31 mar 2015

IMMORTAL: OLTRE I CANCELLI DEL REAME DI BLASHYRKH


I MIGLIORI DIECI ALBUM DEL BLACK METAL NORVEGESE
7° CLASSIFICATO: “PURE HOLOCAUST”

Olve Eikemo e Harald Naevdal, per gli amici Abbath Doom Occulta e Demonaz Doom Occulta, sono stati fra i primi mover della scena di Bergen, suggestiva cittadina dalle caratteristiche casette rosse affacciate sull'immancabile fiordo. Dal death-metal dei Satanael, passando dagli Old Funeral (nei quali militava anche Varg Vikernes) e dagli Amputation, fino all'avvio dell'esperienza Immortal, fondati nel 1990. Continua così il nostro viaggio verso l'eccellenza nell'empireo del black metal norvegese.


La proposta sonora dei due ereditava la potenza del rancido thrash-metal teutonico (Destruction su tutti) e del death-metal della prima ora (i Morbid Angel erano una fonte di ispirazione dichiarata). L'impronta dell’imprescindibile Quorthon (di cui si conservava l’aura epica) era forte, come del resto lo era l'influenza di Euronymous e dei suoi Mayhem, che all'epoca erano promotori di un sound realmente innovativo. Il black-metal degli Immortal, fin dai loro primi passi, era già maturo e personale, e i primi tre album, “Diabolical Fullmoon Mysticism” (1992), “Pure Holocaust” (1993) e “Battles in the North” (1995), rimangono tutt'oggi opere che ogni appassionato del genere dovrebbe custodire gelosamente e conoscere a memoria.

Dall’oscuro e persino melodico “Diabolical Fullmoon Mysticism” al rigoroso “Battles in the North”, che sparava Bathory alla velocità della luce, si è passati attraverso “Pure Holocaust”. Se “Diabolical…” fu fuoco e “Battles...” sarà ghiaccio, “Pure Holocaust” è un inferno senza speranza dove gli elementi si scontrano in un olocausto sonoro che sa di zolfo e tempesta. Sono i suoni essenziali del Black Metal con la M e la B maiuscole, trentatre minuti in cui le ultime gocce di melodia (gli arpeggi di chitarra acustica, le algide tastiere) si prosciugano per lasciare spazio a quel tripudio di chitarre taglienti e drumming battagliero che di lì a poco diverrà il marchio di fabbrica della premiata ditta Abbath/Demonaz.

Ok, le copertine in bianco e nero, la registrazione spartana, il minimalismo sonoro saranno prerogativa dei colleghi Darkthrone, ma in quegli anni c’erano anche loro, gli Immortal, e il loro segno rimarrà indelebile. Influenzeranno una miriade di formazioni negli anni a venire (i già trattati Enslaved, per esempio, prenderanno il nome proprio da una delle prime canzoni degli Immortal, “Enslaved in Rot”) e verranno apprezzati anche fuori dagli ambienti del black-metal: gli americani Sunn O))) li tributeranno con una versione irriconoscibile di “Cursed Realms (of the Winter Demons)” (su “Black One”, del 2005), trasfigurata in una temibile veste drone; i tedeschi Orplid, appartenenti alla nuova ondata teutonica di formazioni neofolk, scriveranno in loro onore il brano “Traum Von Blashyrkh” (nell’album “Greifenherz”, del 2008), rievocando l’immaginario reame di Blashyrkh.

L’immaginario reame di Blashyrkh. Da sempre personaggi schivi e caparbiamente fuori dalle vicende dell’Inner Circle, Abbath e Demonaz si appartano anche dal punto di vista lirico: rifuggendo da un lato l’immaginario satanista, e schivando dall’altro i richiami alla cultura della tradizione scandinava, decidono di rifugiarsi nel fantastico mondo di “Blashyrkh”, da loro creato. Mondo coerente e figlio della povertà di vocabolario di Demonaz, sorta di “Terra di Mezzo” dominata dal gigantesco corvo Mighty Ravendark, è un regno terribile in cui il gelo e la neve sono perenni, dove proliferano demoni e inquietanti uccelli messaggeri della paura. Insomma, non proprio un bel posto per una villeggiatura, ma sicuramente un suggestivo scenario dove calare le staffilate metalliche dei due musicisti.

Perché due musicisti, visto che in copertina ne compaiono tre? Perché in “Pure Holocaust” il batterista Erik Brødreskift (in arte Grim, poi morto suicida nel 1999), benché accreditato in line-up, non vi suonerà neanche una nota, in quanto entrato in formazione successivamente alle registrazioni e buttato fuori poco dopo le stesse: non altro che uno degli svariati batteristi che hanno sostato nelle fila degli Immortal giusto il tempo di una scoreggia, fino al reclutamento del panciuto Horgh (avvenuto con “Blizzard Beasts” del 1997), il primo batterista stabile a coadiuvare Abbath (voce/basso) e Demonaz (chitarra) nella loro avventura musicale.

Su “Pure Holocaust”, dunque, e sul successivo “Battles in the North”, Abbath si farà carico anche della parti di batteria, dimostrando fra l’altro una gran disinvoltura nel maneggiare lo strumento. Ma non solo: dopo la defezione dell'infortunato Demonaz (che continuerà a collaborare esclusivamente come paroliere), Abbath passerà anche alle sei corde. Ci domandiamo dunque: come mai costui, eccellente polistrumentista, non ha trasformato gli Immortal in una one-man band, dimensione peraltro calcata da svariati connazionali, anche meno dotati?

Perché evidentemente Abbath non è un solitario: egli ama la compagnia ed anche quando avrà il controllo assoluto del progetto, vorrà contornarsi di una line-up stabile. Quando egli si sedette dietro alla batteria prima, ed imbraccerà la chitarra dopo, lo farà, non con spocchia, ma con lo spirito di rassegnazione e con il senso del dovere della buona madre di famiglia, che, esausta, dopo una giornata di duro lavoro, dopo esser stata al supermercato, torna a casa, ma subito riparte per andare a prendere la bimba a danza, visto che il caro marito (in ciabatte sdraiato sul divano con la birra in mano che guarda la partita su Sky) se ne era palesemente dimenticato.

Questa convivialità, questa voglia di costruire un’esperienza comune, questo senso di responsabilità si traduce nel fatto che quando ascolti gli Immortal ti senti investito da una malvagità amichevole, ti senti a casa quando li ascolti, ti senti fra amici, non percepisci quell’angoscia isolazionista che provi quando ascolti il Conte, quel fosco torbidume che aleggia nella musica dei Mayhem (peraltro infestata dai vari suicidi/omicidi), ma nemmeno quelle sensazioni antipatiche di ego straripante che hai ascoltando gli Emperor, o quell’atteggiamento superficiale e menefreghista che contraddistingue i Darkthrone che - si capisce - di te non gliene frega un cazzo. Il fatto che gli Immortal siano un vero team si sente anche a livello di coesione: rispetto ad altre band, gli Immortal sono portatori di un sound unico, compatto, che se da un lato non presenta caratteristiche peculiari, dall’altro brilla di una forza espressiva decisamente rara.

Abbath e Demonaz si pitturavano la faccia e si vestivano di pelle e borchie come tanti altri; i loro brani erano veloci come lo standard del genere dettava; i tappeti di riff di chitarra erano gelidi ed intensi come il buon Euronymous insegnava; la voce era un rantolo spiritato e prolungato come si trovava in tante altre formazioni. Eppure gli Immortal incarnavano tutto questo a modo loro, forti di uno stile immediatamente riconoscibile.

Il face-painting caratteristico dei due lo riconoscesti fra mille (il cereo volto di Abbath squarciato dai due neri triangoli che fanno capolino dai capelli e i cui vertici si congiungono appena sopra il naso, oscurando gli occhi ridotti a due minacciose fessure; quello di Demonaz caratterizzato da un trucco a mo’ di nera mascherina dagli angoli acuminati in vago stile Euronymous; entrambi dotati di un grottesco ghigno a forma di falce di luna rivolta verso il basso).

Il drumming di Abbath è furioso ed efficace come pochi: devastante nel blast-beat (eccezionali le repentine accelerazioni), spietato nei tempi medi (sentite che legnate fra una sfuriata e l’altra), micidiale nell’utilizzo della doppia cassa (che frulla persistente per la quasi totale durata dei brani). Sicuramente meno tecnico e fantasioso di un Hellhammer, Abbath è il picchiatore perfetto per la musica agguerrita professata dagli Immortal (meglio ancora del professor Horgh, fin troppo tributario del drumming marziale ed isterico del maestro Pete Sandoval).

Demonaz, dal canto suo, offre in “Pure Holocaust” la sua prova migliore (performance valorizzata anche da una produzione che, seppur caotica, mette in evidenza le chitarre, che invece verranno letteralmente schiacciate dalla batteria in “Battles in the North”): un marchio di fabbrica fatto di riff ossessivi e dissonanti (forse influenzati da quel Varg Vikernes con cui aveva suonato in gioventù?) ripetuti con efficace ostinazione sul terreno mutevole dei continui cambi di tempo.

Lo screaming di Abbath, infine: quel latrato acidulo da bimbo di sei anni incazzato nero che riconosceresti fra altri mille. O, se preferite, quel rigurgito gastritico estratto a forza con lo sturalavandini dalla bocca spalancata con la lingua perennemente di fuori. In entrambi i casi: inimitabile.


Questi furono gli Immortal di “Pure Holocaust”, poi destinati alla consacrazione con “Battles in the North” (attenzione però: all'epoca furono tacciati di immobilismo ed infatti qualche pecca a livello di scrittura c'era). Con il mediocre “Blizzard Beasts” si registrerà un brusco calo di ispirazione: momento di incertezza fortunatamente superato dai sopravvissuti Abbath e Horgh, capaci di ricalibrare il suono degli Immortal sulle frequenze di un black-metal ancora più epico e maestoso che pagherà un grosso dazio all’arte dei Bathory ed al thrash ottantiano. Paesaggi glaciali, tempeste di neve, fortezze inespugnabili, eserciti di demoni, stormi di corvi portatori di cattivi presagi: sarà la definitiva fuga verso i Reami di Blashyrkh.