25 lug 2016

IL DOOM CHE NON PERDONA - LA VISIONE DEFINITIVA DEGLI THE HOWLING VOID



Gli Howling Void fanno musica monadica.

Ci sono gruppi democratici, in cui decidono tutti. Carismatici, in cui decidono tutti ma alla fine l'elemento trainante è uno. Poi ci sono gruppi tirannici, in cui uno spadroneggia e caccia periodicamente gente stremata da dovergli dar retta. Infine ci sono i gruppi in cui una sola persona si esprime in maniera orchestrale provvedendo a tutti gli strumenti; arrangia, scrive i testi, e si fa anche i pompini da solo.
Qui siamo quindi in una band di un uomo solo (Ryan Wilson, statunitense), che per giunta suona il genere più disperato e solitario che si possa concepire. No, non il depressive black metal, che trova nel suo sarcasmo almeno un ponte di comunicazione, un alito di movimento: parliamo del funeral doom.
Il depressive canta la disperazione, il doom la rassegnazione, questa è la sua cifra generale.

Musicalmente e poeticamente, il percorso degli Howling Void è un tentativo di toccare tutti i registri del doom - che alla fine se ne vanno tutti insieme in malora nella tristezza più infinita, però almeno uno ci prova. I riferimenti sono vari, dalla malinconia elegante dei Candlemass alle folate opprimenti di death-doom...si sentono perfino ritmi alla Summoning, come neanche i Summoning li sanno suonare, con arrangiamenti finalmente decenti. 

Il funeral doom è qualcosa di veramente malato, anche se non il genere più truce, non è il più repulsivo, né il più cupo. La sua cifra è l'unione della tristezza con la soddisfazione, un connubio impossibile razionalmente, ma umoralmente invece sì. Leopardi descrive bene questa ambivalenza ne “La ginestra”, metafora della condizione umana come lui la vedeva. La ginestra è una pianta che cresce su terreni brulli, come se dedicasse il suo fiorire al niente. La tragedia dell'uomo, terribile per chi ne è consapevole, è l'entusiasmo verso il niente, il niente che si rivelerà in seguito, storicamente e biograficamente. L'unica folle salvezza è appunto la capacità dell'uomo di riprodurre, nonostante tutto, quell'entusiasmo endogeno, che non guarda in faccia niente ma guarda se stesso, e si appaga apparentemente del deserto che il mondo concretamente ci offre, finché riesce a sognare qualcosa di diverso. La ginestra è “Il trionfo della rovina” (come l'ultimo album degli Howling Void): contemporaneamente un principio di vita oltre la morte, e un principio di morte nella vita.

Nel doom normale la felicità è perduta, è tradita, è dispersa. Nel funeral doom la felicità rinasce continuamente dentro di noi, ma fuori non trova sbocco. Vive in un eterno funerale di sé stessa, perché ciclicamente si forma e marcisce, si forma e abortisce, si forma ed è uccisa. La si coglie male, o troppo presto, o troppo tardi. Eppure non c'è altro modo di coglierla.

Detto questo, che già renderebbe la cosa pesantina, possiamo pescare qualche verso. “Il ventre oltre la terra”: solo oltre la terra la felicità può venire alla luce, da questo utero cosmico finalmente non inquinato,ma ahimé anche disabitato.

La loro poetica è sospesa quindi tra due punti di vista speculari. Da un lato, la classica celebrazione della perdita, della caducità e dell'assenza. Dall'altro, il presagio e la promessa di un ritorno. 
Ci sono le grida del temporale che riempivano l'aria, e poi si posano a terra come le ombre della notte. E c'è invece il solco immerso nell'oscurità, un tempo letto di un fiume ormai morto, che ruggirà ancora. Ed è ne “La tenebra alle porte” che questi due punti di vista arrivano ad una sintesi:

“questa futile lotta contro la tenebra che avanza
non è abbastanza per spezzare lo spirito di coloro che sono cari agli dei
dovremo giacere distesi tra le carcasse e le ceneri
dalla morte guizzerà la vita”

Il doom canta la vita promessa, e si fonda sulla vita nascosta: “Sempre nascosto / Respiro che non si ferma / nella notte che non muore mai”. La vita rinascerà dentro la notte, dalla notte, senza che il giorno mai si affermi. Il giorno, come opposto della notte, è solo scaramanzia, illusione, e delusione. Il vero giorno è ciò che dalla notte sboccia, da semi di volontà sull'unico terreno reale, quello della tenebra. “In ultimo, i raggi che accecano si perdono nel buio. Ascoltami Dio nascosto”. Il divino è nel buio, ma non in senso satanico. E' proprio la spiritualità, la fecondità, ad essere custodita nella morte apparente, nella apparente sterilità del buio. Come in un castello difeso da fossati e draghi, il seme della vita non sta alla fonte della luce, ma oltre il limite che separa l'ultima sfumatura luminosa dal buio. La luce è il prodotto, il buio la fonte

Quando si leggono i The howling Void si oscilla sempre tra un senso di opprimente immobilità e una prospettiva di rinascita. Secondo una loro metafora “un respiro cosmico sepolto dentro pietra vivente”. O anche, come il titolo del primo disco “Monoliti dell'abisso”: un vettore verso il basso, l'abisso, che porta a uno verso l'alto, il monolite. Questo primo disco, stilisticamente, è quello più classicamente doom, senza speranza, anche se connotato dall'accostamento di due elementi opposti. La sabbia, risultato di sgretolamento, e l'acqua, che trasporta e nutre. L'immagine più emblematica è quella di “Mollusk”:

Fessure slabbrate del paesaggio sbadigliano intorno a me
Pietre si sgretolano in polvere e cadono in profondità
Niente è familiare qui, eppure è sempre uguale a se stesso
La conchiglia si sbriciola intorno a me dentro il fondale e la sabbia
Sono avvelenato dal sale della terra
Niente è piacevole qui, né lo è mai stato
Frammenti di un involucro friabile di crostaceo
Unghie, capelli e ossa coperte di cenere.

Quello che un tempo fu un essere umano si sta trasformando in un mollusco, i tegumenti cadono e si sbriciolano, diventano tutt'uno con la sabbia. Eppure, per sfuggire al sale che avvelena la vita, il mollusco si costruirà forse un bozzolo, da cui rinascerà pesce volante, se non farfalla.

Il trionfo della rovina quindi non si definisce solo come celebrazione pomposa e maestosa della rovina ineluttabile e totale, ma  è la celebrazione dell'ibernazione, unica soluzione e prospettiva di vita quando tutto è perduto.
Per questo la ginestra era contenta dei suoi deserti, perché vedeva oltre. E Leopardi sorrideva dietro la famosa siepe oltre cui immaginava l'infinito. Il “dolce naufragio” di cui parlava Leopardi era appunto il trionfo della rovina, lo sbriciolamento del guscio intorno al mollusco che lo costringe a ritirarsi in una forma di vita ancora più primordiale, per poi passare il testimone ad una nuova vita.

A cura del Dottore