18 nov 2018

DETROIT'S ROCKPOLITIK - PARTE DESTRA: TED NUGENT




Una faccia di merda.

Non saprei definirlo in altro modo Theodor “Ted” Nugent, nato nei sobborghi di Detroit 70 anni tondi tondi fa, il prossimo 13 dicembre.

Egocentrico, arrogante, vanesio, spaccone, sempre sopra le righe, tanto da presentarsi sul palco, in corrispondenza dell'esecuzione della splendida "Great White Buffalo", montando un bisonte bavoso. E tutto questo sarebbe il meno.

Perché il Gonzo del Michigan è soprattutto un razzista (“Gli uomini non sono stati creati uguali”, “I neri sudafricani sono una genie diversa di uomini, girano ancora con gli anelli al naso, nudi e si puliscono il culo con le mani”); nemico degli animali di cui, da invasato cacciatore qual è sempre stato sin da giovane, nega ogni diritto (“Ho difficolta a pensare a qualcosa di più divertente delle persone che pensano che gli animali abbiano dei diritti”); convinto sostenitore della diffusione della armi (è membro del Board della National Rifle Association); nazionalista da sempre affianco dei candidati repubblicani alla Presidenza (compreso Donald Trump) e oppositore acerrimo dei democratici (da pelle d’oca le definizioni affibbiate alla Clinton e ad Obama); sessista, donnaiolo impenitente (6 figli da 4 mogli diverse) e pare anche fortemente attratto dalle giovincelle adolescenti (“Beh, non mi interessa se hai 13 anni / sei troppo bella per essere vera / so che probabilmente sei vergine / e c’è solo una cosa che devo farti”, recita un suo pezzo), "tendenza" che gli ha procurato negli anni anche dei grattacapi legali. Ma al contempo è anche il tipico bigottone e infervorato attivista contro droghe e alcool…

Insomma: o lo si ama (se ci si assomiglia...) o, come verrebbe più facilmente naturale, lo si odia.

Per chi, come noi, riesce a distinguere personalità privata e capacità artistiche, la musica di Nugent piace e lo consideriamo, rispetto ai coevi MC5 (Nugent cominciò a farsi conoscere con gli Amboy Dukes già nel 1963 prima di passare nel 1975 alla carriera solista), l’altra faccia di Detroit, la Motor City che Nugent celebrò in quel mitico pezzo, fortemente autobiografico, che risponde al nome di “Motor City Madhouse”.

Musicalmente siamo lontani anni luce dagli MC5 (nonostante un comune background blues). Qui ci troviamo di fronte ad una sorta di guitar-hero ante-litteram che si è ritagliato un posto nella Storia della nostra musica preferita per la sua capacità di sapersi aprire ad un rock davvero pesante per l’epoca. Dopo un paio di album di “assestamento” infatti, “Uncle Ted” tra il 1977 e il 1978 seppe assestare tre carichi da 90, facendo vedere di che pasta era fatto. “Cat scratch fever” è un gran bel disco, trainato dalla title track, con un riff blackmoriano e in cui la durezza del sound si sposa perfettamente con le succittate venature bluesy, donando al tutto un’aura di calda passionalità. 

Non poteva mancare la testimonianza live del successo ottenuto in quegi anni: “Double live Gonzo!” (1978) è per chi scrive uno di quei live che non può mancare in nessuna discografia, album basilare per ricostruire la nascita di un certo filone hard and heavy. Nell’ora e venti di durata Nugent da fondo a tutto il suo istrionico chitarrismo, condito da pose sensuali, sproloqui parasociali, assoli e fughe chitarristiche degne dei grandi guitarist settantiani. Coadiuvato alla voce dall’ottimo Derek St. Holmes (futuro collaboratore anche di Michael Schenker), il Nostro trasferisce la carica controllata dei dischi in studio sulle assi del palco, trasudando classe e idee. Gli 11 brani sono tutti memorabili (con nota di merito per i 16’ della strumentale “Hibernation” e gli 11' di “Stranglehold”, forse le due testimonianze più fulgide del rock di Ted), ma ogni brano è una piccola gemma di hard rock da conoscere e ascoltare alla nausea Fino alla già citata conclusiva, anthemica “Motor City Madman”.

Ma è con il successivo “Weekend warriors” (1978) che Gonzo si smarca ulteriormente dal suo retroterra blues per abbracciare in modo convinto un hard and heavy alquanto avanti coi tempi, a livello di suoni e soluzioni. L’album, trainato da brani davvero notevoli come la trascinante opener “Need you bad”, il mid-tempo “Venom soup”, o la conclusiva “Name your poison”, è davvero valido e cazzuto, probabilmente l’ultima testimonianza da ricordare di Nugent.

Da lì in avanti infatti “The Nuge” (ma quanti cazzo di soprannomi ha Ted?!?) si assesterà su un livello medio, ritornando ad un heavy blues poco ispirato e più di maniera, con titoli da censura (tipo “Penetrator” o “If you can’t lick ’em…lick ‘em!”).

Insomma, cari metalheads, la scena di Detroit è stata, come abbiamo potuto constatare in questi due post, fondamentale anche per tutto l’hard/punk/metal a venire, fonte di ispirazione e idee per tanti gruppi che avrebbero fatto la storia tra la fine dei 70 e quella degli 80.

MC5 e Ted Nugent, così apparentemente lontani sotto ogni punto di vista, non erano in realtà altro che due facce della stessa medaglia. E cioè quella Motor City all’epoca così avanti e oggi così  decaduta…

Left or right? Make your choice...Noi l'abbiamo fatta e le prendiamo tutte e due...

A cura di Morningrise