della Morte, il suo trionfo schiacciante sull'Uomo e le sue creazioni. Contrariamente ai Depeche Mode, e coerentemente con la loro missione artistica, più che allestire un album dalle tonalità grigio-nere i Marduk si sono affidati alla violenza con ben pochi compromessi. Che ci si trovi innanzi ad un ascolto per niente accomodante lo si capisce chiaramente nell'uno-due costituito dalla title-track e dalla successiva "Heart of the Funeral", dove la seconda entra in scena ex abrupto come se fosse un cambio di tempo del brano precedente. Nemmeno il tempo di realizzare che anche il secondo pezzo è terminato che subito il suono raschiante di una pala che affonda nel terreno introduce l'assalto della portentosa "Blood of the Funeral", scelta come singolo apripista. 

I brani si incastonano alla perfezione rappresentando nel complesso un unicum in cui non si concede all'ascoltatore un attimo di respiro (a proposito: ottima la prova dietro alle pelli del nuovo ingresso Simon Schilling, ex Belphegor e Panzerchrist). Indubbiamente salutari sono le iniezioni di dark-sound operate da Mortuus, il quale dissemina piccole variazioni qua e là come ad esempio un suono campionato, un elemento d'ambiente, una dissonanza, qualche svisata strumentale un po' più bizzarra. A volte gocce, altre volte brani interi, come nel caso dell'ottima "Shovel Beats Sceptre" che esordisce con campane a morto, inquieti suoni processati e le declamazioni furiose per poi tramutarsi in un possente mid-tempo. Ad un primo lato praticamente perfetto segue una seconda parte omologa dove la tensione cala leggermente, ma quando ce ne rendiamo conto l'album è praticamente finito. 

I testi evocano, in modo consapevole e con insistenza suggestioni funeree, immagini nefaste ed inquietanti mutuate da un mondo ancestrale che finisce per assomigliare al fangoso medioevo della peste, delle epidemie, delle carestie, dove la Morte era compagna di vita e molto rappresentata, soprattutto in chiesa, attraverso un'iconografia di teschi e clessidre che puntualmente ritroviamo nella copertina dell'album. Alla classica immagine della Morte con la falce, i Nostri aggiungono le ali di un angelo, come a voler ribadire la menzogna cristiana di una "terra promessa" al di là di una vita di presunte virtù e penitenze: un attacco non solo alla dottrina cristiana, ma anti-religioso in generale, o perlomeno lanciato contro tutte quelle religioni che, facendo leva sul senso di colpa, perpetuano il ricatto attraverso la promessa di una ricompensa o la minaccia di una punizione ultraterrena. 

La differenza fra Depeche Mode e Marduk, in definitiva, è che i primi l'hanno buttata sull'esistenziale, i secondi sul macabro, limitandosi ad un messaggio astratto ed enfatizzato. Gahan e Gore, consapevoli (umanamente e personalmente) dell'incombere reale della morte, hanno comprensibilmente preferito non giocarci, riflettendo su quello che accade prima, ossia la vita, e sfruttando il tema per costruire quello che potremmo descrivere un inno alla vita stessa, seppur con tinte amare e a tratti oscure. Mortuus e Morgan, invece, hanno rappresentato la morte in una ottica orrorifica, concentrandosi sul suo effetto annichilente, ossia su quello che accade dopo l'ultimo battito del cuore: la cerimonia funebre, la sepoltura, la bara, i corpi divorati dai vermi, la carne in putrefazione, le ossa destinate a divenire cenere. Un indugiare su dettagli macabri, questo, che, come si diceva sopra, va a  negare nel modo più categorico la possibilità di un Aldilà, perlomeno per come esso è raccontato dalle religioni organizzate. 

Che pesantezza però, oh! Non che mi dia noia parlar di morte, per carità, sennò non mi sarei cimentato in una rassegna sul depressive black metal, ma almeno la visione umana dei Depeche Mode mi è sembrata più costruttiva della "cattiva novella" dei Marduk, del loro nichilismo esasperato e della loro missione anticlericale (ma poi chi se ne fotte più della Chiesa oggigiorno?). Perlomeno queste le mie impressioni all'età anagrafica in cui mi ritrovo oggi... ad ogni modo decidete voi dove stare, tanto in ogni caso l'epilogo sarà lo stesso per tutti...