I
MIGLIORI DIECI ALBUM NON-METAL FATTI DA BAND/ARTISTI METAL
9° CLASSIFICATO: “SHELTER”
Gli Alcest
sono un ossimoro vivente (e suonante): se il Black Metal è oscurità,
tenebre, negatività, gli Alcest sono luce, sole, energie positive. La copertina
dell’album “Shelter” è la migliore rappresentazione grafica di questa
evidenza sonora: e proprio questo album costituisce la nuova tappa della nostra
rassegna volta a mettere in fila i migliori dieci album non-metal fatti da
band metal.
E’
come se la band francese costituisse la fase terminale di un percorso
che è partito da lontano e da presupposti oramai non più rintracciabili nella
musica da essa oggi proposta. L’olocausto sonoro dei vari Venom, Slayer,
Bathory e Celtic Frost esprimeva, nel corso degli anni ottanta,
la forma più violenta, aggressiva ed oscura concepibile per il metal. Messaggio
che fu accolto e rielaborato nella decade successiva da quella compagine di
band per lo più scandinave (Mayhem, Darkthrone, Immortal, Burzum
ecc.) che andarono ad estremizzare ulteriormente il discorso, delineando quelli
che poi sarebbero divenuti gli stilemi classici del black metal. Quel black
metal che è stato il punto di partenza per il giovanissimo Stéphane Paut,
in arte Neige (appena ventenne al momento del suo debutto discografico,
l’EP “Le Secret” del 2005). Il suo interesse era però principalmente
rivolto ad una sola sezione delle potenzialità espresse dal genere, ed in
particolare a certe intuizioni di Burzum e primi Ulver, che
fornivano, del “feroce e malefico” black metal, un’interpretazione più intima,
melodica ed introspettiva. Da qui l'inversione di tendenza...
Neige
colse quel filo sottile (ma oggi evidentissimo) che univa la rarefazione sonora del
black metal, l’incandescente emotività che esso era in grado di
descrivere, con i riverberi, il pathos catartico dei muri di chitarra distorta
ed effettata che rimane la prerogativa dello shoegaze (sotto-filone
dell’indie-rock, nipote del dark e cugino del noise-rock, che, nel corso degli
anni novanta, seppe configurarsi come
genere a sé stante grazie a band come My Bloody Valentine, Slowdive
e Ride: gente che non temeva l'ettricità, ma che l'affrontava con un approccio etereo, contrapponendo voci angeliche e melodie cangianti ad imponenti wall-of-sound). Ma non era solo una questione di suoni: anche da un punto di
vista di “atmosfera”, il black metal degli Alcest esprimeva un mood
solare, luminoso, velatamente malinconico. Nasceva il blackgaze, sotto-genere destinato a conoscere una grande diffusione negli anni a seguire.
Il
capolavoro “Souvenirs d’un Autre Monde” (ellepi di debutto dato alla
luce nell’anno 2007) vedeva la compresenza, da un lato, di intensi
intrecci di riff di matrice black
metal, ritmiche a volte ancora serrate, ma principalmente assestate su tempi
medi, e, dall’altro, sognanti arpeggi, fraseggi acustici e la voce nasale e
sorniona del buon Neige. Paradossalmente il tutto suonava più leggero persino
dall’assalto al rumor bianco che veniva allestito da Kevin Shields, leader
dei My Bloody Valentine e teorico per eccellenza dello shoegaze. Tramite gli
Alcest il metal del Male era divenuto una macchina di emozioni positive, una
carrellata di ricordi dell’infanzia, il richiamo a mondi di fantasia. E il
truce black-metaller si tramutava di colpo in fanciullo che, con occhi
sbarrati e stupefatti, assisteva con candore alle fantastiche evoluzioni di un
universo magico e poetico.
La
carriera degli Alcest proseguì per qualche tempo ancora lungo un sentiero
“ibrido” in cui continuavano ad essere presenti elementi black-metal (in
maniera sporadica sopravvivevano persino dei raschianti screaming) dispersi
in un contesto sonoro oramai agli antipodi del black stesso. Lavori come “Ècailles
de Lune” (2010) e “Les Voyages de l’Ame” (2012) si limitavano a perfezionare
la formula, toccando anche traguardi ragguardevoli quanto a ricerca melodica e
slancio introspettivo, ma pagavano lo scotto di non possedere più un vero target,
un pubblico di riferimento. Troppo soft e raffinati anche per i metallari
più aperti di mente (i quali s’iniziavano seriamente a spazientire innanzi a
tali sdolcinatezze), e decisamente fuori dalla portata di un pubblico extra-metal
(ammesso che chi si trovasse fuori dai circuiti della metal fosse a conoscenza
dell’esistenza dalla band), gli Alcest rischiavano di impantanarsi in una
palude molto pericolosa, nonostante gli innegabili meriti.
Per
questo nel 2014 Neige decide di smettere di menar il can per l’aia
e di rompere definitivamente gli indugi con un album di rottura come “Shelter”.
Negli intenti programmatici questo album avrebbe dovuto comportare lo scollegamento
definitivo dal mondo metal e l’approdo a lidi ancora più soft di quelli solcati in precedenza. Dallo shoegaze, potremmo dire, al dream-pop (sorta di sofisticato pop "in salsa malinconica" e sviluppato in direzione ethereal: per ulteriori dettagli, andarsi ad ascoltare i Cocteau Twins). Il tutto supportato da una furba campagna promozionale e da un videoclip ruffiano per il lancio dell'immancabile singolone paraculo “Opale”. Non è un caso che per l’impresa
viene assoldato il produttore islandese Birgir Jon Birgisson (che già
aveva lavorato con Sigur Ros) e reclutato (a prestare la voce in un
brano) niente meno che Neil Halstead (leader degli Slowdive).
“Opale”
rappresenta al meglio il nuovo volto degli Alcest. Gli ultimi residui di metal
vengono spazzati via e sostituiti da sonorità dal piglio sfacciatamente
radiofonico: echi di U2/Cure, suoni luccicanti ed arrangiamenti curatissimi
fotografano una prova misurata in cui dominano arpeggi solari, melodie
orecchiabili al limite del mieloso ed esplosioni di un’elettricità assai contenuta,
lontana anni luce dalle efferatezze di un tempo. Il tutto corredato dai ricami nebbiosi ed impalpabili della voce di Neige, che, concentrato esclusivamente sul
lato emotivo della sua musica, non pare essere cresciuto né come chitarrista,
né come cantante.
Tutte
le tracce di “Shelter” si muoveranno sulle medesime coordinate. Le ritmiche del
fido Winterhalter (unico altro membro chiamato a dare una mano al
factotum Neige) sono lineari e dettano l’andamento fin troppo prevedibile di
ballate eteree e crepuscolari in cui la voce diviene una flatulenza fatata in cui i
vocalizzi in francese sono appena percettibili. Non vi è più forza, vigore
(cosa che perlomeno ci potevamo aspettare da una band metal). In questo sforzo
di emulazione/trasmigrazione ad altri lidi, compiuto senza quei sensi di colpa
che affliggono solitamente il metallaro “traditore” e che lo spingono a controbilanciare
la propria musica-non-più-metal con tinte oscure e forzatamente
decadenti, i Nostri si spingono fin troppo in là, oltre gli stessi modelli a
cui guardano (che magari qualche distorsione più fastidiosa, o qualche
esplosione post-rock la possono anche prendere in considerazione). Un gruppo
black-metal (ammesso che l’etichetta sia ancora utilizzabile) che fa pop è come
Frankenstein che, invitato ad un aperitivo sulla spiaggia, se si deve vestire casual,
getta via la giacca logora e finisce con indossare uno smoking.
La
domanda nasce dunque spontanea: ma a noi, questo “Shelter”, ci piace, oppure
no?
Il
nostro giudizio si fa biforcuto. Se in generale gli album non-metal
fatti da band metal non ci convincono fino in fondo perché in essi ritroviamo
una faciloneria di fondo che inficia la resa finale
del prodotto (perché in questi lavori spesso la produzione non viene curata
adeguatamente, gli arrangiamenti sono dozzinali, i suoni di plastica): se tutto
questo è quello che in generale ci disturba e ci fa paura più di ogni altra cosa,
nel caso di “Shelter” possiamo stare tranquilli, ritrovando in esso la
professionalità e la sensibilità che salvaguardano perlomeno le apparenze.
“Shelter” è un prodotto ben confezionato e può essere proposto senza indugi
alla nostra amica darkettona che ascolta Cure, Sigur Ros e
Cocteau Twins. E questo per merito senz’altro della mano sapiente di
Birgisson ed alle accortezze da lui suggerite in sede di produzione ed
arrangiamento (è presente anche un set di archi ed una voce femminile ad
infarcire i passaggi più intensi): a dimostrazione di come tante volte l’abito
possa fare davvero il monaco. Dirò di più: a partire dalla bellissima
copertina, questo album, dalle forme ammalianti e seducenti, finisce con esercitare sull’ascoltatore uno strano
magnetismo, invitandolo a nuovi ascolti, a prescindere dall’effettivo spessore artistico servito sul piatto.
Se infatti
si va a guardare intuizioni, contenuti, idee ecc., beh, ci ritroviamo innanzi
ad un prodotto un po’ costruito, inconsistente, paradossalmente privo di particolari
sussulti emotivi e soprattutto scarico di soluzioni vincenti. Ma allora,
direte voi, siete proprio degli stronzi, voi di Metal Mirror: se un
prodotto con questi difetti si guadagna il nono posto della classifica dei migliori
dieci album non-metal fatti da band metal, vuol dire che l’intera area tematica
è scadente e non valeva la pena di essere approfondita! Beh, ragazzi,
nessuno vi ha detto che siamo in un bel mondo. Ricordo che la nostra è più una sfida
che altro: è come dire “ricerchiamo un bel cd in un autogrill”, oppure “una
bella fica ad un concerto dei Deicide”.
In
questo stato di cose “Shelter” è un prodotto che può essere tranquillamente
esportato in ambiti extra-metal e che indubbiamente costituisce un gradevole
ascolto nei vari momenti della giornata, magari in sottofondo mentre si guida la
macchina e si va al mare, o in filodiffusione a casa mentre si dà il cencio per
terra. Ma per quanto riguarda le emozioni, quelle vere intendo, piuttosto
andatevi ad ascoltare “Disintegration” dei Cure o “( )”
dei Sigur Ros. O, meglio ancora, “Transilvanian Hunger” dei Darkthrone.
Giusto
per spezzare una lancia a nostro favore (di noi metallari, intendo) ricordo, a
tutti quelli che, con un fazzolettino di seta davanti alla bocca celano un
sorrisino birichino di scherno innanzi alle gesta del goffo artista metal,
ricordo a costoro che certi salti non sono tanto facili da compiere. E qualora essi
continuino a pensare che sia una cazzata passare dal black alla “musica
leggera”, li prego di elencarmi tutte le band che sono riuscite a fare
l’inverso:
…non
vi viene in mente nulla?