16 apr 2016

RESURREZIONI (quinta puntata): THRASH TILL DEATH!!



 “Thrash Till Death” cantavano i Destruction. Testualmente: “Colpisci fino alla morte”, che può essere tranquillamente tradotto come “Thrasheggia fino alla morte” (o anche "finché puoi", aggiungiamo noi). Interpretazione avvalorata da un testo che, senza troppi veli, va ad inneggiare con fierezza alla solita fratellanza metal. Con “Thrash Till Death” si apriva “The Antichrist”, del 2001, punta di diamante della produzione recente dei teutonici, rinati a seconda vita nel 2000 con l’ottimo “All Hell Breaks Loose”.

In verità i Destruction non si sono mai sciolti, ma il ritorno dello storico frontman Marcel “Schmier” Schirmer, dopo i deludenti lavori degli anni novanta, costituì una vera e propria resurrezione per la storica band tedesca!

Correva appunto l'anno 2000 e c'è da dire che tutto il decennio precedente non fu felice per il thrash metal in generale. Le vecchie glorie avevano sparato gli ultimi colpi prima di suicidarsi definitivamente con produzioni di uno squallore inarrivabile. Parlo ovviamente dei padri Metallica e Megadeth che con due mosse di fioretto stesero il genere intero: prima ammorbidendo il sound con lavori che guardavano a fasce più ampie di pubblico (il "Black Album" per quanto riguarda i primi, l'accoppiata "Countdown to Extinction"/"Youthanasia" per quanto riguarda i secondi). Poi rilasciando album che con il thrash non avevano praticamente più niente a che fare (“Load”, “Reload”, “Risk” ecc.). Il genere si ritrovò così in un vicolo cieco, costretto a snaturarsi o a rimanere uguale a se stesso (con l’aggravante che, quanto a violenza, era stato sorpassato nel frattempo da nuovi sottogeneri come il death e il grind). La mazzata finale la diedero prima i vari Pantera, Machine Head e tutte quelle band che, pur continuando a suonare thrash, vennero in seguito raggruppate sotto l’etichetta groove-metal. Poi il fiorire del movimento nu-metal, che face grande incetta degli stilemi del thrash, stravolgendone però l’attitudine, e contaminandolo con l’hip-hop, la new-wave ed altre tendenze non proprio simpatiche al metallaro vecchia maniera.

Molti nomi storici sparirono schiacciati dal Nuovo e dall’incapacità di rigenerarsi stilisticamente; al contempo una nuova generazione di fenomeni stentava ad emergere. Nonostante questo, il thrash-metal classico rimaneva profondamente radicato nel cuore dei metallari di tutto il mondo, in quanto aveva rappresentato un passaggio troppo importante (stilisticamente parlando, forse il più importante) per l'heavy metal tutto. Cosicché si generò uno strano paradosso: il thrash metal sopravviveva senza le band!

Neppure i malvagi Destruction uscirono indenni da questo periodo di crisi. Nel 1989 Schmier fu addirittura cacciato per il suo tentativo di opporsi al processo di commercializzazione che intendeva avviare la band, in linea con il metal di quegli anni (gli stessi Sodom avrebbero rilasciato nel 1990 “Better Off Dead”, il loro album più commerciale di sempre e pesantemente influenzato dall’hard-rock; quanto ai Kreator, abbiamo già visto come essi avrebbero dedicato tutta la decade novantiana alla sperimentazione). Il risultato per i Destruction furono due album di merda come “Cracked Brain” e “The Least Successful Human Cannonball” (alzi la mano chi li possiede!). Logico, dunque, che il ritorno di Schmier fu salutato con gioia, a maggior ragione se coincideva con un album potente come “All Hell Breaks Loose”: un’opera violentissima che recuperava il sound delle origini, valorizzato finalmente da suoni al passo con i tempi (grazie a Mamma Nuclear Blast ed alla sapiente produzione di Peter Tagtgren).

Schmier tornava dunque a starnazzare dietro al microfono con quella voce stridula che con la vecchiaia sembrava essere divenuta ancora più acida e tagliente. Il suo basso era corposo e tutt’uno con la chitarra affilata di Mike Sifringer, che come al suo solito continuava a macinare riff come se non ci fosse un domani. Il nuovo batterista Sven Vormann iniettò velocità e precisione come mai era successo in un album dei Destruction: vederli dal vivo fu un piacere, freschi come delle rose, con i nuovi pezzi che si confondevano con quelli storici. Con il successivo “The Antichrist” fecero ancora meglio: la macchina era oramai rodata e nessuno sembrava essere più in grado di fermare i tre vecchiacci, i quali riaffermarono il loro status di maestri indiscussi del genere in un contesto di mezze cartucce. Quello che fecero i Destruction con quell’accoppiata di album fu una vera impresa: resuscitare il thrash metal nella sua accezione più vintage, riportando grinta, genuinità, raddrizzando la schiena a tutti coloro che non avevano assistito alla rivoluzione thrash quindici anni prima. Riemergeva prepotentemente un gran bisogno di thrash e quei mirabili prodotti seppero calamitare le forze della restaurazione in un mondo che non sembrava avere più punti fermi.

Il thrash, tuttavia, non offrendo grandi margini di manovra, non è un giochetto che si può riciclare all’infinito e tolta l’attitudine (che ai Destruction di certo non mancava) può rischiare di impantanarsi nelle paludi dell’immobilità. E così fu: gli album successivi (“Metal Discharge”, “Inventor of Evil”, “DEVOLUTION” – un titolo un programma!), fin troppo autocelebrativi (persino le copertine richiamavano sfacciatamente quelle del passato), non seppero tenere alta l’attenzione sulla band, relegandola in una zona di interesse a cui avevano accesso solamente i fan più intransigenti.  

Probabilmente il ritorno dei Destrucrion non è collegato in modo diretto a quanto nel medesimo periodo accadeva dall’altra parte dell’oceano, ma sicuramente quella serie di focolai thrash che iniziarono ad avvampare all’inizio del terzo millennio sono stati espressione di un unico movimento tellurico propagatosi sotto la superficie del mondo metal. L'11 agosto del 2001 si celebrava a San Francisco il Thrash of the Titans, evento benefico organizzato per raccogliere fondi e dare supporto economico a Chuck Billy e Chuck Schuldiner che all'epoca erano entrambi impegnati in una strenue lotta contro il cancro. Per l'occasione montarono sul palco vecchie glorie della scena della Bay Area: Exodus, Anthrax, S.O.D., Flotsam and Jetsam, Death Angel, Sadus, Vio-lence e persino i Legacy, l'embrione originario di quelli che poi in seguito sarebbero divenuti i Testament. Tutta gente che aveva visto tempi migliori, certo, ma che gioia deve'essere stata ritrovarsi sul palco tutti insieme come venti anni prima: un'ondata di entusiasmo che portò alla reunion di diverse di quelle compagini. C'era dunque voglia di thrash nell'aria e la Vecchia Scuola era pronta per tornare!

Purtroppo in molti casi non si seppe andare oltre il semplice revival, essendo improntata la produzione discografica di quelle band sulla pura nostalgia: la nostalgia per un periodo irripetibile che evidentemente non poteva più esistere. Le scosse elettriche sono state utili solo a rivitalizzare le salme per un istante.

Capitolo Exodus: memorabili quanto vi pare, ma tutta la loro storia si è basata sul mito di “Bonded by Blood”, folgorante debutto targato 1985. Su quell’opera seminale la band imposterà la sua seconda vita: una vita fortemente voluta dal chitarrista Gary Holt, che negli anni si è posto come il punto fermo di una formazione che non ha mai trovato pace. E così, scioltisi nel 1992, già nel 1996 erano nuovamente insieme per una serie di date auto-celebrative (che poi verranno catturate nel live-albumAnother Lesson in Violence – un titolo che già di per sé non faceva presagire grandi novità e voglia di osare!).

L’agognato album del ritorno, tuttavia, non fu di immediata gestazione, complice anche la morte improvvisa del singer storico Paul Baloff, avvenuta nel 2002. “Tempo of the Damned” vedrà dunque la luce nel 2004 con dietro al microfono Steve Souza, non proprio l’ultimo arrivato visto che aveva accompagnato la band dal secondo album in poi. L’operazione venne accolta con entusiasmo sia da critica che da pubblico, considerata l’importanza del nome sulla copertina. La vecchiaia tuttavia non portò saggezza né stabilità agli Exodus, che dovettero continuare a fare i conti con i soliti problemi di droga e con una formazione in continuo mutamento. Souza va e viene come un uccel di bosco, sostituito da Rob Dukes (roadie e tecnico del suono per la band), che a sua volta lascerà nuovamente spazio a Souza. Ma nella sostanza, la musica degli Exodus non cambia, rimanendo ancorata a quel thrash di cento anni prima che sinceramente ha finito per stancare anche gli stessi fan degli Exodus. Il problema è dunque il medesimo dei Destruction: tanta voglia di thrash a supportare il ritorno di nomi storici che tuttavia, messi fuori dal contesto originario, mostrano scarsa inventiva e grosse difficoltà di tenuta nel lungo periodo.

Stessa sorte è toccata ai Death Angel: scioltosi nel 1990 dopo solo tre album, i Nostri tornarono in studio nel 2004 per dare alla luce “The Art of  Dying” (strano titolo per rinascere, vero?). Ma nemmeno questo atteso ritorno cambierà il corso della storia del metal: i Death Angel non sapranno rendere onore alla loro stessa fama, sfornando una serie di album mediocri di cui certo non sentivamo il bisogno.     

Onde evitare di sparare sulla Croce Rossa, chiuderei questa breve dissertazione con una nota positiva: i Testament. Certo, anch’essi hanno sofferto non poco nella prima metà degli anni novanta, ma contrariamente ad altri hanno saputo riemergere da tutte le difficoltà e mantenere negli anni successivi un alto profilo. Riassunto delle puntate precedenti: sulla scia del “Black Album” anche i Testament decisero di ammorbidire il loro sound, rilasciando nel 1992 “The Ritual”, opera controversa che ampliò il divario nel gruppo fra coloro che volevano un indurimento e chi invece intendeva dirigersi verso lidi più melodici. La disputa finì con lo scioglimento della band (per la cronaca: Alex Skolnick passerà ai Savatage, ed è tutto dire quanto alla motivazione che il chitarrista poteva avere nel proseguire a suonare thrash metal). Fu la determinazione di Chuck Billy ed Eric Peterson a far sì che il progetto ripartisse e potesse mantenersi longevo nel tempo, nonostante tutte le disgrazie affrontate (continui cambi di line-up e, fatto non secondario, la grave malattia del cantante).

Vinse dunque il partito dell'Estremo e album come “Low” (1994), “Demonic” (1997) e “The Gathering” (1999) esprimono in maniera egregia un crescendo di focalizzazione verso suoni duri (ai limiti del death metal!) e sempre meglio calibrati. L’ultimo dei tre rappresenta indubbiamente l'apice artistico di questa seconda giovinezza, grazie ad una formazione strepitosa che si componeva, oltre che dei due membri originari, di pezzi da novanta come James Murphy, Steve DiGiorgio e sua maestà Dave Lombardo. Il sound pertanto guadagna potenza e precisione con un Chuck Billy che si dà persino al growl (scelta insolita per un cantante della vecchia scuola). Con l’album successivo “First Strike Still Deadly” (rivisitazione di vecchi brani) tornerà persino all'ovile Skolnick: il tempo di rodarsi ed ecco che il chitarrista contribuirà con il suo estro superlativo alla buona riuscita di “The Formation of Damnation” (2008), altra grande prova da studio. Certo, fa un po’ strano, dopo così tante vicissitudini, vedere dal vivo Skolnick con il suo bravo ciuffo bianco che pare Riccardo Fogli, al centro della scena, sorridente e disinibito ad officiare con la sua impareggiabile chitarra classici come “Over the Wall” e “Burnt Offerings”. Come se non fosse accaduto nulla negli ultimi venti anni e lui fosse stato sempre lì: in questa circostanza, tuttavia, è doveroso rendere onore alla costanza ed alla dedizione di grandi persone come Chuck Billy ed Eric Peterson, che hanno saputo tener duro contro ogni avversità.    

Applausi in piedi quindi per i Testament che con umiltà e convinzione (ma anche con audacia, visto che non è da tutti spostarsi verso il death metal!) sono riusciti ad arrivare ai nostri giorni poggiando su un solido passato, ma senza scadere in patetiche operazioni-nostalgia. Ma nonostante le prodezze di qualche caso isolato, il thrash rimane un ambito sostanzialmente morto. Voltiamo dunque pagina e vediamo, sul medesimo campo da gioco (quello delle reunion) come il metal classico si è saputo muovere...