28 apr 2016

RECENSIONE: LOCRIAN, "RETURN TO ANNIHILATION"


In una ipotetica classifica dei dieci migliori album di post-black metal (che forse un giorno stileremo) non metteremmo di certo questo “Return to Annihilation” dei Locrian. Un po' perché la componente black metal è decisamente periferica rispetto alla proposta dei Nostri, un po' perché questo lavoro del 2013, mano a mano che lo ascoltiamo, assume le sembianze di un palloncino che si sgonfia: splendente e rigoglioso all’inizio, poi via via sempre più inconsistente.


L'opera non a caso tocca il suo zenit con la copertina. Quando la vedo, quel che mi viene da chiedermi è come mai tutte le copertine degli album usciti dal 2010 in poi non siano così. Come mai non ritraggono un carrello della spesa nel parcheggio deserto di un supermercato. Minimalismo, urbano nichilismo, un clic d'autore: una scelta che potremmo definire ulveriana, visto che proprio i Lupi di Oslo sdoganarono nel black-metal i fascinosi scorci della metropoli, le luci al neon, le gallerie d’arte (sebbene gli Ulver in “Perdition City” già non suonassero più black da un bel pezzo).

Un immaginario che palesa però anche il vuoto che spesso si nasconde dietro alle accattivanti produzioni dei nostri anni: meno cuore, meno sostanza, più attitudine. Un’attitudine diversa rispetto a quella dei “duri e puri” di una volta, appannaggio prima di certi rocker ortodossi (basettoni e capello lungo con pelata) e poi dei defender nel metal. Giunti nel nuovo millennio, il pericolo più grande sta nell’essere fighi, intellettuali, guardare di traverso le copertine piene di mostriciattoli e color pastello e suonare drone-ambient, post rock e black metal messi insieme.

Il sole inizia la sua discesa, ma è ancora alto, altissimo. L’openerEternal Return” è una bomba e, in un contesto di brani assai lunghi e “silenti”, si rivela una scelta quanto mai azzeccata quella di partire ex abrupto con una scoppiettata di manco tre minuti che ci immerge in pastosi e frizzanti suoni shoegaze: pochi secondi di sintetizzatori, un bel riff che sembra uscire dalle mani di Kevin Shields, suoni impastati, scenari tronfi di una “malinconica spensieratezza” che sembrava prerogativa di band come My Bloody Valentine (appunto), Sonic Youth, Smashing Pumpkins ecc. A ricordarci dove siamo è il latrato burzumiano che infesta il pezzo nei suoi tormenti finali, prima che un bell’assolo dissonante chiuda la partita.

Con “A Visitation from the Wrath of Heaven” si cambia completamente passo, ma se possibile lo scenario si fa ulteriormente più integrante. Minimali trame elettroniche, l’incalzare dei beat ossessivi delle percussioni e apocalittici chitarroni nel finale che esplodono all’improvviso: i Locrian sono un power trio composto da André Foisy (chitarre, basso), Terence Hannum (voce, sintetizzatori, piano, mellotron) e Steven Hess (batteria e percussioni) e sulla carta non si pongono limiti. Eppure, se il telegiornale non parla dei Locrian, un cazzo di motivo ci sarà, no?

Il fatto è che il metallaro non è scemo e in certi giochetti non ci casca. O almeno non ci casca fino in fondo. Io che sono un vecchio ed oscuro signore che ha attraversato le decadi alla ricerca del Male in musica, ho le mie soddisfazioni, però anche io capisco che tolto l’effetto sorpresa le soluzioni adottate dalla band americana non sono né così nuove né così esaltanti. Come spesso capita ai giorni nostri (e succede anche nel cinema e in letteratura), gli album diventano dei contenitori in cui l’artista, in particolar modo quello che si definisce avanguardista, butta dentro un po’ di tutto, con l’unica preoccupazione che i vari pezzi stiano bene insieme. Pieno vuoto/vuoto pieno, tensione & rilascio e così via.

Per esempio la terza traccia, “Two Moons” è un’innocua escursione acustica che, con la sua batteria blanda e gli squarci di sintetizzatori, rientra nei canoni classici del post-rock strumentale più quieto. Non è niente di speciale, ma venendo dopo una doppietta di brani strepitosi, ci può anche stare. Un brano interlocutorio atto a far riprendere fiato all’ascoltatore, perché con la title-track le quotazioni si rialzano improvvisamente. Del resto anche il più squallido regista sa che, dopo un dialogo insulso, c’è subito bisogno di alzare la tensione con una bella scena di violenza o di sesso. Ed ecco infatti che spunta fuori il black metal, ma non subito. Prima frustate di percussioni che incalzano ossessivamente come se dietro gli strumenti vi fossero gli Swans e poi una lunga fase di chitarre in tremolo lasciate a friggere come insegna la migliore tradizione burzuminana, fino allo scontato ma necessario epilogo: nuova detonazione collettiva, batteria solenne, riff paesaggistici, melodie strappalacrime mitigate da suoni da cantina norvegese ed accelerazioni a supportare lo screaming agonizzante.

E’ lo schema ambient/metal a rivelarsi come sempre vincente. I Locrian non fanno altro che compiere il loro dovere, più come sound-designer che come musicisti, a dirla tutta. Ma se i contenuti mancano, l’attitudine non basta e si rischia di tirare troppo la corda. “Exiting the Hall of Vapor and Night” (ma che titoli inutili!) è un’altra pausa ambientale di cui sinceramente non si sentiva il bisogno: il sole è sempre più basso, ecco perché bisogna buttare nel camino l’imponente ciocco di quercia per riattizzare il fuoco. In “Panorama of Mirrors” (chissà perché anche i titoli, tutto ad un tratto, appaiono così banali e fastidiosi) ritornano provvidenzialmente le chitarre, questa volta sotto forma di incubo cosmic-kraut, ma con quel sentore black metal a cui ancora una volta non sappiamo resistere. La musica dei Locrian è per lo più strumentale con delle vocalità black metal che, più che veicolo di un messaggio lirico, sono pura astrazione sonora: un altro “rumore” da buttare nel calderone. La conclusiva “Obsolete Elegies” riprendende nei suoi dodici minuti lo schema della title-track, deliziandoci però questa volta con un inizio neo-folk a base di chitarre acustiche, pianoforte e dissonanze assortite: il finale, invece, è l'immancabile crescendo trionfale, con tanto di batteria galoppante a ricordarci che è sempre metal quello che stiamo ascoltando.

Si vorrebbe volare alto, ma oramai il sole è quasi celato dietro alle montagne. L'ultimo raggio del crepuscolo si è spento, come il nostro entusiasmo. Il fatto è che le idee si sono esaurite nell’arco delle prime due tracce. Tutto il resto, più o meno, vive di rendita. Troppi vuoti e pochi significati per nemmeno cinquanta minuti di musica (fosse stato un doppio album di centosessanta minuti, sarebbe stato un altro discorso...). Per carità, il dischetto si fa ascoltare, però permettetemi una metafora per rendere l'idea.

Immaginate la seguente scena: siete in un bar riversi sul bancone a bere. Ad un certo punto vi cade l'occhio su una ragazza che, qualche tavolo più in là, vi sembra attraente: occhiale fashion, capello asimmetrico, trucco marcato ma carismatico, nonché belle gambe. Sola e al telefono. Provate ad origliare e vi capita di sentire cose tipo “New York”, “Andy Warhol”, “l'altro giorno alla mostra” ecc. Segretamente vi state innamorando, pertanto, complice l'alcool che avete in corpo, decidete di provarci. Andate al tavolo, intratterrete una conversazione, ve la porterete a letto.

Sorvoliamo sui dettagli, il fatto è che, mentre ci parlate, vi renderete conto che il suo sguardo è più vacuo di quanto sembrava da lontano. Ogni tanto coglierete qualche lieve inflessione dialettale che nel complesso stona. Infine noterete che non ha quell'aspetto così attraente che vi eravate immaginati dopo un primo sguardo. Ma quello che più vi amareggerà è che non c'è poi questa grande cultura, anzi, qua e là emergono degli strafalcioni o segnali inquietanti che palesano una certa superficialità di approccio, tipo lei che cita programmi televisivi che ignorate e che non guardereste mai. La vostra indignazione si accrescerà mentre lei ripetutamente spippolerà sul cellulare o vi farà vedere le foto del suo cane su Facebook, ma oramai sarà troppo tardi, perché siete in corsa ed è inutile starsi a formalizzare: alla fine volevate solo farvi una scopata. E pazienza per quei messaggi su WhatsApp pieni zeppi di emoticon il giorno dopo…

Menomale, semmai, che non vi siete accorti che quella sera due tavoli più in là c'era una ragazza moooolto carina, magari più ordinaria nell'aspetto, anch’essa sola ed al telefono. Sappiamo di cosa parlava perché era al telefono con noi di Metal Mirror: non si capacitava del fatto che i Pathosray non pubblicano più niente da anni e che il cazzo di vinile di “Live a Cattolica 5.8.1988” di Paul  Chain non si trova...