23 set 2015

UN IHSAHN DA PELLE D'OCA: MA ALLORA ERA TUTTA COLPA DI SAMOTH?




Partiamo subito dicendo che non abbiamo niente contro il povero Samoth. Dirò di più: a me sta proprio simpatico! La sua chitarra sporca e marcissima ha costituito indubbiamente qualcosa di seminale per la nascente scena black metal norvegese agli inizi degli anni novanta.

E allora che colpe deve avere il povero Samoth?

Nessuna. Il nostro è solo un titolo ad effetto che evidenzia una sequenza di fatti: gli ultimi album degli Emperor non ci hanno entusiasmato; poi, lo scioglimento del gruppo e, a seguire, una sorprendente carriera solista di Ihsahn, il vero protagonista di questo nostro scritto. Che l'allontanamento dal suo ex compare abbia giovato all'ispirazione del cantante/polistrumentista? Sicuramente, ma la sua rinascita artistica poco c'entra con Samoth e con gli ultimi parti discografici degli Emperor, nei quali il buono e il cattivo tempo lo ha fatto sempre e solamente lui, Ihsahn.   

In the Nighside Eclipse” è stato un debutto grandioso, insuperabile, nonché un lavoro fondamentale per la genesi del filone sinfonico del black metal. La produzione discografica successiva degli Emperor, tuttavia, non è stata alla sua altezza. Ok, nel 1994 tre quarti degli Emperor furono ingabbiati, compreso il buon Samoth (condannato per profanazione di luoghi di culto), pertanto possiamo capire le difficoltà oggettive vissute dalla band nel dare un seguito al brillante esordio. “Anthems to the Welkin at Dusk” vedrà la luce dunque tre anni dopo, nel 1997, con Ihsahn e Samoth come unici supersiti del nucleo originario. Completeranno la formazione Alver, subentrato al posto di Tchort, e Trym al posto di Faust.

Due parole su Trym. Egli è senza ombra di dubbio un batterista portentoso, potentissimo e tecnicamente dotato: chi l’ha visto dal vivo sostiene che è una vera forza della natura. Eppure a me il suo stile frullatore-tritatutto/doppia-cassa-perenne non mi ha mai convinto. Con Faust gli Emperor viaggiavano in maniera diversa: erano più fluidi, più eleganti, scorrevano meglio. Trym invece pesta come un dannato, mi dà agitazione. E con il passare degli anni ha principiato pure a “singhiozzare” sulle orme del drumming marziale del suo maestro spirituale Pete Sandoval.

Questa freddezza esecutiva ha un po’ irrigidito il sound degli Emperor, i quali progressivamente si sono allontanati dagli stilemi del black metal. Se comunque con il bel “Anthems to the Welkin at Dusk”ci si poteva ancora stare, con il terzo “IX Equilibrium” (del 1999) proprio no. Beninteso, gli Emperor non hanno mai fatto dischi di merda: finché sono esistiti, hanno lavorato con professionalità, rilasciando album capaci di assestarsi su livelli decisamente sopra la media. E’ solo che hanno iniziato a fare dischi che non sapevano di un cazzo. Sapevano suonare, si sforzavano di comporre roba ricercata, mantenevano il loro trademark, ma si sono spenti: la loro musica non è più stata magica.

E’ lecito presupporre che in questo processo di inaridimento Samoth c’entri poco o nulla: il suo compito è sempre stato quello di fare casino, al resto pensava Ihsahn che è il vero responsabile artistico degli ultimi album degli Emperor. “Prometheus: The Discipline of Fire and Demise” (del 2001) addirittura è stato composto e suonato interamente da Ihsahn, salvo ovviamente le parti di batteria, assegnate di diritto a Trym. Quanto a Samoth, che compare ancora in formazione, lo vediamo accreditato alle “additional guitars”. Probabilmente egli, sempre meno coinvolto nel progetto, è stato lasciato in line-up in quanto fondatore e membro storico, ma con gli Emperor poco oramai c’azzeccava. Non a caso sarà Ihsahn a staccare la spina all’Imperatore: via lui, festa finita.

Mano a mano che Ihsahn assumeva il controllo della baracca, fidandosi del fido Trym, le fattezze degli Emperor mutavano progressivamente dal black metal a forme sempre più astruse di metal estremo, a metà strada fra death metal, heavy metal e musica classica. Anche i suoni si ripulivano di album in album, e da questo capiamo come Samoth intervenisse sempre meno.

Con gli album successivi quell’alone di mistero dato da suoni confusi che non permettevano di capire cosa i musicisti suonassero, si dissolverà.  “Anthems to the Welkin at Dusk” sarà ancora caotico, ma la migliore definizione dei suoni non farà altro che evidenziare le imprecisioni, se non gli errori, in fase di esecuzione. Gli Emperor, questo va detto, avevano inizialmente il fascino della bella ragazza che vediamo correre al parco, che sfreccia con i capelli al vento, mostrando belle gambe e tette sode che ballonzolano su e giù in una danza ipnotizzante. Avvicinandoci alla medesima ragazza, mentre essa si ferma per fare stretching, noteremo ahimè le imperfezioni del viso, la pelle adiposa, il culo un po’ sfatto.

Con gli album successivi la situazione peggiorerà, perché i suoni saranno praticamente ripuliti, nitidi alle nostre orecchie e le sbavature corrette. È la musica stessa a perdere di cuore, castigata in note definite e cambi di tempo chirurgici. “Prometheus” è in pratica il primo album solista di Ihsahn: di black non c’è più praticamente nulla, salvo quella voce da tacchino strozzato che è sempre stata il punto debole degli Emperor. Il tutto si muove su coordinate che potremmo definire sperimentali: il metal maestoso dell’Imperatore viene dissezionato, giocando molto sulle dissonanze, tanto che in più di un frangente vengono in mente i Voivod. Secondo me è qui che nascono band come i Deathspell Omega, ma a parte questo, l’album mostra le zanne di un death iper-tecnico, qua e là mitigato da umori wagneriani, da orchestrazioni che, pur continuando ad esistere, non ricoprono più quel ruolo dominante ed ammaliante che ebbero in origine.

Insomma, tutto quello che è Ihsahn con i suo i pregi e i suoi difetti: l’Ihsahn nietzscheano dell’affermazione dell’individuo, l’Ihsahn elitario, il faustiano, il prometeico, colui che fa patti con il diavolo, colui che ruba il fuoco agli dei per donarlo agli uomini, l’alchimista fautore di un metal estremo con ambizioni da camera. Grazie a quel clavicembalo trillante che funge da intro all’openerThe Eruption” intuisco finalmente tutto l’amore di Ihsahn per le palazzine liberty, per le palle depilate, per i teschi sopra i libri rilegati in pelle sulle scrivanie di ebano, per le calze bianche e le scarpine lucide con fibbia d'oro da rivoluzionario giacobino. Grazie a quelle poche note comprendo la deriva razionalista dell’Imperatore, che nel frattempo ha perso tutto il candore e la spontaneità delle ruvide chitarre marce di Samoth e delle orchestrazioni all’acqua di rose che invischiavano tutto il resto della strumentazione (voce compresa – e meno male!) e tratteggiavano i contorni dei mondi fantastici partoriti dalla mente visionaria di Mortiis. Concettualmente tutto integrante e squisitamente faustiano (anche se non c'è pià Faust - ahahahaha): peccato che musicalmente ci si riduce ad un death algebrico tagliato in maniera eccessivamente razionale ed infestato da quella vociaccia insopportabile che pare si strappino le corde vocali senza neppure urlare.  

Per tutti questi motivi non ho mai considerato degna di essere ascoltata la carriera solista di Ihsahn, sebbene titoli come “The Adversary” (2006), “Angl” (2008), “After” (2010), “Eremita” (2012) e “Das Seelenbrechen” (2013) siano parecchio invitanti. Come si fa a non comprare, infatti, un album che si chiama “Eremita”?

Resisti oggi, resisti domani, alla fine non ho retto e mi sono comprato “Eremita” e “Das Seelenbrechen” in una botta sola.  Ebbene? Pelle d’oca.

Sono album bellissimi, entrambi. E se un bell’album è un bell’indizio, due buoni album divengono legge inconfutabile. Per questo mi sento di ampliare questa mia impressione a tutta la discografia del Nostro e gridare: Ihsahn è un grande!

Musicalmente parlando non è sbagliato sostenere che ci troviamo di fronte ad una sorta di evoluzione del sound abbozzato in “Prometheus”. Di black metal rimane pochissimo, ma non è un dato preoccupante: si era capito che il nostro uomo si sarebbe rivolto verso i territori del progressive, se non della musica d’avanguardia (basti pensare al progetto dark/industrial Peccatum condiviso con la moglie). Il fatto è che tutto adesso finalmente torna. A contare, secondo me, è il fatto che non c’è più Trym a rompere i coglioni con la sua esagitazione: il nuovo batterista Tobias Ornes Andersen, non risultando mai invadente, mostra un tocco preciso e raffinato quanto basta per divenire l’ideale supporto ad Ihsahn, che si occuperà di tutto il resto (voce, chitarra, basso, tastiere, programming).

L’impronta di Opeth e Porcupine Tree è fortissima, tanto che potremmo definire il tutto neo-progressive. Le voci pulite abbondano, ma non sono quei cori da osteria mistica con cui il Nostro ci aveva abituato ai tempi degli Emperor: finendo per assomigliare in modo preoccupante allo stesso Akerfeldt, Ihsahn sfoggia una “nuova” voce pulita, più dimessa ed intonata, perfettamente integrata in un sound che si muove a metà strada fra Arcturus (quelli di “The Sham Mirrors” – e non è un caso che Ihsahn abbia in precedenza cantato proprio in un pezzo di quell’album!) e i gruppi sopra citati, senza ovviamente trascurare il resto del treno dei desideri (Death, Morbid Angel, Bathory Destruction, King Diamond ecc.). Il tutto alla luce di una crescita tecnica esecutiva che è riscontrabile, fra le altre cose, in più di un assolo strepitoso.

Nella mia intenzione di parlare del tema in modo superficiale, non nego che mi piacerebbe recensire i due album come se fossero una cosa sola, ma, sebbene le analogie siano molte, un distinguo lo devo fare. “Eremita” è più progressivo nell’accezione classica del termine; inoltre dispone di un bel sax di estrazione free-jazz che imperversa per più di un brano. Devo infine ammettere che in un paio di sparate viene in qualche modo resuscitata anche l’antica magniloquenza degli Emperor. E non è cosa da poco. “Das Seelenbrechen”, che tendo a preferire, mantiene un profilo prog, ma porta con sé delle sfumature più smaccatamente avanguardistiche, rese principalmente da soluzioni ritmiche convulse che ben si abbinano a frasi dissonanti di chitarra, ai limiti del noise. Il tutto addolcito da una ballata in stile depechemodiano.

Per il resto gli ingredienti sono i medesimi, voce starnazzante compresa: ma è l’approccio ad essere più maturo ed equilibrato. Tant’è che finisco per preferire la carriera solista di Ihsahn agli album dei tardi Emperor, ancora sporcati dalla chitarra di quel casinista di Samoth e agitati dalla batteria roboante di Trym.

Quando si dice, meglio soli che male accompagnati…