14 lug 2016

QUALE FUTURO PER IL METAL? (terza ed ultima parte) IL PUNTO DI VISTA DEI LEPROUS



Da un po' di tempo a questa parte ci affligge una questione in particolare: quale futuro si riserva per il metal? Abbiamo provato a rispondere prendendo in considerazione una band relativamente giovane, riconoscendo nella sua musica il consolidarsi di nuove tendenze che potessero dare fiorenti prospettive al nostro genere preferito. Abbiamo dunque parlato degli inglesi Haken in quanto band e del neo-progressive in quanto sotto-genere capace di incanalare le energie più vive del momento. Abbiamo poi osservato le gesta degli americani Between the Buried and Me, i quali, con modalità diverse, ci hanno fornito un'interpretazione analoga di metal progressivo inteso come contenitore in cui far convergere una miriade di influenze: da quelle più classiche (e radicate nella tradizione del rock degli anni settanta) a quelle più moderniste, sconfinando persino nell'elettronica.

Chiudendo un ipotetico cerchio, torniamo dalla nostra parte dell'oceano e parliamo dei norvegesi Leprous e del loro capolavoro "Bilateral".

Fondati nel 2001, essi giungevano nel 2011, con questo album, alla consacrazione definitiva, dopo essersi fatti notare con il promettente debutto "Tall Poppy Syndrome", uscito due anni prima. "Bilateral", a detta degli stessi autori, rappresenta il picco sperimentale della loro carriera e non è un caso che dietro alla produzione vi sia lo zampino di una vecchia volpe come Ihsahn, che li volle a tutti i costi come gruppo spalla in tour e che da quel momento si è rivelato essere un importante sponsor per i Leprous. Ma nemmeno questo è un caso, visto che il cantante/tastierista della band Einar Solberg aveva fatto parte della primissima formazione degli Emperor in qualità di tastierista. Due premesse importanti, perché ci fanno capire come il prog-metal dei Leprous attinga anche da quel calderone di band che hanno solcato la terra dei fiordi, dando dell'estremo un'interpretazione libera ed avanguardistica (Arcturus, Winds, ultimi Borknagar ed appunto gli Emperor). Ma attenzione: le band appena citate costituiscono solamente una delle varie (e tante) componenti del sound multiforme dei Nostri. Multiforme ma anche omogeneo, in quanto il quintetto sfoggia una fluidità sinfonica, una imprevedibilità, una schizofrenia che sono ben radicate in un armonico, scorrevole e ben levigato flusso di elementi, che poi, a guardar bene, è il tratto comune di molte band norvegesi.

Diversi sono dunque gli elementi mutuati dal metal estremo: in "Thorn" troviamo l'ugola al vetriolo del mentore Ihsahn (presto seguita da contorti volteggi di una bella tromba jazzata, come a voler richiamare in modo esplicito quelle contorsioni avanguardistiche che sono tipiche della carriera solista dell'ex leader degli Emperor); in"Waste of Air" veniamo immediatamente investiti da uno spietato blast-beat e da chitarre sfrigolanti in perfetto stile black metal; sparse per tutto il platter, infine, ricorreranno sovente piccole dosi di screaming o growl. Ma questi sono solo schizzi in un affresco ben più complesso e particolareggiato: quello che è infatti chiaro fin dai primissimi istanti della title-track (posta in apertura) è che il multivitaminico progressive dei Leprous, come già visto con Haken e Between the Buried and Me, fa incetta di gustosi ingredienti provenienti da mondi diversi ed apparentemente inconciliabili. Quindi non troveremo solo l'eredità dei grandi del rock progressivo o del prog-metal (Dream Theater e Pain of Salvation su tutti), ma anche l'influenza del rock “barocco” dei Queen, tracce di Tool, Muse, Mars Volta e persino le ultime novità in materia di djent. Insomma, il "classico prog totale" che fa accadere di tutto ad ogni piè sospinto, oliato con quella fluidità tipicamente “norvegese” a cui si faceva riferimento prima (un approccio che potremmo definire "arcturusiano") ed ammaestrato con una perizia tecnica davvero rara (si guardi alle funamboliche partiture strumentali della conclusiva "Painful Detour" - roba che mozza letteralmente il fiato).

Bene, tutto chiaro, splendido, lampante, no? Ed invece niente è chiaro: le ombre rimangono fitte sul futuro del metal! Ebbene, dopo qualche giorno trascorso a tu per tu con il neo-progressive dei vari Haken, Between the Buried and Me e Leprous, siamo presto passati dall'esaltazione alla noia, o meglio, siamo pervenuti ad una strana sensazione di insensibilità e di incapacità di esaltarci, perché in questo neo-progressive accadono troppe cose, per questo dopo un po' alle nostre orecchie queste prodezze suonano insipide (come in un mondo in cui vi sono solo bellissime donne: dopo un po' ci assuefacciamo e nemmeno ci voltiamo più a guardarle). E questo stato di cose non può essere il futuro del metal.

Può essere sicuramente un ambito interessante da approfondire, un terreno che può dare gustosissimi frutti, ma queste pur valide band non possono sobbarcarsi sulle spalle le sorti del metal intero, assumere quel ruolo guida che per esempio i fautori del thrash metal negli anni ottanta, o del power nei novanta, hanno assolto con gran senso di responsabilità. E poi il neo-progressive (nell'interpretazione che ne danno le tre band di cui stiamo dibattendo) non è musica che possono suonare tutti: impossibile dunque che il metal si rigeneri e ristrutturi battendo una strada percorribile solo da un'avanguardia di fighetti da conservatorio.

Probabilmente è il presupposto iniziale da cui siamo partiti ad essere sbagliato: mettersi infatti oggi alla ricerca della next big thing del metal, ossia di una band capace di cambiare il volto del metal, come in passato è successo con Metallica, Pantera, Dream Theater o Tool, è una pratica obsoleta e fondamentalmente inutile. Già a guardare gli ultimi tre lustri ci si rende conto di come le cose si siano andate a complicare: da un lato la contaminazione a farla da padrona e la conseguente morte dei generi classici; dall’altro band validissime ed innovative che non hanno saputo attirare l'attenzione per più di tre album di fila (una miriade di passetti in avanti e laterali che non hanno sancito la creazione vera e propria di nuovi paradigmi) e l'assenza assoluta di nuovi campioni che sappiano semplificare gli scenari per renderli più comprensibili a tutti.

Ecco dove sta il problema: nel metal contemporaneo si incorre sempre più spesso in musicisti ipertecnici e con una vasta cultura musicale che permette loro di compiere le connessioni più azzardate (roba nemmeno concepibile venti anni fa…). Ognuno fornisce così generosamente il proprio contributo: grande gioco di squadra, tattiche sopraffine, innumerevoli passaggi in area, ma nessuno che, al momento opportuno, è in grado di dare la zampata vincente (figuriamoci quel colpo di mano à la Maradona che potrebbe risolvere la partita).

Fateci caso: tutte le rivoluzioni, nel metal come nel rock, sono state “semplici”. Metallica, Slayer, Anthrax, per esempio, sono stati geniali nel coniare un nuovo linguaggio (il thrash metal), ma poi alla fine quello che facevano era elementare, tanto che è stato rifatto da altre miliardi di band, sia in campo thrash che in campo death (e non è che quegli ambiti pullulino di virtuosi). Idem i Pantera che delinearono un nuovo modo di suonare thrash metal, tanto che tal modo di suonare fu poi descritto con un termine nuovo di zecca (il groove metal), a cui presto sarebbe seguito un altro genere ancora, il nu-metal (il metal degli anni novanta, ricordiamolo, sta ai Pantera come il cinema degli anni novanta sta a Tarantino). Eppure cosa avranno mai fatto i Pantera? Riff massicci e quadrati riproposti in serrata successione e ritmiche pompanti con cambi di tempo all’unisono con la chitarra. Ma lo hanno fatto per primi e lo hanno fatto meglio degli altri. Ultimo esempio: cos'è la rivoluzione post-hardcore se non l’aver coniugato hardcore e lentezza/pesantezza/psichedelia sabbathiana? Una cazzata, eppure l'hanno fatto solo i Neurosis, che diverranno i capofila di una popolazione di musicisti che segneranno la storia del metal degli anni zero (Isis, Cult of Luna ecc.).

Più una formula è facilmente replicabile e più l'idea che vi sta dietro avrà diffusione. Non è detto quindi che i movimenti più nutriti siano quelli più geniali, ma alla base di essi vi è sempre un'idea che funziona. Nell'era di internet abbiamo tante informazioni ma poche idee. La conclusione è ovvia: si sviluppa il neo-progressive. Musicisti talentuosi, partiture spericolate e tanta tanta carne al fuoco. Ma il cuore? Giustamente il nostro Morningrise, pur elogiando i grandi Between the Buried and Me, sottolineava una certa freddezza nella loro musica: non il freddo glaciale del black metal, né il gelo squallido di chi, come nell'industrial, volutamente tratteggia scenari di mesta alienazione metropolitana. No, il freddo interiore di una compagine di ragazzi che sa fare tutto e che non ha da dire nulla di particolarmente urgente, se non "quanto ci divertiamo a suonare" (che per l'amordiddio è cosa legittima e sacrosanta…).

Il neo-progressive dunque può esser visto come un sontuoso centro commerciale iper-fornito in cui possiamo, in una volta sola, trovare tutto quello che ci serve: supermercati per la spesa, negozi per lo shopping, palestre per tenersi in forma, cinema multisala per vedere l'ultimo film in 3D, sale giochi per svagarsi, fast-food per uno spuntino, ristoranti chic per una cena d'affari, cinese, giapponese, tailandese, ogni palato può trovare soddisfazione. ,Ma ogni singolo servizio/intrattenimento di questo fantastico centro commerciale luccica irrimediabilmente di quelle superfici patinate e brilla di quei sorrisi forzati che sono esposti in bella mostra per estorcerti denaro. Non fraintendiamoci: nel neo-progressive c'è gente onesta che di soldi ne vede proprio pochi, è solo che nel troppo fare ("perché siamo troppo colti e bravi per non poter fare a meno di  incorporare ogni sonorità che ci passa per la testa") si finisce per strafare. E in questo affannarsi spesso non si ha il tempo di sedersi e riflettere su quello che vogliamo essere e su dove vorremmo andare.

E infatti questi gruppi, grazie alla solida ed incrollabile razionalità che ispira le loro gesta, faranno sempre album ben suonati e sopra la media, ma probabilmente non riusciranno mai a colpire nel segno, a lasciare il segno. Essi continueranno ad incrociare-macchiare-contaminare, quando invece dovrebbero plasmare queste loro influenze, sezionarle e rielaborarle con personalità e con la consapevolezza di appartenere al presente (e non al passato). Provare dunque ad incarnare il ruolo del vero artista: l'artista che, con uno sguardo diverso da quello della persona comune, tramite la propria sensibilità, sa cogliere prima di altri i tratti, gli umori, le criticità del proprio tempo. E, tramite i mezzi espressivi a propria disposizione, restituire un'immagine intellegibile a tutti.

Se Raf cantava "Cosa resterà degli anni ottanta", noi non possiamo che cantare cosa rimarrà degli anni dieci. Non lo sappiamo, ma abbiamo paura che rimarrà ben poco: non perché manchino le band veramente valide, ma perché viviamo in una fase storica così veloce e convulsa che ci è impossibile capirla, e in essa distinguere le costanti dalle variabili. Forse dovremmo allontanarci ancora un po' e guardare il presente fra qualche anno, senza fasciarsi la testa prima di rompercela…