14 set 2019

GUIDE RAPIDE PER CHI VA DI FRETTA - I SIEGES EVEN (3/3)


Terza e ultima parte della nostra Retrospettiva sui Sieges Even. Coincidente con la terza e ultima parte della loro prestigiosa carriera.

distanza di 8 anni, e da una fine vita che sembrava certa, i SE ritornano sul mercato discografico, forti di 3 novità: 1) una nuova casa discografica, degna di tal nome (l’ottima InsideOut Music); il ritorno di Markus Steffen; 3) l’ingresso di un nuovo cantante, l’olandese Arno Menses.

Il risultato?

The Art of Navigating by the Stars” (2005)

Ed eccoci alla storia recente. Oddio, sono già passati 3 lustri dalla pubblicazione di TAoNbtS. Difficile dire qualcosa sul disco, tanto è stato sviscerato, e osannato, dalle riviste/siti web specializzati.

Ed è poco utile anche girarci attorno: questo è il vero capolavoro tanto inseguito dalla band. Produzione limpida ma non patinata, ben bilanciata e valorizzante i diversi aspetti del sound. Già, il sound. Se non fosse per il monicker, penseremmo che siamo di fronte a una band che poco o nulla ha a che fare con i precedenti 5 album. Spogliato quasi interamente delle partiture metal, Steffen concepisce oltre un’ora di raffinatissimo progressive che, anche per la struttura “a sequenza” del concept, rimanda immediatamente ai grandissimi Fates Warning

Composizioni mediamente molto lunghe consentono alla band di esprimersi tra digressioni strumentali dove, finalmente, il cuore prevale sulla tecnica, giostrando sapientemente i ritmi, tendenzialmente rilassati, i pieni e i vuoti e qualche sporadica accelerazione (come a metà di “Unbreakable”). Le linee melodiche sono ispiratissime, guidate da arpeggiati elettrificati ma con pochissima distorsione. Alex e Oliver offrono la solita prestazione monstre ma questa volta, a differenza di sempre, rimangono sotto le righe, funzionali all’ambiente senza mai strafare e porsi in primo piano. Menses di per sé non è un fenomeno (come detto nasce come batterista) ma è la voce perfetta per il mood dell’opera, che si distingue per una sofferta malinconia, non priva però di armonie solari e distese

L’uno-due iniziale “The weight” – “The lonely views of condors” scopre le carte in tavola del nuovo corso della band…ed è subito una mano vincente. Non ci sono cali, non ci sono filler ed ogni brano, pur in una omogeneità di fondo, lascia qualcosa di profondo e unico nell’animo dell’ascoltatore (con una nota di merito per l’emozionalità sprigionata dalla sensazionale accoppiata “To the ones who have failed” – “Lighthouse”).  

Dopo tanto tempo, Steffen e i fratelli Holzwarth creano il lascito per il quale verranno ricordati nel Grande Libro della Storia del Metal

No river too wide / No ocean too deep / No mountain too high / The myriads of open roads

Voto: 9

Paramount” (2007)

Formula che vince non si cambia e due anni dopo i SE, con la stessa formazione, ci riprovano. E’ passato l’effetto sorpresa, ma ciò che conta è la qualità dei brani e l’ispirazione delle linee armoniche. E su entrambi i fronti, pur con un leggero calo, i Nostri fanno ancora centro. E lo fanno, ancora, con un uso preponderante di stilemi prog/hard rock, che rimandano ai Rush, pur senza mai avvicinarsi al plagio dei campioni canadesi (in tal senso, un meraviglioso esempio è “Iconic”).

Menses, rodato dal tempo e dai live, padroneggia il suo “strumento” in modo convincente e carismatico, confermandosi punto vincente nelle scelte del cambio di rotta operato dal ritorno di Steffen. Un elemento evolutivo lo si può riscontrare comunque nei riff della chitarra che, quando abbandona l’arpeggiato per le distorsioni metalliche, si avvicina a compressioni groovy che tanto andavano (vanno) per la maggiore in quegli anni (un elemento a mio parere fuori luogo nel sound generale). Pur non mancando alcune parti guidate dai consueti funambolismi tecnici (soprattutto della sezione ritmica, come sempre mostruosa per tecnica&gusto) è evidente la volontà della band, pur suonando sempre credibile nelle sue volontà artistiche e mai forzata, di rendersi accessibile, spogliandosi degli arzigogoli del passato e puntando ancora forte sulla carica melodica, a questo giro davvero molto accentuata (scadendo nello zucchero in “Bridge to the divine”, ma glielo perdoniamo volentieri!), e sul mantenersi quasi sempre nell’alveo della forma-canzone. 

E quindi: brani sostenuti e articolati (l’accoppiata iniziale “When alpha and omega collide” – “Tidal”) toccanti ballad hard rock (“Eyes wide open”), mini-suite sopraffine (“Where our shadows sleep”, “Leftlovers”, la title track) e tanti, tantissimi brividi e suggestioni sensoriali; ascoltate il chorus di “Duende” e ditemi se riuscite a trattenere le lacrime, anche perché su tutto aleggia un’aura malinconica, caldamente intimista, raccolta. Meravigliosamente sottolineata dalle note di sax nell’ultimo minuto della conclusiva title track.

Altra prova top…

Voto. 8

Ora, se a questa doppietta di full lenght aggiungiamo il confermato supporto della InsideOut Music, un raggiunto livello di mixaggio perfetto, un artwork finalmente azzeccato e un’amalgama tra i quattro pienamente funzionante…beh, ci saremmo davvero aspettati un futuro radioso per i SE. Infatti, all’indomani dell’uscita del live album “Playgrounds” (2008)…si sciolgono!

Le due coppie si scoppiano e, mentre i fratelloni Holzwarth si dedicheranno ai loro molti progetti paralleli, il duo Steffen-Menses fonderà i Subsignal, dove daranno libero sfogo a tutta la vena prog rock che avevamo conosciuto in questi ultimi due album dei SE.

In definitiva, la band bavarese va conosciuta, senza se e senza ma. Penalizzata da un ipertecnicismo nella sua fase iniziale, che sicuramente ha portato gli ascoltatori più distratti e meno pazienti ad allontanarsi dai loro album, i Nostri hanno dimostrato classe e coraggio da vendere, realizzando, capitolo dopo capitolo, una loro personale visione della materia metallica. Se compariamo “Life Cycle” a “Paramount” è stupefacente vedere quanta strada, peraltro sempre coerente, è stata fatta. E questo senza mai realizzare prodotti men che più che buoni.

Per certi versi la loro parabola mi ricorda quella dei miei amatissimi Everon: band che hanno veicolato una interpretazione del prog metal personale, originale, caratterizzata da tecnica, gusto e classe. E da una produzione qualitativamente sempre in crescendo. E che, all’apice della notorietà (sempre relativa e “di nicchia”, ok…), si sono sciolti.

Peccato, peccato davvero per questo split del 2008 ma, a distanza di oltre un decennio, se siamo ancora qua a ricordarli, lodandoli (non solo noi, ma anche la critica specializzata), vuol dire che i meriti artistici della band sono innegabili.

Lasciatevi mettere sotto costante assedio

A cura di Morningrise