23 lug 2016

DIECI ALBUM (PIU' UNO) PER CAPIRE IL FOLK APOCALITTICO: SOL INVICTUS, "TREES IN WINTER"





Seconda puntata: Sol Invictus

Anno domini 1987: nascono i Sol Invictus di sir Anthony Charles “Tony” Wakeford. Prego passare da queste parti per capire cosa è il folk apocalittico.

Tony Wakeford fu buttato fuori dai Death in June perché aderì al National Front, violando il dettame secondo cui nessuno nella band avrebbe dovuto assumere pubblicamente posizioni di ordine ideologico. Ma è lecito pensare che al di là di questa spinosa questione non vi fossero più le condizioni affinché due personalità così forti, quella di Douglas Pearce e quella di Tony Wakeford, potessero coesistere pacificamente nella medesima dimensione artistica. Paradossalmente le forti divergenze avrebbero portato entrambi al medesimo risultato, ossia un sound che si sarebbe emancipato sia dal punk dei Crisis (dove i due avevano militato ad inizio carriera) che dal post-punk dei primi Death in June, per orientarsi esattamente nella direzione opposta: verso lo standard della ballata folk.

I sospetti per le forti simpatie destroidi di Wakeford non furono affatto fugati quando in seguito, con il suo nuovo progetto Above the Ruins (chiaro riferimento al pensiero del filosofo italiano Julius Evola), nel 1985 partecipò alla compilation "No Surrender!" a fianco di band dichiaratamente naziste come Skrewdriver e Brutal Attack. Il Nostro, tuttavia, avrebbe in seguito rinnegato le scelte di quel periodo (in particolare l'adesione al Fronte Nazionale Inglese), dichiarandosi estraneo a posizioni guerrafondaie, razziste ed antisemite. I cardini del suo pensiero, piuttosto, diverranno due. Da un lato una visione cinica della Storia intesa come un "flusso di sangue" che percorre da sempre la lotta fraticida dell'Uomo su questo pianeta, da Caino ed Abele ai giorni nostri. Dall'altro, come accaduto in parallelo con i Death in June del "rivale" Pearce, una ferma opposizione all'establishment ed uno sguardo nostalgico ancorato ad un passato visto come un'arcadia di nobiltà tradita dal materialismo, dal pragmatismo e dalla mancanza di valori del "Mondo Moderno", incarnato dalla (non)cultura massificante e consumistica americana (vi ricordate di "The Death of the West"?).

Un apparato concettuale che, nel caso di Wakeford, si tradurrà in una musica trovatoriale suonata con strumenti tradizionali e spirito di menestrello: un folk ancestrale, sospeso fra cupezze medioevali e ruggine industriale, capace di richiamare sia incontaminate epoche pre-adamitiche che desolanti scenari post-apocalittici.

Nel mitico Ep di debutto "Against the Modern World" (altro riferimento alla produzione letteraria di Evola), come nel successivo primo full-lenght "Lex Talionis", le scarne ballate dei Sol Invictus erano ancora macchiate da elementi post-punk ed industrial. Wakeford aveva riposto nella custodia il suo strumento, il basso, ed impugnato la chitarra acustica: la sua preparazione tecnica era prossima allo zero, la sua voce, a tratti insopportabile, sembrava quella di un tacchino a cui stanno per fare la festa. Egli seppe tuttavia compensare queste carenze con una forte passione ed una brillante scrittura. Con l'aiuto del bassista Karl Blake (che rimarrà per molti anni ancora nell'organico dei Sol Invictus) e del cantante Ian Read (che invece avrebbe presto abbandonato la nave per fondare i suoi Fire + Ice, altro pilastro del neo-folk) prendevano vita grandi classici come "Angels Fall", "Against the Modern World", "A Ship is Burning", "Summer Ends" (da "Against the Modern World") e "Black Easter", "Kneel to the Cross”, “The Ruins", "Abattoirs of Love" (da "Lex Talionis"): vividi affreschi dell'arte struggente, dolorosa, romantica, ma anche fiera e combattiva di un indomito Wakeford, "dritto fra le rovine", consapevole dell'inevitabile sconfitta, ma pronto a vender cara la pelle.

La prima parte della produzione artistica dei Sol Invictus soffriva però di una produzione approssimativa e di una evidente carenza di attenzione a livello di esecuzione ed arrangiamenti. Ed è un vero peccato perché i brani c'erano, eccome. Con "Trees in Winter", secondo full-lenght ufficiale, pubblicato nell'anno 1990, si raggiungeva finalmente un discreto equilibrio fra forma e sostanza: da un lato i brani brillavano di una ispirazione superlativa, dall'altro essi venivano confezionati per la prima volta in modo dignitoso grazie anche ad una formazione allargata che, oltre al nucleo iniziale Wakeford-Blake-Read, vedeva la presenza di Julie Wood (violino), Sarah Bradshaw (violoncello, flauto e voce) e James Mannox (percussioni a mano). La presenza di strumenti veri e propri che andavano a sostituire sintetizzatori e drum-machine indubbiamente ha giovato alla resa complessiva. E i suoni, che rimanevano grezzi ed artigianali, lungi dal costituire un elemento di fastidio come lo erano stati in passato, conferivano ulteriore fascino all'arte decadente e visionaria di Wakeford.

L'idea che ci si fa ascoltando queste note non è dissimile da quanto ritratto (in modo astratto) in copertina: un paesaggio lunare in cui alberi spogli e rinsecchiti gettano le loro braccia al cielo, un cielo plumbeo e minaccioso. O vi è stata una tempesta, o essa è prossima a venire. L'ensemble di musicisti è immerso in questo scenario, con lui nel mezzo, Wakeford, figura goffa, imbolsita, senza più capelli, sorta di “Dorian Grey al contrario”: con i segni del disfacimento sul proprio corpo, ma nobile ed incorruttibile nello spirito. Se c'è una figura che nel metal può ricordare Wakeford, essa è quella di Quorton dei Bathory: al pari dello svedese, Wakeford deve la propria forza ai suoi limiti. Le sue dita obese scorrono faticosamente sulle corde della chitarra, edificando così epici ed immaginifici accordi; la sua voce strozzata dal pianto, partendo dal cuore e stracciando le corde vocali, si proietta oltre le stecche, giungendo diretta al cuore dell'ascoltatore. Laddove Pearce camuffa i suoi limiti tecnici ed esecutivi dietro ad una dignitosa compostezza, Wakeford si getta senza ritegno nella sua arte, a costo di sbagliare. E la sua carriera sarà piena di errori, sbavature, ridondanze, ingenuità, ma almeno in questo album di sbagli se ne contano veramente pochi.

L'alternanza di Wakeford e Read dietro al microfono (in pratica si spartiscono i brani) scongiura l'effetto-monotonia che due cantanti così poco dotati tecnicamente potrebbero suscitare: il suggestivo ed evocativo recitato di Ian Read (si pensi a due brani da brividi come "Sawney Bean" e "Michael", la quale finirà di diritto nel repertorio dei Fire + Ice del solo Read) fa da perfetto contraltare al canto rozzo e tremolante di Waleford, e conferisce al tutto un alone magico ed ancestrale (umori che saranno prerogativa del suo progetto personale).

I retaggi industriali delle origini sopravvivono solo nella mesta introduzione della grandiosa opener "English Murder" (un intro cacofonico che si stempererà nei desolanti arpeggi di chitarra e nelle carezze ipnotiche degli archi) e nel pulsare ossessivo e marziale del basso nell'altro super classico "Looking for Europe", l'unico brano non folk del lotto. Per il resto quale protagonista assoluta del platter si impone la chitarra acustica di Wakeford, efficacemente supportata da archi e fiati, con i mesti colpi di tamburo di Mannox a fare da contorno e le graffianti pennate di basso distorto di Blake (altro trademark caratteristico del Sol Invictus sound) a rinvigorire le ballate senza tempo della formazione inglese.

Tutti e dieci brani qui contenuti diverranno classici dei Sol Invictus e di conseguenza del genere intero. Aggiungiamo dunque alla lista dei titoli da citare la famigerata "Media" (presenza immancabile ancora oggi in ogni concerto dei Sol Invictus che sia degno di tal nome), "Gold is King" (introdotta dalla voce farneticante del poeta Ezra Pound, altro riferimento culturale imprescindibile), "Here We Stand" (impreziosita nel ritornello dall'ugola fatata della Bradshaw - l'alternanza fra voce femminile e maschile diverrà uno stilema molto utilizzato nel futuro della band), "Blood of Summer" (incalzante folk-song animata dal flauto) e la sofferta title-track, che chiude tragicamente il tutto.  Menzione a parte merita "Deceit", che a parere di chi scrive contiene uno dei momenti più entusiasmanti dell'opera, ossia quando a sorpresa emerge autorevole la voce magnetica di Read in un crescendo corale da brividi (rompendo inaspettatamente lo schema secondo cui Wakeford e il collega si spartiscono i brani).

Tolto il fondamentale (ma acerbo) Ep di debutto, in "Trees in Winter" i Sol Invictus trovano il loro primo capolavoro, aprendo di fatto una felice stagione che vedrà, album dopo album, la medesima formula migliorarsi, grazie anche al contributo di musicisti incredibili (il violino incantato di Matt Howden, la tromba solenne di Eric Rogers, la splendida voce di Sally Doherty ecc.), i quali sapranno impreziosire la passionale visione artistica di Wakeford.

Con album come "In the Rain" (1995), "The Blade" (1997), "In a Garden Green" (1999) la musica dei Sol Invictus si farà sempre più raffinata, magniloquente, ricca di sfumature, sospinta dalle manie di grandezza di Wakeford: un viaggio quasi trentennale che andrà a giovarsi delle esperienze maturate da Wakeford nei suoi album solisti, in quelli confezionati con L'Orchestre Noir (una dimensione che vede il Nostro svestire i panni del menestrello per indossare quelli del compositore classico) e in una miriade di progetti paralleli che, fra musica classica, reminiscenze jazz, folclore popolare e tradizione inglese, sposteranno il baricentro artistico del Nostro verso un colto ed elegante folk noir (così come ama definirlo Wakeford stesso) letteralmente fuori dal tempo.

“But if you’re looking for Europe, best look in your heart...”

Discografia essenziale:

Sol Invictus:
"Against the Modern World" (1988)
"Trees in Winter" (1990)
"The Killing Tide" (1991)
"The Death of the West (1994)
"In the Rain" (1995)
"The Blade" (1997)
"In a Garden Green" (1999)
"The Devil's Steed" (2005)
"The Cruellest Month" (2011)

Tony Wakeford:
"La Croix" (1993)
"Cupid & Death" (1996)
"Into the Woods" (2007)
“Not All of Me Will Die” (2009)

L'Orchestre Noir:
"Cantos" (1997)
"11" (1998)

The Triple Tre (con Andrew King)
“Ghosts” (2008)