1 apr 2015

"CITY" - LA SCONVOLGENTE VISIONE DEL TERZO MILLENNIO, FIRMATA DEVIN TOWNSEND


La splendida peculiarità per la quale, personalmente, considero il Metal un genere musicale unico, oltre al fatto di riuscire a sviscerare con la sua potenza quella parte più recondita del nostro io, quel lato primordiale che tutti noi abbiamo ma che raramente conosciamo appieno nel corso della vita (riuscendo così a suscitare sensazioni ed emozioni del tutto particolari), è il fatto di veicolare, nelle sue migliori espressioni, una visione. Con questo termine intendo sia un qualcosa di personale ed emotivamente soggettivo (molto vicino al concetto di “epiphany” di James Joyce, quasi una consapevolezza di riuscire a percepire attimi di verità”); sia una rappresentazione della realtà, di un contesto sociale con relativa condizione psico-emotiva dell’uomo ivi inserito.


a cura di Morningrise

Intesa in quest’ultimo senso, nello scorso secolo le arti in genere, e letteratura, cinema e musica in particolare, si sono sbizzarrite nel dare le proprie “visioni” di come sarebbe stato il Terzo Millennio (senza considerare le ridicole ansie millenaristiche dei seguaci di Nostradamus o quelle informatiche di chi paventava il Millennium Bug…).
Dal “Metropolis” di Fritz Lang & Thea von Harbou del 1927, passando dalla saga di “Terminator”, fino ad arrivare allo splendido “Strange Days” di Kathryn Bigelow del 1995, il cinema ha dato le sue, quasi sempre orwellianamente pessimistiche.

Anche la galassia metallica ha dato un sostanzioso contributo sul tema, soprattutto negli anni ’90. 
Basti pensare all’accoppiata "Demanufacture" (1995) e "Obsolete" (1998) dei Fear Factory; o alle bordate annichilenti dei Meshuggah di "Destroy Erase Improve" & "Caosphere" (guarda caso sempre nel ’95 e nel’98); o ancora, proprio a pochi mesi dalla fine del millennio, agli oscuri presagi di "Colony" degli In Flames.
C’è un album, a mio modo di vedere, che già nel 1997 espresse in maniera straordinaria la visione della transizione tra il II e il III Millennio. Un album che, nella sua crudezza, violenza, cattiveria e disperazione ha rappresentato uno standard difficile da eguagliare. Sto parlando di "City" degli Strapping Young Lad, disco partorito dal folle genio di Devin Townsend.

Come descriverlo? Arduo compito…provandoci, si può dire che musicalmente si passa, in un’amalgama bilanciato e sempre controllato anche nei momenti più estremi, dal death al thrash, ma con un muro sonoro sprigionato dalle chitarre che avvicina le sonorità nu-metal; c’è poi tanto Industrial, innervato da partiture noise con campionamenti e effetti computeristici, alternato a squarci di epicità e spleen suburbano da brividi. 

Un approccio quindi, soprattutto nel songwriting, assolutamente innovativo per certo tipo di post-thrash che all’epoca con fatica stava cercando una nuova via per esprimere una cultura metropolitana diversa ormai da quella espressa così mirabilmente negli anni ’80 con i gruppi americani e tedeschi. In quegli anni infatti le fratture sociali, sociologicamente parlando, si concentravano tra periferia e centro cittadino. Al tramonto del 1900 invece, essi si consumano tutti internamente alla Grande Città, alla Megalopoli.

Una megalopoli che in City ci dà il benvenuto con il ritmo martellante dei 75” di “Velvet Kevorkian” in cui la batteria del fido Gene Hoglan (come sempre mastodontico e perfetto per tutta la durata del disco), pare imitare un martello pneumatico e sopra la quale si staglia la voce malata, graffiante e avvolgente di Townsend…e ci si raffigura subito catapultati in un traffico tentacolare, bloccati in macchina, affiancati da uomini in pettorina fosforescente che martellano l’asfalto mentre l’ansia per arrivare sul luogo di lavoro ci consuma la psiche…e poi via, si comincia tra la monumentale ed epica “All hail the new flash” (il pezzo migliore dell’album), le devastazioni sonore di “Oh my fucking God” e “Home nucleonics” (due pugni nello stomaco come pochi…) in cui l’Atomic Clock-Hoglan ci trasporta in un turbine di follia e di malata frenesia . Si passa poi dalle più cadenzate e meravigliose “Detox” & “AAA”, alla splendida cover “Room 429” degli Cop Shoot Cop, paladini del noise rock più sperimentale, per concludere con la doomica rassegnazione di “Spirituality”, dove il personaggio che nel corso di tutto il disco ha espresso tutta la sua angoscia e tutto il suo odio verso il prossimo, chiede aiuto a Dio e prega e piange e si strugge alla ricerca della propria umanità, della propria spiritualità. 
Infinita potenza…infinita visione…

Qual è in definitiva la città del titolo? 
E’, come parrebbe di capire anche dall’ideogramma in copertina, la Tokyo visitata da Devin in quegli anni? O la frenetica L.A. da 18 mln di abitanti cui è culturalmente legato? O ancora la sua natia Vancouver, che, seppur non una megalopoli, è la quarta città dell’America settentrionale per densità di popolazione? 
Non è importante: la City di Townsend è un non-luogo Augèr-iano, per definizione spersonalizzante e alienante, moderna giungla di cemento ipertecnologica e iperfrenetica.
Ed è proprio per questo che nel disco è l’atmosfera generale ad essere ancor più importante della musica: non sembra esserci spazio per le relazioni umane, per i sentimenti positivi sotto un cielo grigio, plumbeo, oscurato dalle sagome dei grattacieli. Persino i rapporti sessuali sono spersonalizzati e vuoti (“Sexuality, eroticism in asexual persuasions. Man or woman make no difference in the outcome”). 
Lo stress, la rabbia, l’odio e la frustrazione per una condizione che si vorrebbe diversa per sé, si riversano così in urla di aggressività e di rancore verso il prossimo (“’cause I’m so fucking sick of all you, sick stupid people!”) e in imprecazioni e bestemmie apparentemente sconclusionate contro ciò che ci circonda (“Fuck you, stupid human beings!”).

Il destino ineluttabile che attende l’Uomo è la solitudine (“I feel so alone…alone!”) e l’insensibilità (“I just want to feel, absolutely numb, no good people around”).

Sembra quasi impossibile, in definitiva, che il Giovane Ragazzotto Ben Piantato che prefigurava questo moderno Inferno per l’Uomo Contemporaneo proiettato nel Nuovo Millennio, sia la stessa persona che di lì a 4 anni comporrà per il suo progetto solista quella che è forse la sua opera più geniale, solare e positiva (il masterpiece Terria). Ma tant’è…questo è probabilmente la conseguenza di essere artista a tutto tondo come Townsend, capace di sfornare capolavori indipendentemente da che parte della propria personalità prenda l’ispirazione.

Infinita potenza, infinita visione…