10 feb 2019

UNA SETTIMANA IN COMPAGNIA DI DEVIN - Parte IV


DIECI ALBUM (PIU' UNO) PER CAPIRE DEVIN TOWNSEND - Cap. IV

Ed eccoci finalmente all'ultimo post dedicato al grande Devin!

Dopo aver concluso l'analisi dei dieci album fondamentali per conoscere ogni sfaccettatura della musica del Nostro, eccoci al tanto atteso "più uno". Stiamo ovviamente parlando di...

TERRIA (2001) – IL “CAPOLAVORO”

Il senso ultimo e profondo di quest’opera lo possiamo già intuire nella strepitosa cover di Travis Smith, dove un uomo (l’Uomo?) girato di spalle è esattamente al centro di una riga divisoria. Una divisione non simmetrica in cui a prevalere è la parte del cielo non priva di nubi ma che comunque lascia intravedere l’azzurro e verso il quale la persona guarda. Alla sua destra incombente, un cielo più grigio, plumbeo, minaccioso, soffocante.

La battaglia tra Luce e Oscurità è in atto. Quello che ne risulta è “Terria”.

Emozioni. Emozioni a profusione per 70’. Come trasporle in parole? Impossibile. Ad appena 29 anni Devin tira fuori il suo “album-mondo”, il suo capolavoro. Rispetto al passato, ma rispetto anche a quello che avverrà nel futuro. Non un album perfetto, per carità (“The Fluke” è solo un brano discreto, per dire…), ma di svolta sì. Perché in “Terria” Devin riesce, come un provetto equilibrista, a trovare il giusto mix di ragione e sentimento. E cioè: da un lato realizza brani dal songwriting meticoloso, scientifico, curato nei minimi particolari (forse anche come reazione alla sua non soddisfazione per il precedente "Physicist"), capace di estrinsecarsi in piccole suite di infinito valore metallico (ad esempio l’accoppiata “Earth Day” – “Deep Peace”, o la sensazionale “Tiny Tears”); e dall’altro riesce a riversare palate di sentimento, mai stucchevole o patetico. Sentimenti che attengono anche alla propria terra natale, il Canada (al quale dedica espressamente una canzone); ma, come dice il titolo stesso, al Pianeta Terra tout court. Il grido “recycle”, assieme di dolore e di denuncia sociale, urlato in screaming in “Earth Day” è emblematico in tal senso.

Come sempre, ma mai con questo equilibrio e qualità, il sound è un assemblaggio di sperimentazione progressiva, nel segno di un metal a tutto tondo, in cui la matrice townsendiana viene coniugata con tanti altri stilemi: dal rock al folk, dall’heavy classico al thrash al neo-progressive. Risultando sempre coerente. Su tutto vola come sempre la sua voce, capace di strapparci le budella per la sua durezza, così come farci scendere calde e quasi inconsapevoli lacrime per la sua dolcezza vellutata.

A prevalere, come accennato nella descrizione della copertina, probabilmente per la prima volta in modo totalmente consapevole, è la parte solare, positiva del “bipolarismo” townsendiano. Non che il lato oscuro e pesante non sia adeguatamente rappresentato (l’accoppiata iniziale “Olives” – “Mountain” sta li a dimostrarlo) ma in qualche modo “Terria” si presenta come un’opera, non tanto umanamente risolta ma, diciamo, in via di risoluzione (come detto, dovremo aspettare “Sky Blue” per l'apparente risoluzione del conflitto).

L'’anima dell'autore, qui "a nudo" come non mai, deborda da ogni solco del disco tanto che, da quel 2001 in poi, qualche "pezzetto" terriano entrerà in ogni futura produzione sonora di Devin, che con questo platter lascerà il suo marchio sulla Storia del Metal...

Voto: 9,5

…e il resto? E gli album mancanti? Li si tralascia così, senza neppure un accenno?

No, ciò che non abbiamo trattato nei nostri essentials, non è assolutamente materiale trascurabile. Di cagate Devin non ne ha mai fatte ed è per questo che ci sentiamo in dovere, anche per completezza, di fornire una rapida scorsa agli album, ahimè, rimasti fuori.

E allora eccole qui, veloci schede descrittive in ordine cronologico:

-   Infinity” (1998 - voto: 7). Appena acclarato clinicamente il suo disturbo bipolare, Devin, accompagnato dal fido Hoglan, entra in studio…e, pare, ci dorma pure dentro! Anche grazie all’uso di qualche sostanza psicotropa, il lavoro di mesi si concretizza in questo disco in cui, come la copertina esprime, il Nostro si mette a nudo e tira fuori (ehm…scusate l’involontario gioco di parole) un album che è la perfetta continuazione del precedente solista “Ocean machine”. Il suo prog metal/rock, in cui ogni tanto, nel sound come nelle vocals, esce fuori lo strapping young lad che è in lui, si estrinseca in 46’ bizzarri, spiazzanti (vedasi l’ottimo metal jazzato di “Bad devil” o la conclusiva, funkeggiante “Noisy Pink bubbles”) e/o caotici (“War” o la scheggia violenta di “Ants”); affianco a riusciti brani molto accessibili (“Christeen”, “Colonial boy”, la strumentale “Unity”). Il disco rimane ondivago, disomogeneo (pur con la solita omogeneità di fondo) gradevole ma non totalmente a fuoco. Insomma, Devin in quel 1998 doveva ancora maturare un po’. E non ci avrebbe messo tanto…

-      Devlab” (2004 – s.v.) Questo laboratorio deviniano è composto da 65’ di suoni eterei, voci (a volte delicate, sussurate; altre volte scarificanti), campionamenti assortiti. E anche lunghi silenzi. Devin esprime con quest’album (composto da 15 tracce prive di titolo) la sua passione per l’elettronica e la sperimentazione estrema. Non essenziale, un primo passo ambient/noise che porterà comunque dei succosi frutti futuri…

-    The Hummer” (2006 – s.v.) Dopo “Devlab”, Devin ci riprova. Ancor più lungo del precedente (73’!!), TH tiene fede al suo titolo: ronzii, brusii, mormorii, ticchettii da codice Morse, qualche nota di flauto (“Consciousness causes collpase”) lievi suoni liquidi di onde marine (“Cosmic surf”)…le 6 tracce del disco si susseguono in una sorta di drone music in bassa frequenza. Ancora una volta, un esperimento non pienamente riuscito ma evolutivamente coerente, e più accessibile, del predecessore. E, dopo ripetuti ascolti, non priva di un certo fascino…

-   Ki” (2009 – voto: 6,5) Per chi scrive, probabilmente l’album più ostico da digerire e interpretativamente sfuggente della discografia del Nostro. Primo a uscire sotto il monicker DT Project, e primo di una serie di 4 album (assieme ad “Addicted”, “Ghost” e “Deconstruction”) che avrebbero dovuto, in una sorta di mega-concept, mostrare ognuno un lato diverso dello stato dell’animo del suo autore, “Ki” si configura come un disco fondamentalmente crossover. Per quanto non manchino riffoni metal (“Disruptr”, “Gato”), l’atmosfera generale è sorprendentemente rilassata. Stilisticamente molto difficile da descrivere, in bilico com’è tra spruzzate di metal, blues/jazz rock (“Trainfire”), funky (“Ain’t never gonna win”) e ballate psichedelico-progressive (“Terminal”, “Lady Helen”, la title track), a volte mi ha fatto sentire come in un disco dei migliori Faith No More (“Coast”, la strepitosa “Heavens end”).

     Al netto di qualche brano evitabile (“Winter”, “Quiet riot”, “Demon league”), “Ki” rimane un platter di valore (grandiose le parti vocali) anche dopo ripetuti ascolti, durante i quali cresce notevolmente di gradimento grazie anche alla graduale scoperta degli arrangiamenti, accuratissimi come sempre. In fin dei conti, ancora una dimostrazione di coraggio sperimentale e idee (quasi sempre) vincenti.

      Face your chaos / know who you are!

-       Addicted” (2009 - voto: 7,5) Secondo album del DTP e primo che vede la collaborazione della Dea Anneke con Devin. Ma su esso abbiamo già ampiamente trattato e quindi vi rimandiamo al nostro  post apposito.

-     Z² - Dark Matters” (2014 – voto: 7) La seconda parte di “Z²”, “Dark Matters” (sotto monicker solista) è il sequel, heavy/thrash, con venature industrial, della saga ziltoidiana cominciata 7 anni prima. La trama si infittisce, così come gli intermezzi narrati (che occupano oltre il 10% dell’intera durata); vengono inseriti nuovi personaggi e il sound sembra contorcersi e complicarsi di pari passo con lo sviluppo del concept. Ma un ascolto attento e continuo dimostra come i brani più che validi non manchino (su tutti le intro iniziali “Z²” + “From sleep awake”, la lunga “War princess” e il marziale mid-tempo di “March of the Poozers”). Come in "Sky Blue", si fa anche grande uso di cori e tastiere che ben si integrano con il sound pesante e la generale atmosfera cupa del disco.
  Forse un sequel di cui non si sentiva troppo l’esigenza, ma se l'esigenza l'ha sentita Devin, non possiamo che starcene umilmente…e il finale della bellissima “Dimension Z” (top song del platter) è pure aperto a un terzo capitolo della saga…

E con questa carrellata concludiamo la nostra settimana in compagnia di Devin Townsend. E’ stato bello, per quanto complesso, scrivere su di lui e la sua musica, rendendomi conto perfettamente di non essere stato esauriente, visto che avrei voluto approfondire altri aspetti della sua poliedrica bulimia compositiva. Ma per ragioni metodologiche, di tempo e spazio, abbiamo deciso di non contemplare in questa Rassegna la sua attività coi già citati Punky Brüster (divertente esperimento che mescolava death/thrash metal brutale e punk), i SYL (che non hanno bisogno di presentazioni) e i Casualties of Cool (delicata, e a oggi isolata, esperienza country/blues rock in collaborazione con Ché Aimee Dorval). Nonché la sua produzione dal vivo. Ed è un peccato perché le release live del Nostro sono indicibilmente valide, divertenti, trascinanti e mettono alla luce la sua grande capacità tecnica (sia strumentale che vocale) e di intrattenitore (vedi nostro post dedicato all'argomento).

Insomma, la carne al fuoco da trattare è stata davvero tanta e sarebbe stata, come detto, ben maggiore. E il bello della faccenda è che, presumibilmente, ancora molto dovremo aspettarci in futuro, vista la qualità assoluta delle sue ultime produzioni, sia in studio (“Transcendence”) sia live, che ci fanno capire come l’ispirazione del Nostro sia davvero lungi dall’esaurirsi.

Per questa ragione è sicuramente presto per parlare di “lasciti” o di “eredità” di Devin per il metal contemporaneo. Ad oggi, possiamo tracciare però una linea ben marcata che sottolinei delle caratteristiche uniche e immediatamente riconoscibili. Caratteristiche che delineano un (wall of) sound straordinariamente ricco, sincretico, estremo sia nella sua versione più brutale che melodica, non a caso apprezzato da una vasta gamma di metalheads con background diversissimi tra loro. Riprova, questa, del valore di un’artista che ha sempre riversato nelle sue opere tutto se stesso, tanto da poter dire che ogni suo album è un concept album, perché ognuno descrive, nella sua complessità, lo stato d’animo del suo creatore (e non a caso in quasi ogni disco le canzoni sono legate l’una all’altra senza soluzione di continuità). E questo i fan lo hanno avvertito e lo avvertono. E lo apprezzano, mantenendo un indice di gradimento massimale (come dimostrano i sold out continui per i suoi concerti).

Sofferenza, malinconia, inquietudine, violenza, dolcezza, divertimento, ironia…insomma, se non avete paura di andare sulle montagne russe, dati i saliscendi emozionali del Devin-sound, salite pure sulla giostra. E buon divertimento…

Intanto io mi preparo con estrema goduria all’uscita di “Empath”…

A cura di Morningrise