21 nov 2015

VOIVOD: “JACK LUMINOUS”




I MIGLIORI DIECI BRANI “LUNGHI” DEL METAL CLASSICO

4° CLASSIFICATO: “JACK LUMINOUS” (VOIVOD)

The Outer Limits” ha rappresentato un importante snodo nella carriera dei Voivod. Correva l’anno 1993 e dopo la sua uscita, mi ricordo, si percepì chiaramente una sensazione di smarrimento, di “vuoto”, dovuta forse all’abbandono da parte del cantante storico Denis Bélanger, forse ai timori per un possibile scioglimento, forse all'incertezza di un mondo (quello metal) che stava cambiando. Ma fu solo la sensazione di un attimo: appena due anni dopo, come se niente fosse la band si sarebbe riaffacciata sul mercato discografico con un nuovo cantante, Eric Forrest, ed un album, “Negatron”, che avrebbe riportato di colpo il sound dei canadesi alla violenza ed alla pesantezza degli esordi.


Fra un passato in costante evoluzione ed un  futuro di drastica rottura e ripiegamento verso il passato più remoto, “The Outer Limits” fu come risucchiato da un buco nero: è come se la carriera dei Voivod si fosse in quel punto spezzata e i frammenti di quel periodo fossero stati proiettati in un'altra galassia. L'album divenne quasi subito irreperibile, scomparendo per un lungo periodo dagli scaffali dei negozi (non so nemmeno se esso sia stato successivamente ristampato – quanto a me, mi custodisco gelosamente la copia acquistata nel 1993!) e presto i suoi brani fecero la stessa fine, dissolti e mai più presenti nelle scalette delle esibizioni live.

Fra questi c’era anche la suiteJack Luminous”, saggio fenomenale di genialità compositiva ed impeccabilità esecutiva, un’osservazione lunga ben diciassette minuti e ventisei secondi: meritatissimo quarto posto nella nostra classifica dei migliori brani lunghi del metal.

E’ un peccato che un gioiello di questo valore rischi di rimanere sconosciuto ai più. In molti oggi incensano i Voivod, ma spesso ci si riferisce ad album quali “Dimension Hatross” e “Nothingface”, splendidi esemplari di quel thrash spaziale/progressivo/psichedelico/e-tutto-quello-che-diavolo-volete con cui i canadesi sono stati con il tempo identificati. Ma questo è vero fino ad un certo punto: dal caos dei primordi si pervenne sì alla iper-complessità labirintica degli album appena citati, ma poi il vettore cambiò bruscamente direzione, orientandosi verso schemi più semplici. In effetti i Voivod, nella loro imprevedibilità, rischiavano di diventare prevedibili, per questo si rese necessario un cambio di rotta: “Angel Rat” prima e “The Outer Limits” dopo ci consegnarono dei Voivod assolutamente inediti, alle prese con pattern lineari e melodie di facile presa. Un approccio che sacrificherà i fumi della psichedelia sull'altare della schiettezza del punk, pur non perdendo quello spirito di ricerca che era stato ereditato dalla migliore tradizione progressive degli anni settanta.

Non ci avete capito nulla? Prendete allora un genio delle sei corde come Denis D'Amour, un virtuoso che suona il “thrash metal” con una vagonata di effetti e con ben in mente le lezioni di Robert Fripp e di David Gilmour (e non è un caso che sia King Crimson che Pink Floyd siano stati coverizzati più volte nel corso della  carriera dei canadesi). Prendete un batterista clamoroso come Michel Langevin: tecnico, potente, con uno stile personalissimo che gli permettere di gettarsi in un'infinità di cambi di tempo, senza perdere in fluidità e scorrevolezza, un vero trascinatore (nonché paroliere, illustratore e anima visionaria della band!). Prendete infine una voce assurda (pulita, sorniona, obliqua, beffarda) quale è quella di Denis Bélanger, improvvido incontro fra Syd Barrett e Johnny Rotten (!!!). Lasciate pure vacante per un momento la postazione al basso (in “The Outer Limits” ci imbatteremo in un session-man, Pierre St-Jean, chiamato a sostituire il dimissionario Jean-Yves Thiérault) e ricomponete questi ingredienti in un power-trio di rushiana memoria: avrete i suoni incomparabili di “Jack Luminous”, apice dell’astrazione stilistica dei Voivod. Una semplificazione che odora di attenta riduzione di elementi volta ad una essenza densa di complessità!

E non abbiamo tirato in ballo i Rush solo perché, come i Voivod, sono canadesi: la suite2112” è per esempio un calzante precedente, visto che anche i Voivod giocano la carta della fantascienza distopica: l’idea di un brano così lungo nacque, a detta degli autori stessi, proprio perché tutto doveva essere raccontato in una volta sola. Il brano, attraverso le parole di un profeta inascoltato (che presumo essere proprio il Jack Luminoso del titolo), ci racconta dell'incombente minaccia costituita dal perfido Presidente X-D: tiranno dominatore della galassia grazie alla sua capacità di manipolare le menti (tema tipico della fantascienza distopica).

Menzioniamo i Rush anche perché i Nostri, come pochi altri, hanno saputo coniugare heavy-metal e rock progressivo in un modo così intelligente, essenziale e non barocco (che invece è tipico del prog-metal così come lo stavano coniando i Dream Theater proprio in quegli anni). E’ opportuno a questo punto chiarire una questione annosa: in tanti definiscono i Voivod come i Pink Floyd del metal, ma io, da fan di entrambe le band, non ho mai trovato grandi punti di contatto fra le due entità, se non nelle atmosfere spaziali che possono ricordare i primi Pink Floyd (si considerino brani come “Astronomy Domine”, fra l’altro coverizzata dai Voivod, ed “Interstellar Overdrive”), in certe inflessioni barrettiane nel canto di Belanger o in certi assolo palesemente gilmouriani di D'Amour. Piuttosto trovo maggiore vicinanza alle graffianti derive prog dei King Crimson (di album caotici e dissonanti come “Starless and Bible Black” e “Red”), o con le fughe allucinate dei Van Der Graaf Generator più cosmici (impossibile non pensare alla suiteA Plague of Lighthouse Keepers”). E, credetemi, tutto questo sarà presente in “Jack Luminous” ovviamente trasfigurato e reso irriconoscibile dall'operare bizzarro e personalizzante dei tre del Quebec.  

Il brano vive di una grande coesione, sebbene, a guardar bene, sia “scomponibile” in sette sezioni. La prima è una irresistibile sarabanda strumentale che funge da introduzione, o, se vogliamo, da overture. Fra effetti spaziali dallo squisito sapore vintage (sembrano tirati fuori dai film di fantascienza degli anni trenta!) ed avvincenti cavalcate di chitarra scorrono così i primi tre minuti. D’Amour è un fiume in piena e dalle sue mani escono note spericolate che possiamo ricondurre a binari thrash metal (più che altro per la reiterazione dei riff) spesso spezzati da improvvise virate hendrixiane. Tutto procede per il meglio, suscitando grandi aspettative.

In realtà lo sviluppo delle premesse non è scontato (come del resto niente può essere scontato quando si ha a che fare con i Voivod): il brano, sì dinamico e variegato, non è di certo un luogo in cui capita di tutto. La sua lunghezza, per certi aspetti, è solo concettuale, narrativa. Le tre sezioni successive sono mini-canzoni, ciascuna dotata di un proprio ritornello, tutte e tre fuse senza lasciar un attimo di respiro all’ascoltatore, come se si trattasse di un medley (con risultati non distanti, nello spirito, dal travolgente susseguirsi delle tracce nella seconda facciata di “Abbey Road” dei Fab Four). Saranno forse abbozzi di canzoni autonome che la band aveva concepito come episodi isolati, ma anche così legate insieme queste schegge soniche non sfigurano affatto, grazie all’incredibile lavoro di saldatura compiuto dietro alle pelli dall’irrefrenabile Langevin che  ci trascina a velocità variabili alla quinta sezione.

Essa potrebbe essere definita quella dello “scazzo” centrale con assolo, ed a mio parere è la porzione migliore: una progressione vorticosa che trascina l’ascoltatore in un escalation di tensione crescente, di velocità crescente, che culmina in un assolo letteralmente esplosivo. Tornano alla mente i vecchi Voivod, abili pittori di scenette spaziali al cardiopalma, tratteggianti navette che sfrecciano alla velocità della luce, computer fuori controllo e dispositivi sull’orlo del collasso. La ritmiche rimangono sostenute, le atmosfere si fanno ulteriormente allucinate, non tanto nel senso dello space-rock degli Hawkwind, bensì per la carica visionaria e schizoide che richiama palesemente i già citati Van Der Graaf Generator.

Undicesimo minuto: la quiete dopo la tempesta. Finalmente la batteria si cheta e si spalanca un’oasi acustica, una sorta di micro-ballad in cui un Belanger candidamente sconsolato sfoggia una vocalità dimessa e vagamente anni sessanta che ricorda certi momenti di “Angel Rat” (la title-track). Il montare delle percussioni e delle chitarre elettriche rafforzate da effetti, delay e risucchi vari, prepara la rincorsa finale che ci trasporta direttamente alla conclusione di questo incredibile viaggio interstellare.

Perché infine ci piace questo brano: perché non è la tipica suite del metallo, perché non ha l'enfasi tipica della suite del metallo. In questo capolavoro di ricerca e sintesi (in cui la complessità diviene focalizzazione di idee e sviluppo ragionato delle stesse, senza ombra di dispersione), i Voivod dimostrano di essere grandi senza ostentarlo, non ricorrendo ai sinfonismi con cui spesso si infarcisce un'operazione di questo tipo. Se i Voivod fossero dei delinquenti, ti ammazzerebbero con un bel sorriso dipinto sul volto e una semplice coltellata all'addome. Se fossero una bevanda alcolica, sarebbero un succo si frutta con gin, che al primo assaggio sembra innocuo, ma che poi ti stende dopo due bicchieri. E tale è “Jack Luminous”: un brano monumentale di cui scopri la grandezza solo se non ti dimentichi, verso la fine, di buttare un occhio sul display del lettore cd...