17 ago 2018

DIECI ALBUM PER CAPIRE IL POST-INDUSTRIAL: COIL, "HORSE ROTORVATOR"



Terza puntata: Coil 

L’industrial è un tipo di musica essenzialmente concettuale: al pari di altre correnti di rottura culturale di fine anni settanta come punk e post-punk, nelle sue orbite hanno gravitato per lo più musicisti poco preparati, se non addirittura non-musicisti

I Coil costituirono una splendida eccezione a questo stato di cose: la loro preparazione tecnica era nettamente al di sopra della media e la visione artistica che ne conseguiva era più penetrante e consapevole di quella di molti loro colleghi. Oggetto di una rivalutazione più che altro postuma, i Coil sarebbero riusciti ad accattivarsi simpatie anche al di fuori dei circoli del loro genere di appartenenza, elevando di fatto il post-industrial ai ranghi della “musica colta”. 


Raffinati e al tempo stesso kitsch, intellettuali ed al contempo fisici, i Coil rappresentarono in ogni loro incarnazione un miracoloso equilibrio di opposti: nobiltà e bassi istinti, dramma ed ironia, follia e razionalità (un mix letale che ricorda da vicino la lucida morbosità del serial-killer...). Nella loro musica i mondi dell'Eros e del Thanatos non si trovavano in posizione di contrasto, bensì coesistevano, anzi divenivano la stessa cosa, sublimati nel concetto di eccesso. Tutto era eccessivo nei Coil: i temi potevano essere quelli canonici dell'Amore e della Morte, ma venivano trasfigurati nella malattia, irrigati dalla tossicodipendenza, estremizzati nella perversione, il tutto affrontato con piglio intellettuale e con il linguaggio dell'arte e dei riferimenti letterari. 

Salvo vari aggiustamenti di line-up, lungo la loro trentennale esistenza i Coil sono stati essenzialmente un duo: Peter Christopherson, proveniente dalle fila dei seminali Throbbing Gristle, e John Balance, militante nei minori Zos Kia, ma amico di personaggi influenti come Douglas Pearce e David Tibet (oltre a prestare la voce in molti album dei Current 93, il Nostro avrebbe partecipato alla gestazione del mitico “Brown Book” dei Death in June, manifesto del folk apocalittico). 

Christopherson e Balance si incontrarono durante le sessioni di registrazione di “Force the Hand of Chance” degli Psychic TV (progetto avviato da Genesis P-Orridge dopo lo scioglimento dei Throbbing Gristle). Due anni dopo, nel 1984 per l'esattezza, sotto il vessillo dei Coil i due avrebbero dato alle stampe l’EP “How to Destroy Angels”, il quale conteneva una traccia di sedici minuti per sole percussioni (un esperimento di musica rituale che prendeva a modello i maestri Current 93). 

Fu tuttavia con il primo full-lenghtScatology”, del medesimo anno, che la personalità della band ebbe modo di emergere nelle sue più importanti peculiarità, configurandosi in una riuscita miscela di elettronica, industrial e post-punk, dove la produzione accorta del guru dell'industrial-rock Jim Thirlwell (noto ai più con lo pseudonimo Foetus) faceva la sua parte. Con “Horse Rotorvator”, rilasciato due anni dopo, quella stessa formula veniva ulteriormente perfezionata.

I Coil avrebbero nel corso degli anni successivi continuato a partorire lavori superlativi, adottando approcci diversi, passando con disinvoltura dalle sonorità più disparate: dall'acid-house di “Love’s Secret Domain” (1991) si passò, per esempio, alle esplorazioni ambient dei due tomi di “Musick to Play in the Dark” (rispettivamente del 1999 e del 2000). Gli oscuri rituali di “Astral Disaster” (2000), la psichedelia cosmica della tetralogia di EP “Moon’s Milk (In Four Phases)” (2002), il dark-cantautorato di “The Ape of Naples” (2005), uscito postumo dopo la morte di Balance (vittima di un banale incidente domestico nel 2004), sarebbero state ulteriori strabilianti tappe di un viaggio compiuto da artisti che, fino alla fine, non avrebbero mai smesso di sperimentare. Ma in tutta questa fantasmagorica epopea, l’opera che meglio di tutte ha rappresentato la prodigiosa visione artistica dei Coil rimane “Horse Rotorvator”. 

“Horse Rotorvator” è anzitutto un crocevia di stili dove gli elementi più disparati trovano felice collocazione (non è un caso che i "nostri" Ulver si siano dichiarati in più di una circostanza loro estimatori). I campionamenti di Christopherson e il carisma vocale di Balance sono l’asse portante di un discorso che sa mettere insieme beat danzerecci, spunti jazz, avanguardia tout court, occultismo e, perché no?, un pizzico di folk apocalittico (lo stesso titolo dell'album è ripreso dai versetti biblici dell'Apocalisse). Suoni ed arrangiamenti, cosa da sottolineare, sono semplicemente sublimi, tanto che  è frequente, durante l'ascolto, dimenticarsi che ci troviamo ancora  nel lontano 1986! 

I toni nel complesso rimangono malsani (e come potrebbero essere altrimenti?), ma l'atmosfera solo a sprazzi si fa veramente tesa, stemperata di frequente da dosi di humour (nero ovviamente). La musica dei Coil è un'entità essenzialmente schizofrenica, dominata dai repentini cambi d'umore, in cui coesiste un lato più grottesco, quasi surreale, che possiamo trovare persino divertente, ed uno più morboso, terribilmente morboso, così morboso che può mettere davvero paura, proprio perché inaspettato. Non siamo mai stati dei patiti per il track by track, ma in questi casi una veloce rassegna dei brani è indispensabile per restituire al lettore la reale complessità dell’opera.

Si parte alla grande con la bizzarra "The Anal Staircase" (prima hit di successo della band): una folle fanfara in cui il drumming tribale e il canto invasato di Balance guidano un'allegra processione di tromboni, campanelli, schiamazzi di bambini e incursioni rumoristiche di ogni genere. Con "Slur" troviamo una continuità nell'elemento tribale, ma i toni si smorzano in una specie di pop (?!) elettronico dai suoni curati ed originalissimi, impreziosito dai controcanti sibilanti dall’ospite Marc Almond (ex Soft Cell). La schizzata "Babylero" non è altro che una breve parentesi che mette in risalto le doti di "sarto" di Christopherson, qui intento a violentare una filastrocca infantile. 

I rumori di una tranquilla sera d'estate (il cantare dei grilli, una chitarra classica in lontananza, l'abbaiare di un cane) introducono l'atmosfera mediterranea di "Ostia (The Death of Pasolini)", capolavoro nel capolavoro, estremo saluto al grande scrittore e regista italiano assassinato in circostanze mai chiarite proprio nel litorale romano (il brano costituì il primo di una serie di tributi dedicati dalla band ad artisti dichiaratamente omosessuali – ricordiamo che Balance e Christopherson lo erano e che facevano coppia anche nella vita): si tratta di una avvolgente requiem in cui le minimali trame delle tastiere si vanno ad intrecciare con sinuosi arrangiamenti di archi dal sapore est-europeo. Le malinconiche ed oblique vocalità fanno il resto, svelando una sensibilità che non ci si aspetterebbero da uno come Balance. 

"Herald" è un altro intermezzo che ritrae il festoso baccano di una sgangherata banda di paese: il compito è evidentemente quello di allentare la tensione accumulata con il brano precedente e di aprire all'incedere minaccioso e violento di "Penetralia", una lunga traccia strumentale che riesuma le torbide ambientazioni dell'esordio. Qui a dominare è il massiccio battito della drum-machine, che viene accompagnato dalle accettate di una chitarra elettrica e dalle devastanti incursioni elettroniche che certo forniranno qualche spunto ad act come Nine Inch Nails e Ministry. L'assolo dissonante del clarino di Steven Thrower (che nel frattempo era divenuto un membro ufficiale dei Coil) si unisce all'orgia sonora, concedendosi anche un breve intermezzo sconfinante nei lidi dell'avant-jazz. Gli esperimenti rumoristici proseguono in "Ravenous", un'altra strumentale, nella quale è possibile seguire le evoluzioni di suoni non esattamente codificabili: in questo caso, ad essere evocato, è il passato esoterico della band. 

"Circles of Mania" è invece un brano del tutto imprevedibile (non a caso c'è ancora una volta lo zampino di Thirlwell) dominato dai cambi d'umore del singer. Un andamento da cabaret ai limiti dello swing (con tanto di basso pizzicato e fiati incalzanti) fa da sottofondo ad un Balance euforico che dà sfogo a tutta il proprio range espressivo: sussurri, falsetti demenziali, urla improvvise, risate isteriche, latrati, mugolii, versacci di ogni tipo in un crescendo di delirio difficilmente emulabile. L'euforia si muta in gelo con "Blood from the Air", una parentesi macabra in cui la fredda elettronica di Christopherson disegna scenari notturni, mentre la voce di Balance torna controllata e minacciosa. Lo scricchiolio della chitarra elettrica e le improvvise deflagrazioni di rumorismo fanno di questo pezzo qualcosa di veramente inquietante. È poi il turno della divina "Who by Fire" di Leonard Cohen, qui in versione funerea e rallentata, ma ancora riconoscibile, sebbene rivestita con i gelidi suoni dei synth: un altro brano pacato dall'incedere misticheggiante in cui tornano i leziosi ricami vocali di Marc Almond ad accompagnare il rantolo sbilenco di Balance. 

Chiudono due strumentali: l'apocalittica "The Golden Section", con il suo incedere marziale di tromba e tamburo, e la voce dell'attore Paul Vaughan a tessere la cronaca della fine del mondo; e "The First Five Minutes After Death”, la quale chiude le danze all'insegna di atmosfere degne di una pellicola horror. 

Cosa dire ancora sul conto di “Horse Rotorvator”? Un capolavoro assoluto, un'opera pirotecnica, estremamente curata in ogni suo dettaglio che ci consegna degli artisti in stato di grazia e che, priva di veri momenti di cedimento, sa mantenere ben desta l'attenzione dell'ascoltatore dal primo all'ultimo minuto (nemmeno cinquanta: davvero pochi se si pensa alle quantità di idee messe in campo!). Chiunque voglia penetrare nell'insano e perverso mondo dei Coil, dovrà passare necessariamente da qui. 

Discografia essenziale: 

“How to Destroy Angels” (1984) 
“Scatology” (1984) 
“Horse Rotorvator” (1986) 
“Love’s Secret Domain” (1991) 
"Musick to Play in the Dark vol. I” (1999) 
“Musick to Play in the Dark vol II” (2000) 
“Astral Disaster” (2001) 
“Moon’s Milk (In Four Phases”) (2002) 
“The Ape of Naples” (2005)