10 ott 2017

PRODIGY: LA FINE DI TUTTO






I lettori di Metalmirror sanno che di tanto in tanto osiamo addentrarci in ambiti non proprio strettamente metallici. Ma quando lo facciamo, lo facciamo sempre avendo cura del nostro pubblico, non perdendo di vista il tracciato di una linea editoriale che guarda sempre e comunque ai gusti ed agli interessi del metallaro.

Con questo spirito oggi affrontiamo il tema Prodigy, un'entità che tutto sommato possiamo definire tangenziale al metal e che, in ogni caso, è nota a tutti. 
Sfido chiunque di voi, infatti, a sostenere di non aver mai sentito almeno un brano dei Prodigy. Per quanto ci abbiano lasciati indifferenti, per quanto ci abbiano incuriosito, per quanto ci abbiano fatto schifo o ribrezzo, è stato letteralmente impossibile nel corso del biennio 1996-1997 (prima con la diffusione di una serie di singoli di grande successo, poi con la pubblicazione del best seller "The Fat of the Land") sottrarsi al fenomeno Prodigy.

Nel bene o nel male i Nostri hanno segnato un'epoca: non solo grazie ad una massiccia esposizione mediatica, all’immagine pittoresca dei componenti della band e ai videoclip di brani noti fino alla nausea come "Smack My Bitch Up", "Breathe" e "Firestarter" (tormentoni passati incessantemente sia in TV che alla radio e riproposti sistematicamente nei locali alternativi). Ma anche e soprattutto grazie al fatto che negli anni a venire la loro musica avrebbe finito per permeare ogni ambito della nostra cultura: dalla pubblicità ai programmi televisivi, passando per le colonne sonore di film e videogiochi e molto altro ancora.

Come accaduto con "Ok Computer" dei Radiohead (altro album epocale uscito nel 1997), molti dei brani contenuti in "The Fat of the Land" si sono immediatamente imposti nell'immaginario collettivo con la forza dell’instant classic. Ma per i Prodigy, che certo non possono rivaleggiare a livello artistico con Thom Yorke e soci, fu principalmente una questione di tempismo: furono indubbiamente il gruppo giusto al momento giusto.

C'era bisogno dei Prodigy. Come in un simbolico passaggio di testimone, i Nostri raccolsero, o meglio sfruttarono l'eredità sociologica del grunge. Presto il disagio che aveva serpeggiato nei primi anni novanta si sarebbe trasformato in rabbia, nichilismo, spirito di rivalsa, ma anche in voglia di divertimento: terreno fertile per il proliferare della Prodigy-mania.

I Nostri seppero andare incontro alla rave generation (assetata di sballo), alla cultura pulp (rilanciata dall'ascesa vertiginosa del cinema tarantiniano) e a quella cyber-punk (riattizzata da pellicole di grande successo - un nome su tutti: "Strange Days"): un mondo di tendenze culturali caratterizzato da violenza iperbolica, trovate kitsch  e velleità distopiche. E così con un sol balzo si passò da "Smells Like Teen Spirit" a "Smack My Bitch Up", ossia dalle nevrosi al "disimpegno alienato" (quello che pochi anni dopo i Radiohead avrebbero descritto con la geniale "Idioteque).

Tale fu il bombardamento mediatico che neppure un “animale” apparentemente estraneo come il metallaro potette far finta di niente: molti di noi (e mi ci metto anche io) iniziarono a guardare con interesse questa proposta che, tramite il medium dell’elettronica, sapeva esprimere una rabbia che, da un punto di vista attitudinale, si avvicinava al punk e persino a certe forme di metallo crossoveristico (non scordiamoci che nella prima metà degli anni novanta il metal era stato contaminato da sonorità alternative che avevano portato alla ribalta realtà "ibride" come Ministry e Rage Against the Machine).

Non era dunque affatto una cosa strana, già all'epoca, imbattersi in recensioni di "The Fat of The Land" in magazine di settore e con toni tutt'altro che dispregiativi (la rivista Flash, per esempio, gli assegnava un bell'80/100). A maggior ragione non mi stupisco se oggi nel 2017, a venti anni esatti dalla sua uscita, questo album sia considerato addirittura un classico dalle nuove generazioni.

Non a caso l'idea per questo post mi è venuta non per motivi celebrativi, ma per un rapido scambio di battute con un ragazzo molto più giovane di me. Alla domanda su cosa ne pensasse dei Prodigy, in modo molto rilassato, come se dicesse la cosa più vera, appurata, certificata e naturale del mondo, mi ha risposto che, sebbene a lui non piacessero più di tanto, i Prodigy sono stati indubbiamente l'inizio di tutto. L'inizio di tutto.

Semmai i Prodigy sono stati la fine di tutto, è quello che di rigetto mi è venuto da pensare, ma in fondo questa disparità di vedute è solo una questione anagrafica: è perfettamente normale infatti che un ragazzo nato nei primi anni novanta veda un album del 1997 come qualcosa di enormemente storico e seminale. Facendo un parallelo per meglio capire, anche una band come i Joy Division può davvero per qualcuno costituire l'inizio di un nuovo universo musicale ed al tempo stesso rappresentare la nemesi di tutto quello in cui, per esempio, ha creduto un cultore del rock settantiano (figuriamoci un appassionato di prog!).

I Prodigy, in modo analogo ma senza i meriti artistici di Ian Curtis e soci, si ritrovano ad occupare un punto di snodo cruciale nella storia della musica popolare. Abbiamo già detto che la loro vera forza è stata il tempismo: un successo decretato dalla capacità (cosa comunque non da tutti) di azzeccare una pugno di canzoni che avrebbero avuto presa immediata. Presto, tuttavia, la loro stella si sarebbe eclissata: non scompariranno, perché proprio grazie a quel pugno di canzoni hanno guadagnato l'immortalità, ma da un punto di vista artistico si sgonfieranno come un palloncino pieno d'aria, dimostrando una ispirazione ed una creatività davvero poco longeve, corredate da esibizioni dal vivo sempre più fiacche e debilitate dalla imbarazzante forma psico-fisica dei componenti superstiti.

Quanto al loro passato (perché i Nostri nascono nel 1990 e contano due full-lenght, un album di remix e svariati singoli prima del botto con "The Fat of the Land"), i fan puristi detrattori della loro fase mainstream ne decantano ancora le lodi in quanto esponenti di spicco della scena hardcore britannica e del movimento big beat. E' innegabile tuttavia che prima i Prodigy suonassero molto diversi, più affini all'universo prettamente dance, techno-rave ed ancora scevri da quelle contaminazioni rock/punk che varranno la loro fortuna.

Insomma, i Prodigy, gusti a parte, sono probabilmente una entità sopravvalutata la cui carriera, a conti fatti, si sorregge su un unico colpo vincente assestato al momento più opportuno, fra un passato dignitoso, ma dai connotati sostanzialmente diversi, ed un futuro inconsistente. Per avere un'idea più chiara della loro pochezza, basti andare ad ascoltare i coevi Chemical Brothers o gli appena successivi Daft Punk, i quali, partendo da premesse non troppo dissimili (l’idea di forgiare un’elettronica ad uso e consumo per le masse), sapranno costruire percorsi virtuosi capaci di coniugare qualità e successo commerciale.

Vediamo meglio il contesto storico. Da un punto di vista prettamente artistico, all’inizio degli anni novanta nel mainstream si viaggiava ancora ad altissimi livelli qualitativi. In particolare possiamo affermare che tutta la prima metà degli anni novanta è stata una fase salutare per il rock: anni in cui, dopo una decade dedicata principalmente all’edonismo ed alla sperimentazione elettronica, si riscoprivano l'elettricità, il disagio e i suoni viscerali. Suoni inaspriti, ma resi anche più veri da un malessere generazionale che imperversava fra i giovani del "post Guerra Fredda".

Sotto questa rinnovata scorza elettrica, tuttavia, la spinta innovativa, quella genuinamente creatrice che era sopravvissuta al di sotto dei suoni patinati e laccati degli anni ottanta, si era affievolita ulteriormente: il rock, da un certo punto in poi, non ha saputo più inventare nuovi stilemi. E il grunge, per quanto fenomeno di rottura, non ha portato grandi innovazioni stilistiche, limitandosi a rappresentare un (importante) fenomeno di recupero e di aggiornamento di vecchi stilemi alle esigenze di una società sostanzialmente mutata.

Dopo il ciclone grunge le cose non sono migliorate, in quanto si è passati ad una successiva fase di stallo in cui le energie creative sono andate a scemare ulteriormente, almeno a livello di rock mainstream: il rock veramente creativo si espanderà in tanti piccoli rigagnoli prediligendo l'intimismo e le sperimentazioni di nicchia (vedi l'esempio dei Radiohead), mentre a livello di massa appassirà in forme sempre più commerciali ed evanescenti, schiacciato dall'ascesa travolgente di R&B e hip-hop, che purtroppo ancora oggi dettano legge.

Si ebbe quindi una stagione in cui il rock (ma anche l'hard rock ed addirittura il metal: si abbia in mente la popolarità dei vari Metallica, Guns 'N' Roses, Skid Row, Bon Jovi ecc.) imperversava per la TV e poteva godere di un successo di massa. Si ha poi avuto, quasi subitaneamente, un'altra stagione in cui il rock, fatta eccezione delle sue forme più innocue (mi vengono in mente Foo Fighters, Green Day ecc.) è praticamente scomparso per rifugiarsi nella dimensione del "culto".

In mezzo a queste due ere troviamo proprio i Prodigy, vero spartiacque fra diverse concezioni della musica (più o meno) popolare: prima i ragazzi trasandati con T-shirt a righe e camicie a quadrettoni, poi i gangster di colore con catene d’oro al collo a bordo di limousine. In mezzo a questi due scenari, ecco che svettarono le linguacce e le crestine colorate di Keith Flint, il trucco e le declamazioni di Maxim, il groove martellante e i fraseggi spezzati di Liam Howlett.

Con gli occhi di oggi, quella dei Prodigy ci appare così come una "carnevalata", una "rivoluzione" un po' ruffiana che seppe fare incetta del disagio giovanile per governarlo e condurlo in modo subdolo a forme sterili ed innocue di ribellione: una ribellione di plastica, sintetica, fatta di droghe chimiche, vuoto entertainement, la finta aggregazione di rave party che invece alimentavano una solitudine, un isolamento, un individualismo che avrebbero fatto tanto bene proprio a quell'establishment che si intendeva colpire.

E così la musica bombastica e massimale di quei "ragazzacci dell'Essex" si rivelò un boccone prelibato da gettare nelle fauci di giovani allo sbando che consumavano il presente senza prospettive, senza una progettualità; giovani che avevano bisogno di risposte semplici e della loro dose quotidiana di rabbia addomesticata.

Prodigy: la fine di tutto.