16 giu 2016

CONFRONTI IMPOSSIBILI: "HEROES" (DAVID BOWIE) VS "NIGHTWING" (MARDUK)

 




In un’ipotetica galleria di improbabili confronti fra celebri esponenti del rock e loschi figuri dell’heavy metal, di certo non troverebbe un facile gemellaggio un artista come David Bowie. Ne abbiamo già parlato (ahimè) in occasione della sua morte, avvenuta lo scorso 10 gennaio, accennando a quanto pochi siano i contatti fra l’universo metal e il mondo artistico del Duca Bianco, peraltro grandemente stimato anche dalle nostre parti.

Tuttavia un possibile (quanto azzardato) raffronto potrebbe inscenarsi con i Marduk, non tanto ovviamente fra le due carriere, ma almeno per quanto riguarda due singole tappe dei rispettivi percorsi: “Heroes” e “Nightwing”.

“Heroes”, uscito nell’anno di grazia 1977, è una pietra miliare del rock, la cui importanza è oramai cosa nota a tutti. Sebbene molte delle intuizioni in esso contenute fossero già state esposte nei precedenti “Station to Station” e “Low” (secondo alcuni il miglior album di Bowie), “Heroes” si afferma nella Storia come il più importante crocevia del rock dopo “Sgt Pepper’s Lonely Hearts Club Band”: se nel capolavoro dei Beatles il rock si faceva maturo e il suo cammino si biforcava in due direzioni (psichedelia e progressive), in quello di Bowie si celebra la fine del rock nella sua forma classica, che lascerà il posto alla new wave, al synth pop, all’alt-rock che predomineranno negli anni ottanta. Con una mano ovviamente del produttore/collaboratore Brian Eno, che tanto ha influito nella gestazione di queste sonorità: suoni elaborati, sintetici, forme minimali prese in prestito dalle sperimentazioni elettroniche dei Kraftwerk e dell’avanguardia berlinese ed un approccio astratto che toglierà al rock quella patina di polvere che si era iniziata a formare a partire dalla seconda metà della decade settantiana. Ed ovviamente un Bowie in stato di grazia, diviso fra voce (sempre più baritonale, obliqua e distante dalle vocalità stridule e romantiche dell’era-Ziggie) e sax, tastiere e chitarre.  

Come paragonare tutto questo al black metal furibondo dei Marduk? Guardando non alla scorza esteriore, ma alla struttura che vi sta sotto. Fra i tanti suoi meriti che non stiamo ad elencare (quanto detto nel paragrafo precedente è da intendere solo come la punta dell’iceberg di un mondo artistico che potrebbe essere descritto in un saggio a parte), “Heroes” ha anche un’altra caratteristica: è un’ opera che si sviluppa dialetticamente. E’ infatti suddivisibile in due parti, sintesi ed antitesi: una prima composta da canzoni per certi aspetti di facile presa (fra cui troneggia la leggendaria title-track) ed una più riflessiva e sperimentale, praticamente strumentale, in cui dominerà il verbo ambientale che di lì a poco sarebbe stato teorizzato dallo stesso Brian Eno nei suoi lavori solisti.

I Marduk, dal canto loro, venivano dal loro album "forte", quel "Heaven Shall Burn…When We are Gathered" che li lanciava di diritto fra le stelle più promettenti della costellazione delle black metal band scandinave degli anni novanta. Un sound che nella manciata di pochi album si era fatto sempre più potente e veloce, paradossalmente meno vario e melodico rispetto agli esordi. I Marduk vincevano per lo più per un approccio professionale che superava il classico standard “raw” delle produzioni dell'epoca: un approccio che permetteva ai nostri di esprimere un songwriting ispirato ed oramai personale, complice l'ugola coinvolgente di Legion, un riffing di chitarra agguerrito ed una sezione ritmica con i controcazzi. Con "Nightwing", pubblicato nel 1998, i Nostri riuscirono a non ripetersi, confezionando una delle loro opere più riuscite, espressione del loro momento artistico migliore (che si esaurirà l’anno successivo con il loro ultimo grande capolavoro “Panzer Division Marduk”). Ma prima di approdare al sound privo di compromessi dell’album successivo, gli svedesi videro bene di recuperare quella varietà che aveva caratterizzato i primi lavori, rileggendola ovviamente alla luce della maturità e dell'accresciuta padronanza sia degli strumenti che dei medium espressivi.

Ma è la struttura, si diceva, ad accomunare i due lavori. Anche "Nightwing", infatti, presenta uno schema bipartito, dove la prima parte è composta da brani violenti ed aggressivi (racchiusi dalla temibile dicitura “Chapter I: Dictionnarie Infernal” e tutti più o meno incentrati su tematiche sataniche e sull’odio verso il Nazareno), e la seconda invece da una serie di episodi più riflessivi ed atmosferici accomunati in un concept dedicato a Vlad “Tepes” Drakul, fra l'altro continuazione di un brano presente nell'album precedente ("Dracul Va Domini Din Nou in Transilvania"). Questa bipartizione agevola l'ascolto e, per certi versi, è destabilizzante quanto quella che caratterizza "Heroes".

Pensate al capolavoro di Bowie: dopo cinque canzoni accattivanti caratterizzate da ritmi incalzanti e melodie memorabili, ecco che ci imbattiamo in “V- 2 Schneider”, alienante strumentale a base di sintetizzatori e sax dissonante, non a caso dedicata a Florian Schneider dei Kraftwerk. Se una pausa ci può stare, “Sense of Doubt”, maestrom ambientale di sole tastiere, rincara la dose, immergendo l’ascoltatore in un’atmosfera tesa e funerea. “Moss Garden” (altra strumentale: una costruzione astratta tratteggiata da strumenti etnici orientali) e subito di seguito “Neukoln (bozzetto espressionista, ancora una volta squarciato dal sax ululante di Bowie) sono forse davvero troppo per chi si aspettava una speculare seconda parte dell’album fatta di hit da cantare a squarciagola. Infine, inaspettatamente, come a voler troncare di colpo il trend appena avviato, come un raggio di luce che fende i cieli grigi della Berlino metropolitana e mitteleuropea, si materializza la polvere del deserto, il miraggio di un brano solare come “The Secret Life of Arabia”, che ripristina il tutto con ritmi e melodie pop che mai e poi mai, a questo punto, ci saremmo aspettati.

Con le dovute proporzioni (perché i Marduk non cambieranno le sorti del rock, ma nemmeno quelle del black metal), l’ascoltatore di “Nightwing” si imbatte in un discorso analogo. Anzitutto un plauso alla incredibile title-track, che, posta al centro esatto della scaletta, funge da trait d’union fra le due facciate. Non ritengo che il leader Morgan Steinmeyer Hakansson sia il chitarrista più ispirato delle fosche lande del black metal, ma in questo brano si supera, sfoggiando uno dei riff più coinvolgenti della sua produzione artistica. Su quello stesso riff si stampa lo screaming lacerante di Legion che nella prima strofa recita “Nightwing – Fly across the sky” e più avanti, sempre sullo stesso riff, “Nightwing – storm through eternity”. Come a dire che il Male è ovunque, il Male è eterno. Ed il dinamismo del pezzo (epico all’inverosimile) va a supportare questa sensazione, facendoci immaginare il Male come un Angelo oscuro che sfreccia in cieli notturni attraverso lo spazio e le epoche: un simbolico ponte spazio-temporale che ci permette di accedere alla seconda parte dell’album, quella dedicata al principe Vlad “l’Impalatore” (denominata “Chapter II: The Warlord of Wallakia”).

Qui la nostra calata in un passato cruento e sanguinario ha inizio: “Dreams of Blood and Iron” richiama proprio quella “Dracul Va Domini Din Nou in Transilvania” dell’album precedente, da cui il concept aveva preso avvio: incedere marziale della chitarra, tempi solenni, lo strepitare furibondo di Legion (di blast-beat nemmeno l’ombra). Se il classico “brano lento e d’atmosfera” c’è sempre stato in un album dei Marduk, sarà una piacevole sorpresa sentir partire, senza stacchi, il brano seguente, “Dracole Wayda”, che non accenna ad accelerare i tempi, ma anzi li mantiene lenti e possenti, con un bell’intermezzo in stile Morbid Angel “fangosi e schiacciasassi”. Certo, chiedere un ulteriore brano lento ai Marduk sarebbe stato troppo e dunque, a spezzare l’atmosfera (come aveva fatto “The Secret Life of Arabia”, questa volta però portando non sole ma sangue!) troviamo una killer-song come “Kaziclu Bey (The Lord Impaler)”. Il conoscitore dei Marduk del resto sa che due pezzi lenti sono stati anche troppi e che dunque c’è da aspettarsi un finale di album senza sconti quanto a melodia e “carinerie”, ed invece ecco che si materializza un mesto arpeggio (elettrificato, of course) che introduce l’ottima “Deme Quanen Thyrane”, la quale presto si impennerà in una nuova terribile sfuriata, per poi placarsi nuovamente nella porzione conclusiva. A chiudere le danze, a rincarare la dose per i più scettici, Anno Domini 1476, l’episodio più evocativo del lotto: drumming marziale, Legion declamatorio, cori ed orchestrazioni da operetta delle tenebre in dissolvenza, una vera chicca per palati sanguinanti!

Se dunque “Heroes” ha rappresentato il simbolo più vivido della rinascita per un Bowie che veniva da uno dei suoi periodi peggiori (la fase post-glam caratterizzata da droghe, cali ispirativi ed ansia da prestazione), e se proprio nel testo della emblematica title-track si va a celebrare la speranza, perché in fondo “tutti noi possiamo essere eroi, almeno per un giorno”, “Nightwing”, in modo speculare, va a celebrare il trionfo, sempre ed ovunque, del Male, perché, “io sono l’Oscurità ed anche tu lo sarai, se con me cavalcherai l’Ala della Notte”. Insomma, nel bene o nel male, c’è speranza per tutti, buoni e cattivi!