11 nov 2016

SHORT STORIES: RITORNARE A CASA IN COMPAGNIA DEI LAKE OF TEARS



La scorsa settimana è scattata l’ora solare. Uscendo nel tardo pomeriggio da lavoro non c’è, in questa fase della giornata, la luce che mi ha accompagnato nel tragitto di ritorno verso casa da marzo ad ottobre.

La cosa personalmente non mi turba minimamente. Anzi. Ma ho come l’impressione che a molti invece il “cambio di stagione”, che con l’ora solare diventa plasticamente evidente (è come se si tirasse una riga marcata tra la stagione calda e l’inizio di quella invernale), crei maggiore malinconia interiore. Con l’accorciarsi delle giornate, vedo le persone sui mezzi pubblici più truci, più dimesse. Ancora più mestamente piegate a scrivere compulsivamente sui loro smartphone o a guardare vacuamente dai vetri con l’espressione spesso incarognita. Ho sempre avuto l’idea che con le giornate più lunghe, le temperature più alte e la luce più persistente l’umore delle persone intorno a me fosse migliore; il loro sguardo più vivo e “positivo”.

A cura di Morningrise

Lunedi scorso tornando a casa la sera, mi sono accorto di una cosa: che alcune di quelle stesse persone che, salendo sull’autobus, mi parevano così tristi&grigie, ora stavano a loro volta indugiando su di me, scrutandomi un po’ interdetti. Mi sono chiesto cosa avessi fatto per attirare la loro attenzione. E subito ho capito: ero caduto in estasi nell’ascolto dei Lake Of Tears. Nel mio lettore mp3 girava infatti “Headstones”, album del 1995 del combo di Boras. 
"Headstones" è’ un disco che non mi fa star fermo perchè ascoltando quei riff granitici, epici e quei chorus trascinanti, non posso fare a meno, ogni qual volta lo ascolto, di accompagnare i brani con smorfie, digrignamento dei denti e movimenti della testa. Non solo: il naso mi si arriccia, le guance si intesiscono; la mia espressione si deforma al ritmo delle varie “Dreamdemons”, “Sweetwater” o della struggente title-track.
Basta il riff iniziale, sabbathiano come non mai, dell’opener “A Foreign road”, per farmi partire questi gesti corporali in maniera del tutto automatica. Non solo: anche le dita delle mani si muovono lungo una tastiera immaginaria di una chitarra, simulando accordi di quinta. Dita che in realtà sono attaccate a un apposito sostegno del mezzo urbano

Doveroso intermezzo: non fatevi ingannare da ciò che si legge in rete sui siti specializzati perchè i LOT non sono, e men che meno lo erano durante i loro anni d’oro, un gruppo gothic metal. Come abbiamo già avuto modo di accennare nel nostro post sui secondi dieci migliori album delle cult band anni novanta, a proposito del loro capolavoro “A Crimson Cosmos”, la band svedese ha contaminato la sua proposta con diversi stilemi, rendendosi riconoscibile tra mille (e il gothic è solo uno delle tante sfumature del loro sound). In quell’occasione abbiamo usato l’espressione “carica malinconica” per sintetizzare il loro mood. Perchè c'è malinconia, c'è un'aura decadente, questo sì. Ma il tutto interpretato in modo cazzuto, potente, fortemente "metal". E questo, almeno per chi scrive, è una caratteristica che prevale su tutto il resto.

In “Headstones” lo scheletro portante, assolutamente doomico, di scuola paradiselostiana, viene adornato da caratteristiche personali uniche, a partire dalla voce di Daniel Brennare. Le tastiere gothicheggianti sono davvero usate col contagocce e mai invadenti, preferendo i Nostri giocare tutto su strutture semplici, guidate da riffoni azzeccatissimi e dannatamente trascinanti, e da un alternarsi in chiaro-scuro di un’elettricità a tratti distorta e a tratti pulita, vero trademark dei LOT. 
Raramente viene abbandonato il formato-canzone, canonico ma mai banale; e quando decidono di fuoriuscirne, come ad esempio nella conclusiva “The path of the gods” con i suoi tredici minuti e mezzo di saliscendi emozionali, i risultati sono straordinari.

L'affetto e la gratitudine che provo per "Headstones" viene anche dai testi dei brani, oscuri, evocativi, che (sarà il potere dell'immaginazione!) mi sembrano così calzanti anche per un contesto quotidiano e routinario, come quello che sto vivendo: un bus che mi porta a casa dopo una giornata di lavoro. A road dark / when the damned walk / a road old, open arms to fold me / I recall the crossroads, the junction of the ways (dalla già citata opener “A foreign road”).
E proseguendo con la seconda traccia “Raven land”: Do you know what they hide, hide within their hearts / Can you see the sorrow within their eyes (cazzo Daniel, ma hai scritto apposta per me questi versi allora!)

Il disco prosegue senza un attimo di cedimenti, senza filler noiosi. Ogni traccia ha un qualcosa di diverso dalla precedente, ha soluzioni diverse all’interno di uno stile definito e personale. 
E così il viaggio passa rapido…sto arrivando alla mia fermata. Devo scendere; il platter, nei suoi 48 minuti (perfettamente calzanti come durata al mio tragitto casa-lavoro), si sta esaurendo. Il buio è più intenso di quando sono uscito dall’ufficio, ma non ho il viso stanco o annoiato di quelli che scendono con me. Sono appagato dalla compagnia dei LOT
Me li porto in casa; proprio mentre salgo sull’ascensore risuonano le ultime parole di Brennare nella succitata "The path of the gods": Small creatures coming near / then turn to disappear / all while the faeries sing / ode to waters, ode to winds...che poesia!

Varco la soglia di casa, ricaricato a molla dall’ascolto di “Headstones”. E mi chiedo se non sarebbe una buona azione, la prossima volta, ascoltarli senza cuffie...metterli in diffusione sul bus, così vediamo l'effetto che fa sul morale della gente!