I 10 MIGLIORI
ALBUM GLAM METAL
CAPITOLO 10: “SKID
ROW” (24/01/1989)
Perth Amboy è una tipica cittadina di provincia degli States. 50.000
abitanti circa, affacciata sull’Atlantico, segna lo spartiacque tra New Jersey
e lo stato (e la città) di New York, che con la sua Staten Island è lì di
fronte, a poche centinaia di metri. Vi si possono ritrovare le classiche strade
lunghe e diritte, con ai lati le villette monofamiliari dotate di pratino sul
davanti e l’immancabile bandiera a stelle e strisce che sventola alla finestra.
A Perth Amboy nella prima metà degli anni sessanta nascono, a meno di
due anni di distanza, John e David. Vivono nella stessa via, sono compagni di
scuola, sono amici, entrambi con una grande passione per la musica. Gioco forza
John e David cominciano a suonare assieme.
Ma non per molto perché sebbene i
due avessero una formazione musicale comune (passione smisurata per Kiss,
Aerosmith, Rolling Stones, Van Halen) le idee artistiche da sviluppare per il
futuro divergevano. John voleva seguire la strada del Glam/Hair Metal, mentre
David era maggiormente incline a sviluppare musica più dura, essendo anche un
fan sfegatato di Judas Priest e Black Sabbath.
Così ognuno per la sua strada: John,
che di cognome faceva Bonjovi, si tolse la “h” dal nome e formò il gruppo
omonimo, i Bon Jovi, e abbiamo visto con che risultati.
Invece David, Sabo di cognome (“The Snake”
per gli amici), imbarcò altri due ragazzi, il bassista Rachel Bolan e un altro chitarrista,
Scotti Hill, e formò gli Skid Row. E anch’essi non se la cavarono niente male…
Premessa/Avvertenza per i
lettori: “Skid Row” NON è il mio album preferito degli SR. E’ un album eccellente,
assolutamente, sennò non sarebbe nella nostra lista. Ma l’apice artistico di
Sabo&co, quello che per il sottoscritto è il loro vero capolavoro, verrà licenziato “solo” nel 1991 e sarà
quello “Slave To The Grind” che li consacrerà come una dei maggiori act in
campo heavy made in U.S.A. (tanto da
debuttare con questa release al primo posto di Billboard),
portandoli a suonare in giro per il mondo intero e ad aprire concerti addirittura
per i Pantera!
Ma allora, ci si potrebbe
chiedere, perché nella nostra lista non c’è “Slave To The Grind”?? Beh, per due
motivi: 1- mi sono “auto-impiccato” alla mia scelta metodologica esposta
nell’ Anteprima, cioè quella di trattare solo dischi Glam Metal americani durante
l’Era Reaganiana.
Ebbene, il secondo mandato di Ronald Reagan si concluse il 20
gennaio del 1989; quattro giorni più tardi usciva “Skid Row”…capite come non mi sia potuto esimere dall’inserire questo disco come finale della nostra
Rassegna! 2- “Slave To The Grind” NON è un album Glam. “Skid Row” si. Come ho
specificato nel precedente post sugli L.A. Guns, gli SR partendo con il debut
album da stilemi glam, per quanto rimaneggiati e portati su binari heavy, traghettarono il genere con il
loro secondo full-lenght in campo heavy metal tout court.
Ovviamente gli Skid Row anche in
STTG non si misero a suonare death metal…questo va da sé, ma l’indurimento del
sound, rispetto al disco omonimo oggetto del nostro post, fu evidente, così
come una qualità di scrittura che, se già dagli esordi molto elevata, grazie al
lavoro enorme di Sabo e Bolan crebbe ancor più.
Se poi, ad una personalità e ad
una padronanza strumentale da far invidia, aggiungiamo colui che fu scelto come
singer…allora si potrà capire il motivo del raggiungimento rapido del successo
del combo del New Jersey!
Infatti il frontman della band, dopo varie ed estenuanti ricerche,
venne individuato in un ragazzone appena ventenne di 191 cm, nato alle Bahamas ma di origine
canadese, lungo capello biondo, volto angelico quasi effeminato, che di nome fa Sebastian, di cognome Bierk e che,
forse con una certa supponenza, ma anche con una buona dose di coraggio, decise
di auto-rinominarsi nientepopodimenoche
Bach (chissà se il buon Johann
Sebastian si sarà rigirato nella tomba…)! Pochi cazzi: Bach per me è il più
grande cantante glam della decade. Non il migliore tecnicamente forse, ma di
certo il più completo. Grande estensione vocale, presenza scenica pazzesca,
carisma massimo, divenne in tempo-zero
l’idolo di frotte di ragazzine per la carica sessuale che riusciva a
sprigionare sul palco. La sua voce timbrava a fuoco ogni pezzo, modulando
l’ugola a seconda degli umori del sound, riuscendo ad essere maledettamente
efficace sia nelle parti più dure e graffianti che in quelle più melodiche e
dolci. Sebastian fu il passepartout
degli SR per il successo, ad ogni modo strameritato per la qualità della
proposta musicale…
Ma torniamo al 1989: la copertina
del disco ci accoglie in modo totalmente programmatico. La skid row infatti, locuzione intraducibile in italiano, è quella
parte fatiscente delle città moderne frequentata da ladri, vagabondi,
alcoolizzati e drogati. E infatti le cinque silhouttes
dei membri della band, in un atteggiamento tra il depresso e lo sballato, sono
immortalate nel bianco e nero della copertina; figure scarsamente riconoscibili
e che a malapena si stagliano sul triste sfondo di uno squallido muro urbano.
Il nome della band campeggia a caratteri cubitali rosso-sangue.
Ciò a cui
rimandano tutti questi elementi, in modo chiaro e inequivocabile, è lo street/sleaze nato negli anni
immediatamente precedenti (e che abbiamo visto essere stato portato alla
ribalta commerciale da Gn'R e L.A. Guns). Ma il cocktail degli SR va ben oltre
le band di riferimento del sottogenere che abbiamo conosciuto. Dei Gn'R hanno la
presenza, questo sì, ma le bordate che fuoriescono dal platter rimandano più
alla verve dei Motley Crue riveduti e corretti in chiave metallica; mentre le
melodie, di cui comunque il gruppo fa largo uso, ricordano i “cugini” Bon Jovi.
Ma gli SR risplendono di vita
propria e tutte le influenze succitate sono elaborate e riproposte in modo
originale, con quella rabbia ed aggressività tipicamente street e quella personalissima predisposizione heavy che trasuda dalla scrittura di Sabo.
E questo è esemplificato in
maniera plastica già dall’ottima opener
“Big Guns”, un mid tempo arcigno, aspro, con chitarre taglienti e la corposa
voce di Bach a condurci verso un ritornello memorabile cantato in coro; un
antipasto che mette già in chiaro le cose e che introduce la splendida “Sweet Little
Sister”, una canzone sinuosa e trascinante e che si rivelerà uno dei pezzi
migliori del lotto.
Ma inutile girarci attorno: le
fortune di “Skid Row” la fecero i singoli estratti. In primis “Youth Gone
Wild”, brano immortale che mette al centro il tema del ribellismo delle giovani
generazioni delle periferie suburbane, trattato però con quella serietà street che segnava, come abbiamo visto,
un distacco con la scanzonatezza tipicamente glam.
E poi “18 and Life”, una delle
metal ballad più famose di sempre, dal testo emozionante e tragico (“He fired his six-shots to the wind – that
child blew a child away”), dal feeling unico, dove il tòpos sleaze del disagio
giovanile trova il suo tragico climax emotivo.
Poi, tra brani più easy listening e spostati sul versante
hard rock (“Can’t stand on a heartache”, “Here I am”) e buoni pezzi di contorno
dalla forte carica sleaze metal come “Piece of me”, “Rattlesnake shake”, “Makin’ a mess” (ad ogni modo lungi
dall’essere dei filler), si arriva alla magica accoppiata
finale del disco che è forse l’emblema di quello che hanno simboleggiato gli SR
nel 1989 e del perché, alla resa dei conti, li abbiamo scelti come gruppo di
chiusura della nostra Retrospettiva.
Il primo è “I Remember You”, la
classica ballatona strappalacrime, canzone fatta su misura per rubare i cuori
delle masse di fanciulle che ascoltavano glam negli anni ottanta, che risponde
perfettamente ai canoni del genere e in cui Bach raggiunge vette altissime con
la voce, dimostrando una preparazione tecnica invidiabile.
Con questa canzone gli SR
sottolineavano il collegamento col passato, le loro radici glam, l’adesione
agli stilemi classici che hanno fatto la fortuna della Scena.
Il secondo pezzo, che è anche
quello di chiusura del disco, è invece quella bomba che risponde al nome di
“Midnight/Tornado” il pezzo più heavy del lotto, con un flavour maideniano
notevole. Un brano che, all’opposto di quello che lo precede in scaletta, segnò
la rotta per il futuro e la direzione evolutiva della band; evoluzione personale
che li porterà fuori dal genere stesso e che verrà consacrata nel capolavoro
succitato di due anni dopo…
E qui, con questo rimando
all’11/06/1991 (giorno in cui venne pubblicato “Slave To The Grind”), ci
fermiamo; anche perchè possiamo considerare tale riferimento come la migliore
chiusura artistica, lo zenith di un’intera Scena, quella Glam Metal, che di lì
ad appena due mesi sarebbe stata travolta da un uno-due mortale, da immediato K.O. Un’accoppiata di album che, tra
l’agosto e il settembre del 1991, avrebbe sotterrato non solo il Glam Metal
nella sua interezza, ma avrebbe rivoluzionato l’intero panorama musicale
mondiale.
E proprio questi due album saranno
al centro del nostro prossimo ed ultimo post a tema Glam, quello delle Conclusioni…