I
MIGLIORI DIECI ALBUM NON-METAL FATTI DA BAND/ARTISTI METAL
6° CLASSIFICATO: “LIGHTS OUT”
Che
vi piaccia o meno, non poteva certo mancare, nella nostra rassegna dedicata ai migliorialbum non-metal, Duncan Patterson, ex bassista degli Anathema,
nonché colui che prese per mano i fratelli Cavanagh e li condusse
educatamente, lungo corridoi pinkfloydiani, fuori dal death/doom di cui
erano stati splendidi interpreti assieme a Paradise Lost e My Dying Bride.
Gli
Anathema sono stati fra i più brillanti protagonisti di quel flusso migratorio
che ha portato, nella seconda metà degli anni novanta, molte band nate nel
calderone del gothic metal verso nuovi ed impensabili lidi. C’è chi si è dato
alla dark-wave, chi all’elettronica ambientale. Quanto agli
Anathema, essi hanno avuto le idee chiare fin dall’inizio: dare emozioni,
a prescindere dalla veste indossata.
Nel loro
lungimirante percorso evolutivo i Nostri hanno mantenuto saldo il timone della transizione
avendo ben in mente le lezioni dei Pink Floyd: prima cogliendone gli
aspetti più cinematici, dilatati, spaziali (guardando dunque al lato più magniloquente
della band inglese, alle suite infinite di album come “A Saucerful of
Secrets”, “Meddle”, “Atom Heart Mother”, “Wish You Were
Here”), successivamente concentrandosi sul lato più intimo e teatrale degli
stessi, approccio che ha caratterizzato quella parte della discografia in cui Roger
Waters detenne il più assoluto controllo della direzione artistica della
band (ci riferiamo ovviamente a lavori come “The Wall” e “The Final
Cut”).
In
questo cammino di emancipazione progressiva dagli stilemi del metal, è stata
fondamentale la penna di Duncan Patterson, ispiratore primo di questa
metamorfosi. Nel già splendido EP “Pentecost III” e nel capolavoro della
prima fase “The Silent Enigma” la componente pinkfloydiana (le
atmosfere sognanti, l’imponenza delle orchestrazioni, le infinite code
strumentali ecc.) faceva ancora a cazzotti con il monumentale catastrofismo dei
Celtic Frost (altra dichiarata fonte d’ispirazione per Patterson). Ma quelli
dell’Enigma Silenzioso furono gli ultimi strascichi di metal negli
Anathema: già nel successivo “Eternity”, ed ancor di più in “Alternative
4”, la
volontà di affrancarsi dal Reame del Metallo si sarebbe imposta con maggiore evidenza.
Ebbene,
quelle appena citate sono due opere concepite e scritte per buona parte da
Patterson: “Eternity”, impetuoso saggio sulla fragilità dell’esistenza
umana, porta con sé quella irrequieta tensione verso l’Assoluto che
caratterizzerà tutta la produzione discografica successiva del bassista. La
musica degli Anathema conserva forse qualche “rozzosità” di fondo, ma nei fatti
è già un flusso di emozioni che oscillano senza posa fra Sogno e (amara)
Realtà: un viaggio onirico dove i suoni si fanno sempre più impalpabili e la
voce di Vincent si assesta definitivamente su un sofferente pulito.
Con
“Alternative 4”
avviene il “sorpasso”: in questo album gli Anathema sono più prossimi alla
sfera del dark o del rock progressivo che al metal in senso stretto. Essi
troveranno nella ballata di piano o di chitarra acustica la loro dimensione
ideale, fatta di struggenti melodie e di un’irrequietudine sottocutanea che muta
velocemente dal sussurro soffocato al grido liberatorio, come insegnato dal
maestro Roger Waters. Sarà proprio questo continuo indugiare su soluzioni
riconducibili al repertorio dei Pink Floyd, il passeggiare con piedi malfermi
sullo scivoloso terreno del plagio, a penalizzare un album che vede gli
Anathema perdere parte della loro personalità nel voler forzatamente tentare
nuove strade.
Si
capisce che questo era un equilibrio instabile e che non avrebbe retto per molto
altro tempo ancora. All’indomani della pubblicazione di “Alternative 4”, avvenne dunque l’inevitabile separazione
fra le due entità degli Anathema: da un lato il fronte gilmouriano di Daniel
Cavanagh (fiancheggiato dal fratello Vincent), dall’altro quello watersiano
rappresentato da Duncan Patterson il sognatore, il visionario. Evidentemente
troppe teste pensanti non potevano convivere nella medesima band.
E
così Patterson uscirà dal gruppo fondando una “società” nuova di zecca: gli Antimatter.
Essi, più che una band, saranno un progetto diviso con Mick Moss,
cantante/polistrumentista di innegabile spessore. Gli album degli Antimatter
vedranno spesso i due musicisti spartirsi i brani, componendo e suonando
in autonomia, cosa che peraltro non ci stupisce più di tanto, considerata
l’indole autoritaria e poco incline ai compromessi di Patterson. Il giochetto
durerà il tempo di tre soli album, considerato che nel 2005, durante la
lavorazione di “Planetary Confinement” (che sarebbe uscito poi come il
parto di due band distinte), Patterson lascerà nuovamente, mentre Moss, rimasto
il titolare unico del progetto, avrà l’onore e l’onere di portare avanti il
discorso da solo (fra l’altro in modo credibile, almeno con l’immediatamente
successivo ”Leaving Eden”, che godrà nientemeno del supporto alle sei
corde dello stesso Daniel Cavanagh).
Il
primo album degli Antimatter, “Saviour” (del 2001), è quello che
di più si discosta dall’Anathema-sound, probabilmente perché in esso vanno
a convergere quelle energie che negli Anathema non era più possibile esprimere.
Le sonorità contenute in questo album vertono spericolatamente verso i lidi del
trip-hop di Bristol (che ha detto Portishead?): la vena
malinconica, le suggestioni pinkfloydiane permangono, ma la componente
elettronica è talmente preponderante che i punti di contatto fra le due
formazioni rimangono veramente poche.
Discorso
diverso vale per il secondo full-lenght della band, quel “Lights Out”
(del 2003) che in qualche maniera si riavvicina agli Anathema, forse
perché, con maggiore serenità, Patterson avrà modo di riappropriarsi del suo
mondo creativo. Proprio per questo motivo, riteniamo che sia questo episodio il
meglio riuscito dell’era-Patterson: in esso le due sensibilità trovano
un equilibrio che permette loro di completarsi a vicenda e non di ostacolarsi.
La vena cantautoriale di Moss (splendida la sua voce, a metà strada fra Riccardo
Cocciante ed Eddie Vedder dei Pearl Jam) si sposa alla
perfezione con gli irrequieti landscape disegnati dal bassista, oramai
in pianta stabile anche dietro alle tastiere, al pianoforte ed alle basi
elettroniche.
A
proposito di quest’ultime, esse abbandoneranno soprattutto nei brani a sua
firma, nei quali si farà largo uso di voci femminili come da migliore
tradizione pattersoniana (del resto il nostro ha tante qualità, ma non
certo quella di essere dotato di un’ugola sibillina, visto che, nonostante la
sua voglia di strafare in tutti i campi, egli abbia deciso di non cimentarsi al
canto praticamente mai, se non in occasione di qualche sporadico sussurro, o camuffato
dietro ad un vocoder). Il risultato è una sorta di musica
inclassificabile che non potremmo che ricondurre all’empireo della dark-wave.
In continua oscillazione fra intimo cantautorato ed oscura elettronica, il
nuovo verbo di Patterson si compone di giri ossessivi di basso che misurano l’implacabile
incedere di tracce spesso di estesa durata. Su di esse: il languore di voci
maschili e femminili che si alterano accompagnate da gelidi sintetizzatori, organi
funerei, raggelanti note di pianoforte e fraseggi elettroacustici di chitarra.
Un
esercizio per noi interessante sarebbe quello di individuare i punti di
contatto fra questi Antimatter e gli Anathema per capire, al netto del
contributo dei fratelli Cavanagh, qual fosse il peso specifico di Patterson in
seno alla sua vecchia band. Sono dunque patrimonio del bassista quelle ambientazioni
che odorano di soliloquio watersiano: un universo psicotico in cui
i testi pessimisti varranno agli Antimatter l’appellativo di “the saddest
band”. Da un punto di vista stilistico, le visioni di Patterson trovano
espressione anche in determinati stilemi: le malinconiche note di un pianoforte
suonato con attitudine minimalista, il prolungamento drammatico di un feedback
di chitarra che attraversa ballate che evocano la tensione di brani come “Welcome
to the Machine” e “Hey You”; i sussurri, l’eco delle parole che si
dissolve velocemente, un grido liberatorio che irrompe improvviso dalla quiete.
I lunghi monologhi di una voce campionata e, infine, il canto solitario e senza
tempo di una fata (nenie che trovavano spazio fin dai tempi di “Crestfallen”
e “Serenades”, tutta farina di Patterson, evidentemente).
Quanto
alla componente trip-hop, questa è una novità assoluta. Non per il mondo metal,
dato che già in passato avevamo incontrato altrove tentativi analoghi. Basti
citare il bellissimo “Memoirs” dei norvegesi The Third and the Mortal
che per un pelo non sono rientrati in questa classifica, soppiantati dallo
stesso Patterson che, come si diceva in apertura, non poteva non essere contemplato.
Riconosciuta
questa sua innegabile importanza, debbono però esserne riconosciuti i limiti. Lasciamo
da parte, almeno per il momento, le carenze tecniche: come già disquisito in
occasione degli Alternative 4 (sua ultima incarnazione artistica), di
quelle melodie un po’ scontate, fatte con le solite note di pianoforte suonate
con tocco da elefante, sinceramente non se ne può più. I limiti più gravi per
un autore come Patterson, semmai, sono da un lato l’autismo/isolazionismo e
dall’altro quell’approccio un po’ “frescone” ai temi esistenzialisti che si
ostina a voler trattare.
Su
questo autismo, che ha portato nel tempo il Nostro ad impantanarsi nelle sabbie
mobili della sterilità artistica, è già stato detto qualcosa: più invecchia, il
Nostro, e più si incancrenisce nelle solite citazioni pinkfloydiane,
come se tendere a brani come “Hey You” (vero ideal-tipo della canzone
perfetta secondo Patterson) fosse divenuta una vera e propria ossessione, una morbosa
e frustrante tensione verso un Assoluto evidentemente non alla sua portata.
Appoggiarsi alle lezioni dei maestri va bene, ma poi ad un certo punto un
artista deve metabolizzare quelle lezioni, rielaborarle in modo personale e
procedere avanti: un po’ come hanno saputo fare gli ex colleghi Anathema, che
nel tempo hanno arricchito la loro visione artistica con elementi mutuati da
altre sorgenti (Radiohead e Sigur Ros, per esempio). Patterson
invece no: rimane negli anni (e tuttora lo è) uguale a se stesso, ossia uno squallido
poeta dello squallore, una sorta di Roger Waters de noialtri, che non
riesce ad essere regista come Waters e, a dirla tutta, non dispone dei mezzi
che poteva avere Waters per realizzare le sue idee.
Quanto
al secondo punto, l’indugiare sui temi dell’angoscia e dell’afflizione,
spiattellando le emozioni nel modo esplicito con cui lo fa lui, senza tanto
amor per le metafore (siamo giunti alla fine, non c’è soluzione, ho perso il
controllo sono frasi tipiche del Patterson paroliere), è una pratica che sulla
lunga distanza non può che far nascere delle perplessità. In particolar modo laddove
i testi sono perfettamente intellegibili alle orecchie dell’ascoltatore, o
perché le basi musicali sono minimali, o perché le parole sono ben scandite. Da
questo punto di vista, c’è almeno da dire che gli Anathema, anch’essi eccessivamente
prosaici (con l’aggravante di essere fin troppo zuccherosi), non faranno molto
di meglio.
Che
vi piaccia o meno, il contributo di Patterson alla causa della emancipazione
del metal dai suoi stilemi classici rimane comunque fondamentale. Senza
considerare che quando è ispirato sa sfornare capolavori del disagio
come questo “Lights Out”, da pelle d’oca dalla prima all’ultima nota. Con i
suoi pregi e i suoi difetti, Patterson è un artista coerente, che ha sempre
lavorato con onestà, assecondando la sua urgenza comunicativa, inseguendo
quelle che erano e che sono tutt’oggi le sue visioni. Uguale a se stesso,
continua imperterrito a lavorare nell’oscurità per l’oscurità verso
l’oscurità, teso nella direzione di quell’Eternità che gli viene
beffardamente negata.
Do you think we’re forever?