26 mag 2018

UNA STORIA COMMOVENTE: RETROSPETTIVA SUI REDEMPTION



Sono passati sei minuti dall’inizio di “Black and White World”, ritornano le note di pianoforte ad allietare le mie orecchie e durante le ultime due strofe di questa canzone tratta da “Snowfall on Judgement Day”,  mi commuovo.

In quel preciso momento ho compreso che l’apprezzamento per questo gruppo stava crescendo, tanto da completarne la discografia e seguirne le gesta con attenzione.
Nel 2009 il chitarrista e principale compositore Nick Van Dyk annuncia con un  comunicato di avere un mieloma multiplo, cioè un tumore incurabile del sangue che prevede una sopravvivenza breve. La notizia grava ovviamente sui Redemption e quella band che stava scalando il gradimento dei fans progressive di tutto il mondo, rischia di sparire in un attimo.

Quattro anni prima, dopo un anonimo debutto, era uscito il fulminante  “The Fullness of Time” dove la voce sempre bella di Alder dava calore alla tecnica di Nick, soprattutto nella memorabile titletrack che supera i venti minuti, ma anche nella brillante “Threads”.
Un disco che raccoglie consensi unanimi, un grande disco per quanto mi riguarda, che unisce il progressive ad una emotività tipica dei migliori esempi del genere. Una delle più belle uscite prog degli ultimi quindici anni che non passa inosservata, sia per la presenza di Ray Alder alla voce, sia per la qualità dei suoni.

Il futuro luminoso della band sembra tracciato anche grazie alle attenzioni di una casa discografica che è un’istituzione come la Inside Out, ma il successivo album “The Origins of Ruins” non mantiene a pieno le attese. Un discreto lavoro che scivola nel canonico e, pur mantenendo alcune canzoni di livello, non sfonda.

La forza dei Redemption si riassume con il calore delle loro composizioni; infatti spesso nei gruppi power progressive metal c’è il rischio che la tecnica inibisca le emozioni. Invece questi americani sono gente dal cuore caldo che non dimentica quanto possa essere importante un giro di pianoforte, una pausa più riflessiva o saper rallentare per toccare l’animo di chi ascolta.

In concomitanza con l’uscita di “Snowfall on Judgement Day” arriva la notizia della malattia del fondatore Van Dyk, un disco che poteva rappresentare il parallelo con “Innuendo” dei Queen. La diagnosi per il chitarrista parla di un tumore scoperto casualmente dalle analisi del sangue, ma asintomatico e che nell’arco di 5 anni uccide la maggior parte dei malati.

Il macigno sul gruppo e sul disco è preoccupante, ma i settanta minuti che compongono l’album sono bellissimi. Struggenti ma profondi, c’è qualche cupezza in più ma anche nei testi prevale la forza, una ricerca di speranza. Torniamo a quei minuti finali di “Black and White World” dove la vita era percepita a colori, ma adesso il quadro si scurisce e nel nome di un amore si cerca di accontentarsi delle piccole cose, di toccare l’acqua dell’Oceano e di andare avanti mano nella mano. Lacrime.

Colpo di scena: nel 2011 esce “This Mortal Coil” e Nick è ancora con noi, ha combattuto il tumore ed è ancora vivo oltre ogni aspettativa!

Un disco che si allontana dai precedenti, diventa più duro e cupo sia nei suoni che nelle tematiche, le tastiere diventano più oscure e la luce in fondo al tunnel della malattia ci ha lasciato un musicista diverso. I testi passano in rassegna i timori e le ansie che la mente umana deve affrontare di fronte alla malattia: la forza e lo scoramento, la quotidiana paura e la grinta; ecco è proprio questa rabbia di sopravvivere che emerge dalle note. Detto questo e felice per la presenza di Nick, a me il disco convince meno degli altri. Non voglio mai trovare il tempo per ascoltarlo, ma amo possederlo perché è la testimonianza di vita di Van Dyk.

Passano gli anni e la sfortuna si accanisce con Versailles, altro chitarrista del gruppo, che viene colto da un aneurisma e deve lasciare il gruppo. Le cartelle cliniche sono più numerose di un pentagramma sulla scrivania di Van Dyk, ma non si fa prendere dallo scoramento e chiede indirettamente aiuto ai Megadeth. Arruolerà infatti per “The Art of Loss” che uscirà nel 2016, tre chitarristi che sono stati alla corte di Mustaine: Chris Poland, Marty Friedman e Chris Broderick (oltre a Simone Mularoni dei DGM). Tutti ospiti di grande personalità che moltiplicano i soli e la presenza della chitarra è ancor più preponderante: si perde forse un po’ in amalgama, ma si guadagna in esecuzione.
Rispetto a “This Mortal Coil” i suoni sono meno sporchi e gli umori tornano a toccare le corde giuste, anche se ci sono miriadi di chitarre da seguire e l’ombra degli ultimi Fates Warning è maggiormente presente.

Sto fissando ancora il bicchiere di vino rosso rotto in copertina e, grazie alla forza d’animo di Van Dyk, mi si inumidiscono ancora gli occhi ascoltando “Damaged” e sto imparando a capire la grandezza di questo gruppo nonostante le sfortune e mi auguro che Nick ci stia indirettamente solo insegnando a gestire con arte il concetto di perdita.

Discografia completa con voto:

“Redemption”: 6

“The Fullness of Time”: 8

“The Origins of Ruins”: 7-

“Snowfall on Judgement Day”: 7.5

“This Mortal Coil”: 6.5

“The Art of Loss”: 7+