22 giu 2016

I CONFRONTI IMPOSSIBILI: DAVID BYRNE (TALKING HEADS) VS STEVE AUSTIN (TODAY IS THE DAY)




In un’ipotetica galleria di improbabili confronti fra celebri esponenti del rock e loschi figuri dell’heavy metal, potrebbe essere individuato un disconnesso terreno di intersezione fra le sfere artistiche di David Byrne, leader dei Talking Heads, e Steve Austin, deus ex machina dei Today is the Day.

La reazione da parte vostra, o nostri fedeli lettori, sarà la solita: ma che cazzo state dicendo? Com'è possibile associare i Talking Heads, pionieri della new wave americana, massimi esponenti e precursori della fusione fra pop ed avanguardia, e i terroristi sonori di Nashville, fautori di una musica che, muovendosi fra noise, hardcore, grind, math-rock e progressive, è, a conti fatti, inclassificabile? Noi di Metal Mirror ci siamo riusciti, e le parole-chiave sono "paura" e "terrore".

Musicalmente le due entità non hanno niente in comune. A beneficio dei più distratti rammento: i Talking Heads maturavano verso la fine degli anni settanta sull'onda delle nuove tendenze punk e post punk, anche se poi, a partire dal look da nerd del loro istrionico leader David Byrne, niente avevano a che spartire con le crudezze e con il nichilismo delle correnti appena citate. L'idea che Byrne e i suoi colleghi (conosciutisi alla Rhode Island School of Design di Providence - guarda lì i fighetti!) era quella di un rock sofisticato, dal piglio intellettuale, che divenisse rappresentazione delle nevrosi dell'uomo (post)moderno. Le sonorità facevano incetta di ritmi funky, elementi etnici e vocalità che raffiguravano tutte le sfaccettature e le contraddizioni dei nostri tempi. Il più delle volte in modo ironico, cinico, ipercritico, ma con botte di amarezza, talvolta, che non rendevano, ad uno sguardo meno superficiale, l'ascolto fra i più spensierati e rassicuranti. La dimostrazione è che la più grande band di oggi, la più efficace nell'incarnare i mali della nostra contemporaneità, abbia scelto il proprio nome ispirandosi proprio ad un brano dei Talking Heads: la "Radio Head" contenuta in “True Stories”.

Musicalmente parlando, potremmo dire “niente di nuovo sotto il sole”, visto che già da anni David Bowie e Brian Eno (il primo, con la trilogia berlinese, il secondo con i suoi lavori solisti) avevano inaugurato l'era della “proto-new wave”, riverniciando a nuovo il rock e liberandolo dalle sue forme classiche ereditate dagli anni sessanta e settanta. La novità stava nel talento di Byrne, geniale e bizzarro cantore dell'era post-moderna, macchietta sempre pronta allo sberleffo, capace di saltare con disinvoltura ora nella parte del carnefice, ora in quella della vittima: in pratica in tutti ruoli che lo psicodramma inscenato dalla nostra società assegna. Ecco, fissiamo un attimo l'attenzione su Byrne, rigorosamente in giacca e completo (in totale opposizione alla figura “maschia” del rocker) che sculetta sul palco e canta in modo farsesco il classico "Psycho Killer", teniamo bene a mente questa scena e spostiamoci a Nashville, teatro della sconfortante manifestazione artistica dei Today is the Day.

Steve Austin, classe 1966, figlio di due operai della Chrisler, anch’egli andava benino a scuola, anche se noi, prima di definirlo un secchione, potremmo  vederlo come un genio, alla luce di quello che farà successivamente in campo musicale. Leggenda vuole che, guidando in autostrada di ritorno da un concerto degli U2, Austin, in preda ad una improvvisa “epifania”, fu “chiamato” dalla Musica e così decise di lasciare l’università (quelle del Missouri, che fra l’altro frequentava con successo e con votazioni decisamente alte). Dopo varie vicissitudini, nel 1992 riesce finalmente a fondare i Today is the Day, che, senza esagerare, potremmo definire una delle incarnazioni più geniali del Sacro Verbo del Metallo. Austin non farà mai due volte lo stesso disco e nel corso di una carriera più che ventennale la sua creatura assumerà forme sempre diverse, oscillando attorno ad un baricentro fatto di furioso hardcore, riletto talvolta in modo noise-avanguardistico, talvolta assecondando pulsioni progressive, in una gamma di suoni che va dalla musica da camera al death metal senza compromessi. Ma a rimanere costante in tutto questo percorso è la sensazione di fondo: terrore. Terrore innanzi ad una società che distrugge ed aliena l’individuo, taglia a fette la sua psiche e martoria la sua carne.

Supernova” (1993), “Willpower” (1994), “Today is the Day” (1996), “Temple of the Morning Star” (1997), “In the Eyes of God” (1999), “Sadness Will Prevail” (2002), giusto per limitarci alla prima parte della produzione discografica della band, sono dei saggi penetranti di un mal di vivere che raramente troviamo in altri ambiti, fuori e dentro il metallo. Al centro delle costruzioni dei Today is the Day (siano esse sontuosi monumenti sonori o semplici schegge impazzite) si erge in modo perverso la voce dilaniata e dilaniante di Steve Austin. Ho utilizzato i termini “dilaniata” e “dilaniante” non per artificio retorico, ma proprio per descrivere l’ambivalenza psicologica dei “personaggi” da essa rappresentati. Come si diceva prima con Byrne: vittima e carnefice.  

Da questo punto di vista, lasciando perdere King Diamond (troppo “letterario” per fare al caso nostro), nel metal vi è un illustre precedente: Mike Patton. Dotato di una ampiezza vocale estesissima, egli si distinse per la straordinaria capacità di saper adottare i registri più disparati, dal falsetto alla voce grossa, e di saper dunque passare in un attimo da toni minacciosi a dimessi (che ben si sarebbero sposati, via via, alle folli messe in scena delle sue numerose band, dai Faith No More ai Mr Bungle, passando per Fantomas, Tomahawk, Peeping Tom, carriera solista e collaborazioni varie). Ma è anche vero che la sua versatilità poggia su solide basi intellettuali (certe arditezze free-jazz, per esempio) e che quindi la sua voce, prima ancora di essere rappresentazione di una psiche frammentata nei suoi “Io contrastanti”, diviene “astrazione” e persino “gioco" artistico. Relativamente al nostro discorso, è dunque più pertinente tirare in ballo le vocalità di Jonathan Davis dei Korn (che a guardar bene discende artisticamente da Patton): egli, con la sua ugola versatile, trovò il modo di esprimere nevrosi e manie che poi avrebbero riflettuto efficacemente quelle di una intera società (da qui il successo della sua band e l’innalzamento, fra i più giovani, della sua figura ad icona assoluta del metal moderno). Ma nel gioco “ora sono vittima, ora sono carnefice”, a prevalere è il ruolo della vittima, quale Davis in effetti è stato (ricordiamo che il cantante ha vissuto un’infanzia drammatica, fra separazione dei genitori, gravi problemi di salute ed abusi sessuali da parte del vicino di casa).

Patton è dunque un intellettuale e Davis solo un ragazzo disturbato che il successo ha reso una star disturbata, mentre Austin è un cinico ed acuto osservatore della realtà che ben riesce a sublimare il suo malessere nella musica: un po' come quei chirurghi che Freud vedeva come sadici che tuttavia riuscivano nella professione a riconvertire in modo costruttivo le pulsioni distruttive. Austin, più di Davis, rende in maniera vivida e metaforica, tramite il medium dell'esasperazione, questa "doppia faccia" dell'uomo contemporaneo, triturato da una società che aliena, frustra, dissocia, rende tutti complici di un sistema autodistruttivo che si alimenta attraverso i canali della competizione (che essa avvenga per ambizione o per sopravvivenza poco importa). Incasellata a forza in schemi e modelli predefiniti, la psiche prima si contiene, poi esplode. Ed è questo processo, dal contenimento all'esplosione, passando dall'inadeguatezza, dalla rabbia o dalla disperazione, che ci va a descrivere Austin con la sua musica destrutturata e destabilizzante: una musica priva di coordinate e perennemente sull'orlo del collasso, con un controllo sulle cose mantenuto a fatica. Tale e quale è l’equilibrio mentale dell’uomo delle società complesse dell’Occidente: un ordine precario destinato o alla compressione o ai capolinea dell'autodistruzione e/o della follia omicida.

Protagonista assoluto di questo teatro trasfigurante, dove tutto viene esagerato in modo parossistico, è quel canto delirante che passa con estrema scioltezza dal grido isterico al growl, dal singulto dimesso al monologo farneticante: una galleria di personaggi che vanno dal colletto bianco frustrato davanti al pc all'operaio schiavizzato in catena di montaggio; dalla casalinga annoiata al bambino che non rende a scuola e vorrebbe ammazzare genitori e professori; dal represso sessuale che si masturba su internet al violentatore della notte; dall'indigente che vive di espedienti al manager cocainomane fagocitato dalle esigenze del business: nessuno trova scampo e ristoro in uno stato avanzato di putrefazione umana e sociale in cui il terrore vero e proprio (quello degli occhi sbarrati innanzi ad una minaccia mortale) ha preso il posto della paura che genera nevrosi.

"Fear of Music" era il titolo di un album dei Talking Heads pubblicato nel 1979 dove si mettevano alla berlina aspetti ed abitudini del quotidiano (i titoli delle canzoni sono eloquenti: “Mind”, “Paper”, “Cities”, “Air”, “Animals”, “Electric Guitar”, “Drugs” ecc.): uno sguardo che a tratti si fa scherzoso, a tratti irrequieto, a tratti inquietante ed ansiogeno. Byrne, che non è un terrorista sonoro come Austin, si muove con i versi e i gesti di un giullare intento ad intrattenere ed impersonare il solito bizzarro circo di clown, freak, acrobati, ammaestratori di animali che non sono altro che la società che precede di almeno venti anni quella descritta dai Today is the Day: un mondo forse meno estremo e disperato, ma nel quale erano già stati piantati i semi che avrebbero portato agli odierni derelitti scenari.

Byrne recita con intelligenza, eleganza e spirito di osservazione, elevando il pop ad avanguardia: la stessa cosa che in pratica ha fatto (in modo meno elegante) Austin con il metal. Lo stesso Byrne sosterrà in una intervista di essere molto diverso nella vita reale e che la schizofrenia mostrata su opere e palco appartiene solo e solamente al suo alter ego artistico. Penso che la stessa dinamica animi l'operato di Austin, autore troppo fine ed intelligente per essere fino in fondo quella figura barbarica che emerge dalla sua musica.

Quello che infatti fa paura dei Today is the Day è che essi costruiscono per distruggere, e che quando pensiamo di aver capito le loro intenzioni, giunge senza preavviso il momento in cui tutto deraglia e il controllo viene perduto: perché non si ha delirio senza raziocinio. David Byrne e i suoi Talking Heads non ambivano a traumatizzarci, accontentandosi di farci riflettere, stillando gocce di inquietudine per alimentare la riflessione stessa. Ad accomunare le due entità è la volontà di mettere in scena il bislacco balletto delle nostre contraddizioni.

Si salvi chi può.