17 ott 2016

RECENSIONE: IN THE WOODS..., "PURE"






"Bentornati nel 1996": questo doveva essere il titolo dell'ultimo album degli In the Woods..., inaspettato ritorno discografico targato 2016, dopo diciassette anni dall'ultima testimonianza da studio.

Torna molta gente, e sono tornati anche loro, ma gli In the Woods...sono per noi un gruppo troppo importante per poter "sfilare" senza essere osservato e giudicato con severità, soprattutto dopo un'assenza dal mercato discografico così lunga, soprattutto per chi come noi quel nome lo ha venerato quando uscivano album epocali come "Heart of the Ages" (1995) ed "Omnio" (1997).

Devo dire la verità: in tutti questi anni gli In the Woods...non mi sono mancati. Diciamola tutta: "Strange in Stereo", loro canto del cigno targato 1999, era stato un mezzo troiaio. Per questo, averli potuti salutare con il bel concerto d'addio "Live in the Caledonien Hall" (2003), con tanto di riletture di brani di King Crimson e Jefferson Airplane, era stato il miglior modo per accomiatarci da una band che ci aveva dato così tanto, ma che rischiava di sputtanarsi definitivamente. Una formazione straordinaria che tuttavia ad un certo punto si è ritrovata in un vicolo cieco, impantanata nelle proprie ambizioni avanguardistiche.

Come dire: si erano fermati appena in tempo: per quanto maldestro, l'ultimo passo della loro carriera non era riuscito infatti a compromettere il buon nome della band, che almeno in linea di principio si era dimostrata fino alla fine coraggiosa e dedita alla causa di una gestazione artistica priva di compromessi. Il sapore che avevano lasciato in bocca gli In the Woods... era dunque buono, un sapore di "purezza", "sfortuna", "incomprensione", "ingiustizia", "leggenda". In altre parole fra questi solchi si formò un vero e proprio culto: un culto alimentato dal fatto che i Nostri sono stati negli anni successivi presi come riferimento basilare (per la loro scrittura libera e fuori dagli schemi) da molte band appartenenti alle svariate correnti del post-black metal. Un culto che si è alimentato, ovviamente, anche grazie alla lunga l'assenza dalle scene. Perché dunque ritornare?

Riformatosi nel 2014, dopo due anni di rodaggio sul palco, gli In the Woods...si riaffacciano oggi su un mercato discografico totalmente diverso da quello di vent'anni fa, sostanzialmente non subendo gli influssi di tutti gli eventi e cambiamenti occorsi nel frattempo. Sostanzialmente rimanendo uguali a se stessi. Un punto a favore se si va a guardare quel concetto di purezza richiamato fin dal titolo dell'album (ma che brutta però quella copertina con il vecchio che mangia la minestra, con tanto di costellazioni sullo sfondo). Un punto di demerito, invece, per una band che si era dimostrata costantemente "avanti".

Premere play e farsi investire da un riff in stile Paradise Lost/Katatonia può essere bello per gli amanti del gothic metal targato nineties, ma può anche essere brutto per chi dagli In the Woods..., dopo così tanti anni, si aspettava qualcosa di più caratteristico, peculiare, sorprendente: qualcosa di "più In the Woods...".

L'ascolto (oltre sessantasette minuti di materiale!) andrà a confermare questa prima impressione: nonostante la durata piuttosto lunga dei brani, lo spirito più squisitamente progressivo ed avanguardista si è andato un po' a perdere, rimpiazzato da sonorità più convenzionalmente doom/gothic e persino da qualche spunto black recuperato in extremis, anche se non se ne sentiva tanto il bisogno.

Il fatto è che gli In the Woods... sono sempre stati un gruppo "Oltre": con "Heart of the Ages" si spinsero ben più in là delle già lungimiranti band black metal dell'epoca. Basti pensate all'opener "Yearning the Seeds of a New Dimension", dove si dovette aspettare molti minuti prima dell'irrompere del gelido screaming per certificare il prodotto ufficialmente come black metal: una lunga introduzione che si era aperta con umori ambient per tingersi presto di sognanti colori pinkfloydiani come nessuno aveva osato fare prima di allora. "Earth Metal" lo definivano gli stessi autori, tanto era elevata la compenetrazione fra musica e Natura (da qui il suggestivo monicker). Poi con "Omnio" si sganciarono dal black metal, approdando alla psichedelia ed alle sonorità post che, assieme ai connazionali Ved Buens Ende....., avevano praticamente portato per primi nel black metal. Dispiacque che quell'atmosfera da "falò crepitante nella foresta" si fosse un po' persa, ma questa perdita veniva compensata da nuovi elementi, da sonorità tanto lontane dal nostro mondo che potevano valere sia per descrivere gli abissi dell'inconscio che luoghi posti da noi a distanze siderali. Gli In the Woods... cambiavano pelle, ma non approccio, né la loro musica aveva perduto quella profondità spirituale che era presente nel folgorante debutto. Anche "Strange in Stereo”, nel suo piccolo, aveva avuto l'ardire di procedere ancora più Oltre, distaccandosi persino dal metal per approdare ad un "qualcos'altro" sospeso fra alternative-rock, dark-wave ed avant-garde.

E "Pure"? Come molti altri album che segnano il ritorno di un artista dopo molti anni di attività, esso preferisce bypassare l’ultimo stadio evolutivo toccato in passato e collocarsi in una “terra di mezzo” in cui la band forse viveva il momento più sereno da un punto di vista artistico (anche perché l’evoluzione a volte può essere un processo artificiale). Così fecero i Carcass, così fece Vikernes, ma che lo facciano anche gli In the Woods...ci procura una strana sensazione: per la prima volta i norvegesi non guardano avanti, retrocedendo in una zona ideale posta fra "Heart of the Ages" ed "Omnio", normalizzando il proprio suono, appiattendolo per certi versi, ma soprattutto perdendo quel modo di procedere imprevedibile che aveva animato i due capolavori degli anni novanta.

L’incarnazione attuale si cuce intorno ad un parziale nucleo originario composto dai fratelli Christian e Christopher Botteri (chitarra e basso) e da Anders Kobro (batteria), che nel frattempo si era tenuto allenato con i Carphatian Forest. L'ossatura del "nuovo" corso si concentra quindi su questi strumenti, a cui dobbiamo le principali gioie che il platter è capace di offrire. Queste gioie (e ce ne sono!) si agganciano principalmente a passaggi strumentali riusciti, con le classiche cavalcate dettate dalla batteria incalzante di Kobro, il quale procede in modo ordinato, ma con quelle variazioni/accelerazioni seminate al punto giusto che per davvero ci riportano a venti anni fa. Anche le melodie della chitarra sono spesso avvincenti, imperniandosi in giri ricorsivi di katatoniana memoria. Alle tastiere, invece, sono lasciati solo i ricami, il dovere di riempire i frequenti intermezzi che spezzano il fluire elettrico dei brani.

A completare la formazione, dietro al microfono troviamo il nuovo vocalist James Fogarty, pure chitarrista e tastierista (niente voci femminili a questo giro, e la cosa un po’ ci dispiace). Meno "odinico" e più influenzato dall'universo dark-wave (un tragico pulito, il suo, con qualche "raschiata" qua e là di cui non si sentiva il bisogno), Fogarty non fa rimpiangere chi lo ha preceduto (tutt'altro che estraneo alle imperfezioni), ma si ha l'impressione che un po' il Nostro giri a vuoto, non colpendo sempre nel segno e disperdendosi in vocalizzi che non riescono a salvare quei passaggi che suonano meno consistenti.

Si poteva sforbiciare qualcosa, si poteva correggere qualcosa, e se anche è appurato che gli In the Woods...non sanno cosa siano le forbici né le gomme per cancellare, le imprecisioni che da sempre caratterizzano il sound "de core" dei Nostri, oggi si digeriscono peggio, in quanto non contornate da guizzi di bellezza degni di nota. E il fatto che le emozioni più forti si abbiano al termine di "Towards the Black Surreal", in cui si citano in modo palese stralci di "Heart of the Ages", spiega davvero tutto.

Lungi dall'essere un'operazione biecamente nostalgica, quello degli In the Woods... rimane un gradito ritorno, un ritorno che però non sconvolgerà le nostre esistenze.