1 giu 2016

PERCHE' I RESIDENTS NON MI DESTABILIZZANO: UNA RIFLESSIONE SU COSA DISTURBA NEL METAL




In una ipotetica classifica dei dieci migliori album non metal che dovrebbero ascoltare anche i cultori del metallo, inseriremmo sicuramente questo “Not Available” dei Residents. In realtà i Residents sono quanto di più lontano ci possa essere dal metal, ma spesso vengono tirati in ballo per sminuire il preteso potere traumatico che si presume possa possedere il metal.

Mi spiego meglio: se vi capita di partecipare a dei forum online su siti di musica, avrete notato sicuramente la classica testa di cazzo (generalmente un poco più che diciassettenne che ha iniziato relativamente da poco ad ascoltare musica in modo consapevole) che entra sterilmente a gamba tesa nella discussione e poi viene pesantemente offeso. A quel punto, costui, che ha già finito le argomentazioni, tira fuori il nome di Frank Zappa per cercare di far azzittire tutti (della serie: io ascolto Frank Zappa, quindi me ne intendo, quindi ho ragione io). Se si sta parlando di metal (magari in un sito non specializzato), il personaggio in questione si appella invece ai Residents.

Il fatto è che sia Frank Zappa che i Residents sono grandissimi artisti e giustamente vengono chiamati in causa per il loro status incontestabile di entità geniali e fuori dagli schemi. Chi li ascolta, quindi, si presuppone sia intelligente e buon intenditore. Forte di questa convinzione e mosso da chissà quale inviolabile legge della natura, il nostro eroe deve necessariamente fare polemica e propinare l’antica e consunta novella della vacuità del metal: che il metal è un genere per bambini, che è una farsa ed una presa in giro e che voialtri non sapete cos’è la vera musica destabilizzante, andatevi dunque ad ascoltare i Residents! Ok, me li sono andati ad ascoltare: e allora?   

I Residents sono un grande gruppo e comprendo benissimo perché vengono menzionati ogni volta che c’è da fare un esempio di musica destabilizzante: perché lo sono per davvero. Partiamo dalla premessa fondamentale: non si sa chi essi siano, quale sia la loro identità, né conosciamo i loro volti, visto che amano comparire in pubblico mascherati (la trovata più nota è quella delle maschere a forma di grandi bulbi oculari). In più c’è da considerare la logica profondamente anticommerciale che ha caratterizzato la loro vastissima produzione discografica: una serie sterminata di prodotti divisa fra album, singoli, EP, collaborazioni e progetti multimediali. La loro opera è in definitiva una ironica, intelligente e feroce critica alla cultura pop e rock ed essa si traduce nella sistematica decostruzione degli stilemi stilistici esistenti: smontando, rimontando, trasfigurando e deformando l’esistente e riconsegnandocelo in una forma totalmente stravolta e, diciamola tutta, pure inquietante. Le composizioni dei Residents, spesso costruite con l’arte del collage, si muovono totalmente al di fuori di ogni riferimento conosciuto e seguono un filo logico più concettuale che musicale.

Prendiamo “Not Available”, comunemente considerato il loro capolavoro. Sono note le vicissitudini che hanno preceduto il suo “lancio” sul mercato: registrato nel 1974 è rimasto nei cassetti per diversi anni (“Non Disponibile” appunto), per poi essere finalmente pubblicato nel 1978. Più che innovativo o “avanti”, potremmo definire “Not Available” “fuori dal tempo”, talmente al di là dei canoni conosciuti che è impossibile contestualizzarlo, temporalmente e culturalmente: quella dei Residents è infatti una non-musica autoreferenziale e totalmente scollegata da altri ambiti, pertanto insensibile al trascorrere del tempo, estranea alle mode ed alle tendenze. Potremmo definirla musica sperimentale, d’avanguardia. Nei fatti essa si articola in una serie di “situazioni” che si susseguono senza soluzione di continuità, a prescindere dalla “dimensione brano”, che per i Residents è una categoria superata. Il corpus sonoro si compone di percussioni (anche elettroniche), fraseggi di tastiere (spesso dissonanti), pianoforte, fiati, tutto ovviamente assemblato in modo non convenzionale. E poi le voci: deformate, doppiate, fantasmatiche, alienanti, esse sono lamenti, nenie, parlottii sconclusionati che sembrano le testimonianze lasciate da dei dannati che si affannano in tortuosi gironi danteschi, inconsapevoli della loro tragica condizione, ripetendo gesti e parole in un’eternità senza senso. A destabilizzare, quindi, non sono solo i continui cambi di scenario che sballottano l’ascoltatore da uno stato mentale all’altro, ma anche quella sensazione di infelicità che trasmettono quelle voci portatrici di una visione farneticante e priva di una soluzione (prima ancora che di una speranza), proveniente da chissà quale dimensione estranea. Un’angoscia senza redenzione, quella dell’ascoltatore, che viene a trovarsi estraniato e privato di ogni possibile appiglio per capire dove si trova e codificare l’esperienza che sta vivendo. Per tutte queste ragioni (musicali e non) i Residents sono considerati destabilizzanti.

Detto questo c’è da chiedersi cosa ci azzecchi tutto ciò con il metal. Purtroppo la questione origina da un grande equivoco in cui spesso cade chi non ascolta metal. L’equivoco è il seguente: pensare che chi ascolta metal lo faccia per scioccarsi, per inseguire il “frastuono per il frastuono”, per cercare emozioni forti date da immagini forti come può essere quella di Satana, escludendo a priori che il metal possa invece offrire contenuti, idee, messaggi, innovazione e creatività. Ma non solo: il metallaro gode in serenità e disinvoltura di ciò che gli altri devono affrontare con impegno e stomaco. Chi è stato in campeggi di festival metal si può rendere tranquillamente conto come il metallaro, pur accingendosi ad assistere a molte ore di musica dal vivo, serenamente si svegli, si lavi, si vesta ascoltando metal, e come la sera si spogli, si lavi, si addormenti ascoltando metal. Senza pensare un momento di essere trasgressivo, dando la sua musica per scontata, come l’aria che respira.

Il metal può assumere tante forme ed a volte può divenire davvero estremo, ma c’è sempre un codice del rispetto, una serie di regole (certe dette, altre non) a cui bisogna attenersi. Un’orchestra o discreti inserti di elettronica, per esempio, per quanto elementi storicamente estranei al metal, sono oggi accettati ed addirittura benvenuti. Gli scossoni, semmai, si hanno quando il codice del rispetto viene calpestato. E’ il caso eclatante di “Load” dei Metallica: mai nessun altro è riuscito a destabilizzare il popolo metallico quanto i Four Horsemen in quella circostanza. I Nostri di punto in bianco si presentarono con i capelli corti, il completo, gli occhiali da sole e il sigaro in bocca. Logo storico abolito, copertina di un’insensatezza unica e un pugno di canzonette appena orecchiabili. Non paghi, l’anno successivo ribadirono con “Reload”: una raccolta di brani figli delle medesime sessioni di registrazione. Sacrilegio nel sacrilegio: rifare “The Unforgiven” in versione country (la deprecabile “The Unforgiven II”). Un altro caso di destabilizzazione fu “Falling into Infinity” dei Dream Theater, album non rigettato con violenza come l’accoppiata “Load”/”Reload”, ma fin dall’inizio non accettato: per la “semplicità” dei nuovi brani? Per l’eccessiva orecchiabilità degli stessi? Era l’approccio commerciale che guastava gli animi? Fatto sta che anche in quel caso, il fan dei Dream Theater (e non solo) si sentì tradito, destabilizzato. Ultimo esempio che portiamo alla vostra attenzione è “Chameleon” degli Helloween (fra l’altro in seguito oggetto di rivalutazione): album nelle intenzioni onesto, ma che ebbe l’ardire di strizzare l’occhio al pop, all’hard-rock, al jazz ed al progressive. Un esperimento che palesò un certo coraggio, ma l’operazione non ebbe successo e quello che ne seguì fu l’allontanamento immediato del cantante Michael Kiske, promotore del cambiamento, ed il pronto rientro nei binari del power-metal più classico.

Queste dunque sono le cose che destabilizzano il metallaro: la violazione del codice d’onore. Nel thrash metal non si può essere commerciali, nel progressive non si può essere sempliciotti, nel power non si può essere troppo sperimentali ecc. Con il tempo queste convenzioni si sono andate allentando, ma in una certa misura esse permangono e vanno a delimitare cosa è concesso e cosa no. Detto questo andremo adesso ad esplorare il problema anche da un'altra visuale: andando a toccare con mano qualche caso in cui il metal può essere considerato, da un punto di vista di contenuti o di messaggio, destabilizzante.

L’esempio per eccellenza di questo stato di cose è la famigerata “Angel of Death” degli Slayer, messa sotto accusa per il celebre testo in cui Hanneman descriveva senza tante limature le torture a cui venivano sottoposti i deportati nei campi di concentramento nazisti. Le polemiche sul testo, soprattutto al di fuori del metal, hanno sempre sotterrato tutto il resto, ingiustamente, perché si parla di una canzone che, a livello di contenuti, può essere considerata fra le più importanti nel nostro genere preferito. Essa è l’opener e la punta di diamante di “Reign in Blood”, un album che ha fatto epoca e grazie al quale gli stilemi del metal estremo avrebbero finalmente assunto una forma compiuta: non più in maniera raffazzonata tipo Venom, ma in modo scientifico e consapevole. Ed “Angel of Death” è l’emblema di tutto questo, andando a descrivere il dinamismo e la perfetta integrazione fra la locomotiva ritmica (con più di un’invenzione da parte del maestro Lombardo) e la controparte chitarristica (fatta di riff ultra-massicci ed in continua evoluzione): un insieme di cose che rappresenterà nella sua essenza la grammatica del metal estremo a venire, con più un bel ritornello ed una cavalcata centrale storcicollo. Perché dunque fermarsi al testo che, a dire del suo autore, fu scritto su temi “forti” solo per adeguare la componente lirica alla violenza della musica? Se i versi avessero parlato di zombie, per il metallaro medio sarebbe stato probabilmente lo stesso, perché egli non si avvicina al pezzo con spirito dissacrante, né tanto meno vi ricerca le emozioni di un testo che rievoca delicati aspetti della nostra storia recente. Andatevi ad ascoltare i Residents!, griderà l’ignorante che non è consapevole della portata innovativa di quel brano.

Resta il fatto che se dovessi fare un viaggio in macchina con i miei genitori, preferirei, per rispetto loro e per le loro orecchie, mettere in filo diffusione un album dei Residents  che uno degli Slayer (ma questo solo per ragioni cacofoniche). Mi ricordo che quando vivevo ancora con i miei genitori, una cosa che faceva incazzare mia padre erano i Cradle of Filth: gli urtava i nervi la voce di Dani Filth, sia nella versione mitraglia che in quella putrefatta, magari corredata da cori angelici o gemiti femminei. Saranno gli organi da chiesa, le sporadiche invocazioni, l’orgia blasfema di suoni messi insieme, fatto sta che alle orecchie non allenate i Cradle of Filth possono suonare davvero fastidiosi. La cosa divertente è che nel metal i Cradle of Filth sono considerati un innocuo fenomeno commerciale, quasi “pop” e vengono persino irrisi per il loro look pagliaccesco! Ed ecco dunque un altro equivoco: magari mio padre all’epoca, mentre bestemmiava contro quei bestemmiatori, pensava che suo figlio fosse solo un coglione che voleva essere un “ribelle” per partito preso, ma che presto avrebbe messo la testa a posto. Non capiva che in realtà quello che apprezzavo dei primi album dei Cradle of Filth erano le composizioni, il dinamismo e l’intelligenza che le animavano, i frequenti cambi di atmosfera, il modo di suonare la batteria di Nickolas Barker, persino le melodie! Se poi mio padre si fosse degnato di leggere i testi, si sarebbe reso conto di come tutta questa loro presunta iconoclastia potesse essere tranquillamente ridimensionata in virtù dello humour (nero) che pervade i volutamente eccessivi scritti di Dani.

Quanto alla testa a posto, suo figlio non la mise, dato che di lì a poco avrebbe iniziato ad ascoltare Burzum e tutto il filone black metal, fino al depressive dei giorni nostri. Questo filone, sia per i temi trattati (depressione, suicidio, auto-distruzione sui generis) che per le forme musicali assunte (grida sgraziate, riff atonali, suoni confusi e dilatati, strutture inesistenti) è forse quello più scioccante che il metal può aver saputo offrire nel corso della sua più che quarantennale storia. Un percorso che partiva da una sana ed onesta goliardia, ben descritta dal testo di “Play It Loud” dei Saxon:

“I was lying on the beach taking the rays
Listening to Deep Purple reminiscing of old days
I was hassled by  lifeguard so I kicked him to the ground
There’s always someone somewhere who’ll try and turn you down

So if you need some action and nothing comes around
Don’t call the doctor turn up the sound
Play it loud
In your neighbourhood
Play it Loud
In your neighbourhood”

Fa sorridere oggi l’immagine del protagonista del testo che ascolta in spiaggia i Deep Purple a tutto volume e che viene ripreso dal bagnino, il quale però viene immediatamente atterrato nel nome del rock e del metal, ma anche di una sorta di autoaffermazione generazionale volta a contrastare regole ed imposizioni della società dei “grandi”, dei bigotti e dei benpensanti. Ne ha fatta di strada il metal ed oggi l’asticella della trasgressione si è alzata ben al di sopra dell’idea di girare la manopola del volume dello stereo e disturbare il vicinato. C’è chi ha profanato tombe, violato luoghi di culto, bruciato chiese, chi si è ammazzato e chi ha ucciso, ma stiamo parlando del contorno, perché se Dead non fosse stato un grande interprete, del suo suicidio poco ci sarebbe importato; e se Vikernes non fosse stato un poeta, Burzum non sarebbe altro che uno dei tanti misconosciuti progetti fallimentari del sottobosco black-metallico. Beninteso, non è che Burzum ci piace solo perché le sue composizioni durano dieci minuti e in esse non accade nulla: ci piace perché troviamo ispirata la penna che ha descritto quelle melodie, la mente che ha ideato quelle atmosfere. E’ la musica che ci piace, non il personaggio e la sua storia (la quale ovviamente non ci lascia indifferenti, ma ai fini del nostro discorso poco conta, anche perché non sarebbe niente di nuovo visto che da sempre il rock nasce e si sviluppa per mano di personaggi maledetti e tormentati, anche quelli più celebri e divenuti oggetto di culto per le masse come Jim Morrison e Kurt Cobain, che rimangono dei grandi artisti a prescindere dalla loro vita privata).

La mia non vuole dunque essere una gara di virilità (“questo è più destabilizzante di quello!”), ma c’è anche da essere realistici: farei ascoltare a chi si destabilizza con i Residents certe cose di Sunn O))) o di Khanate per vedere se rimane impassibile. Se infatti per destabilizzazione vogliamo intendere "sovvertimento delle regole" o (dal punto di vista dell'ascoltatore) "perdita di orientamento", sfido io a trovare dei riferimenti dotati di un senso razionale nelle estenuanti derive droniche dei primi (accordi di chitarra lasciati a vegetare nel vuoto per lunghi minuti - da un certo punto in poi, siamo davvero al di fuori di spazio e di tempo) o nei bozzetti isterici dei secondi (un fastidioso lento/veloce/niente/lento che procede al di fuori di ogni criterio logico): sono anch'esse delle forme di ricerca, in fin dei conti, e c'è chi nel ronzio metafisico dei Sunn O))) trova il modo di trascendere il Reale e chi nelle mostruose architetture dei Khanate riconosce una lacerante lettura del post-moderno. 

Quindi, come non mi destabilizzano i Residents, non mi sconvolgono Slayer, Burzum o Sunn O))): perché la musica è un regno vastissimo, dove vi sono molte cose che, pur contraddicendosi, non rendono me un ascoltatore contraddittorio se oggi ho voglia di ascoltare qualcosa di classico e domani qualcosa di meno ortodosso. La bellezza di una melodia orecchiabile e rassicurante è necessaria quanto la violenza di una dissonanza: sono aspetti complementari che fanno parte della natura umana, che da essa si rispecchiano nella sfera artistica e che accogliamo nuovamente in noi in quanto fruitori di quella stessa arte.