I 10 MIGLIORI
ALBUM GLAM METAL
CAPITOLO 7: “SLIPPERY
WHEN WET” (18/08/1986)
Credo che per un amante della
nostra Beneamata Musica Metal il più odioso accostamento letterale che si possa
fare sia quello tra il “metal”, appunto, e il “pop”, inteso sia come genere che
come aggettivo.
Nella mia fase di vita da (pseudo) defender anch’io ci sono passato, anche se per un breve periodo. La
giustapposizione dei due termini, o anche il solo paragonarli, mi indignava immediatamente e, qualora mi
capitava di parlare di musica con amici e/o conoscenti a digiuno di metal, al solo ascoltare il termine “pop” facevo subito una faccia schifata e
altezzosa, come a dire “Bleahh! Sentite quella merda??!! Scusate, ma io sono su
altri livelli...”
Raramente mi sono soffermato a
riflettere sul fatto che questo aggettivo non è altro che un’abbreviazione di
“popular”, e che “popolare” di per sé non vuol dire necessariamente commerciale-e-quindi-di-infima-qualità.
Certo, spesso è così, ma questo probabilmente perché, da italiani, se sentiamo
il termine pop music, lo accostiamo
immediatamente ad Eros Ramazzotti o Biagio Antonacci; o, pensando ad artisti
stranieri, ci vengono in mente in modo ributtante piatte macchine da soldi come
Mariah Carey o i Boyzone.
Nel corso degli anni ho provato
ad approfondire l’ascolto di quei dischi che possono essere etichettati come
“Pop metal” e ho capito che, se la musica proposta è di qualità, anche questa
locuzione che così tanto ci fa diffidare ha un senso e merita di essere
approfondita. E tra i diversi gruppi attenzionati i primi Bon Jovi, quelli
degli anni ottanta, ne sono a mio modesto avviso i migliori ambasciatori.
Già,
perché QUEI B.J., non quelli che si sputtaneranno nel decennio successivo con
le varie “These days” e “It’s my life”, erano un gruppo con i controrazzi, che
faceva centro praticamente con ogni canzone della magica e acclamatissima accoppiata “Slippery
when wet” e “New Jersey” (1988).
Ma per capire come si è arrivati
a inserire in una Retrospettiva sul Glam il disco in oggetto, bisogna fare un
minimo di marcia indietro e capire che il Pop Metal della seconda metà degli
ottanta, di cui i succitati due dischi sono capisaldi imprescindibili, è figlio
diretto di tutta un tendenza e di un modus
operandi di diverse band che, già a partire dalla decade precedente,
coniugarono con grandi risultati sonorità hard rock con quelle più semplici, dirette
e melodiche del pop.
Ok, ok, lo so. Tutto sommato questo tipo di operazione è
quella di base fatta da tutta la Scena Glam già nel lustro precedente. E
infatti Pop metal e Glam/Hair metal da tanta critica sono considerati termini
assolutamente interscambiabili, dei sinonimi. Personalmente non sono d’accordissimo,
qualche differenza io la vedo; ed è per questo che ho deciso di inserire i
B.J., cercando di mantenere fede a quanto scritto nel capitolo precedente, e
cioè di trattare un glam un po’ diverso di quello cui siamo arrivati fino ad
adesso.
E in cosa risiede alla resa dei
conti tale diversità? Io la vedo appunto nel retroterra culturale. Il Pop Metal infatti si ispira in modo chiaro a quei grandi gruppi degli anni settanta inseriti nel
filone del c.d. “Arena rock”, e cioè quel rock orecchiabile, dagli anthems di facile presa, dagli
iper-melodici cori trascinanti, dal diffuso utilizzo di tastiere e dalle
produzioni industriali di ottima resa. Prodotti patinati e commerciali? Si, lo
erano, favoriti da una radio/tele diffusione capillare e massiccia come mai era
avvenuto prima per l’hard rock.
Ma alla base di questi successi vi erano anche e soprattutto grandi
musicisti e una qualità di scrittura che emergeva alle orecchie
dell’ascoltatore più attento.
Qualche esempio? In primis l’immancabile e seminale accoppiata Aerosmith & Kiss:
“Toys in the attic” (1975) dei primi e “Destroyer” (1976) &“Love gun”
(1977) dei secondi sono ottimi esempi di quello che era l’Arena Rock del
periodo; passando dai Boston dell’omonimo debut album (1976); e, andando
avanti, con i Foreigner di “Head games” (1979) e “Come an’ get it” (1981) dei
Whitesnake; e per andare poi a finire coi Journey di Steve Perry e del loro
sensazionale “Frontiers” (1983), questo uno dei migliori dischi A.O.R. mai
prodotti.
Insomma, i B.J. arrivavano da tutto
questo, incorporando certamente (nei loro primi anni di vita per lo più) anche le influenze dei grandi gruppi glam, in particolare l’utilizzo copioso ed enfatizzato delle power ballads (qua rappresentate in
maniera plastica dalle celeberrime “Without love”, “I’d die for you” e “Never say
goodbye”); una sovraesposizione sessuale di notevole impatto (talmente notevole
che la copertina originale dell’album fu immediatamente sostituita ancor prima
di arrivare nei negozi con un’altra più innocua e politically correct. Le vedete entrambe all’inizio del post); e poi le capigliature cotonate, gli stivali pitonati, le giacche frangiate e gli
spandex multicolori. Anche se già in questo look tipicamente glam a ben vedere
vi era qualcosa di atipico: forse una maggiore attenzione ai particolari, sia
dei vestiti che delle acconciature, una minore sguaiatezza che coincideva con
una maggiore fotogenicità, un “prendersi sul serio”, anche nel trattare i canonici temi glam (come ad esempio l'immancabile "ribellismo" espresso in "Wild in the street") che era lontano dalla
scanzonatezza e l’autoironia dei gruppi glam…
E continuando con le differenze,
ma passando alla musica vera e propria, è innegabile che in SWW si sentano elementi
di diversità. Elementi che non risiedono solo nell’ottimo lavoro in fase di
scrittura di Jon, del fido chitarrista e compagno di mille avventure Richie
Sambora, e del mago del songwriting Desmond Child che contribuì in modo
decisivo alla riuscita delle hit da
classifica estrapolati dai due dischi succitati; ma anche del lavoro in fase di
produzione di un vecchio volpone come Bruce Fairbane (già all’opera con i
gruppi più famosi del periodo, come Blue Oyster Cult e Krokus); è di un certo
Bob Rock in fase di missaggio (altro personaggio odiatissimo dai metallers perché
accostato ai lavori della “svolta” dei Four
Horsemen, Black Album e “Load”&”Reload”).
Insomma, tutto fila liscio come
l’olio nei 43 minuti scarsi dell’album, tanto che a volte sembra di stare ad
ascoltare un Greatest Hits. Ogni traccia colpisce nel segno, divenendo di lì
a breve un anthem commerciale da urlare a squarciagola negli stadi di mezzo
mondo, che i B.J. cominciarono assiduamente a frequentare (alzi la mano chi non
conosce i ritornelli di pezzi immortali quali “You give love a bad name”,
“Wanted: dead or alive”, “Living on a prayer” o “Raise your hands”).
La band
gira a meraviglia, con un Tico Torres dietro le pelli che ci dà dentro come un
forsennato, conferendo dinamicità e verve
a brani che già di per sé ne contengono a iosa, e un ottimo David Bryan alle tastiere, sempre
pronto con la sua Yamaha a duettare con la sei corde di Sambora.
Insomma, SWW diventò
immediatamente IL disco di riferimento del suo genere, un sano mix di
pesantezza (relativamente al rock, ovvio…”Scum” dei Napalm Death doveva ancora
essere dato alle stampe…), schiettezza e romanticità compatibile, e senza
vergognarsene, con le esigenze commerciali e le classifiche di MTV e Billboard.
Che poi, diciamocelo al di là di ogni sterile etichetta: non era altro che sano
rock americano, capace di esaltare, ballare e commuovere allo stesso tempo;
musica da cantare in macchina con la fidanzata o da mettere in sottofondo in
una festa con gli amici. E non è poco…
E riprendendo il filo della
nostra Rassegna, se l’album d’esordio dei Poison lo abbiamo considerato come
spartiacque per delimitare la fine di una “prima ondata”, di un “primo periodo”
di Glam, certamente SWW ne apre un secondo, caratterizzato da un incremento
sostanziale della sua popolarità, che lo portò ad abbracciare fasce di
società fino ad allora non coinvolte in queste sonorità.
Un grande merito che
però, come in ogni bella favola, presentò un risvolto negativo: il platter
infatti, se da un lato lanciò i BJ nel firmamento del rock mondiale e sdoganò
definitivamente l’hair/pop metal, dall’altro la sua pubblicazione, seguita a
stretto giro di posta da “Hysteria” dei Def Leppard (band cui i BJ guardavano
come modello in maniera evidente), provocò negli anni seguenti una fastidiosa degenerazione
in termini di patinatura e morbidezza di suoni e produzioni, che spesso sapevano di
plastica. Le band à-la-BonJovi si
moltiplicarono sia negli Usa che in Europa, ne riempirono le charts, emulandone
gli standard (sia musicali che formali/di produzione) ma la qualità non andò di
certo di pari passo con il riscontro commerciale (ed è qui che casca l’asino di
tutto il discorso…).
Ma, come sempre accaduto nel
Flusso Musicale, raggiunto un traguardo, arrivarono immediatamente altre band
pronte a superarlo. Gruppi, come ad esempio gli ottimi Tesla di Jeff Keith e
Frank Hannon, seppur immediatamente inseriti dalla solita, miope critica nella
massa del Pop Metal, riuscirono a innovare profondamente lo stile del Pop Metal.
E proprio una di queste band sarà l'oggetto del nostro prossimo capitolo...