20 feb 2021

DISINCARNATE - IL DEATH AL BIVIO




La fine del death. Il death sul ciglio della scogliera. Questo furono i Disincarnate: la fine del sogno Death

Un sogno già nato morto, ma che all’epoca sembrava svolgersi in maniera inaspettatamente brillante.

L’epoca era il 1992-93. Ero in autobus per andare da Frosinone ad Arpino, luogo di un concorso di latino. Feci subito amicizia con un tipo del luogo che ascoltava metal. Un tipo come me nell’aspetto, ovvero insospettabile, con capelli corti, che però aveva qualche segno di riconoscimento, come ne avevo io, cioè un giubbottino jeans con toppa degli Iron Maiden. Ci scambiavamo le impressioni sulle ultime uscite significative, e io menzionai sicuramente i Deicide, uno dei gruppi rivelazione, che univano il death-grind tecnicamente pulito ad una ideologia satanica di un certo spessore. All’epoca si era creata questa piccola pattuglia di gruppi dalle posizioni anticristiane in uno stile che, volendo estremizzare il death, e prima del big-bang del black metal, sfociava in una sorta di death-grind (per la velocità) ma tecnico. C’erano i Morbid Angel, i Nocturnus, i Deicide. Americani, quindi, e tutti con sonorità affini. Il mio nuovo amico con grande entusiasmo mi preannunciò l’ultimo cd ordinato per posta “E ora mi devono arrivare anche i Disincarnate”, con accento ciociaro che rendeva il nome ancora più efficace. Sì, li avevo sentiti nominare i Disincarnate: erano quelli con James Murphy, ex dei Death, e si preannunciava quindi un disco dal buon lavoro chitarristico, in cui solismo e ritmica si fondevano bene, essendo Murphy originariamente un ritmico. 

I Disincarnate erano la pietra in cima alla scogliera, quella che non ti saresti mai immaginato di poter toccare, ma anche quella dopo cui devi ammettere che rimane solo un’interruzione, uno spazio vuoto da saltare per arrivare altrove. Uno sperone di roccia proteso verso l’aria, che segna il confine di quell’ascesa, di quella protrusione in avanti che sembrava dover portare in qualche grande, nuova terra. Quello spazio lo avrebbero saltato altri, e infatti il death satanico/occulto di quegli anni rimane come una cava aperta sul fianco di un monte e poi abbandonata a se stessa come un’ulcera di pietra

Disincarnate, dicevamo. Un vicolo cieco nella ricerca spirituale associata al death. I testi lo esprimono bene: terrorizzato dalla mortalità, ma condannato a scoprire cosa c’è nell’aldilà, il mio corpo marcisce nella tomba, la sua essenza vitale è svanita. Il mio spirito si rivolta nel nulla, la pace mi è negata, il mio aldilà sarà di sofferenza. In un'incoscienza immortale sono condannato ad agonia continua dall’assenza della carne ("Beyond the flesh"); Temo la vendetta ma semino violenza ("In sufferance").

Questo tipo di stadio del death è uno stadio pre-terminale. Si abbracciano tematiche filosofiche riguardanti il dopo-vita, ci si interroga sull’anima, ci si tormenta per uno stato spirituale che non si riesce a immaginare, quello del non-corpo. Tutto il death procede nello smembramento della materia vivente, e nella distruzione di quella inorganica, per arrivare ad interrogarsi su cosa sia la vita. Dalla vita dell’organismo vivente alla paradossale vista del cadavere, alla vita come trasmutazione della materia. Fin dal nome, prototipico della poetica death (Disincarnate) si risale a questa tematica, e nei titoli lo stadio di ragionamento è più chiaro: “oltre la carne”, “erosione dell’anima”… 

Una delle vie di fuga è quella della religione negativa, cioè il culto del caos, per lo più ispirato a Lovecraft. L’altro è l’anticristianesimo, in cui si rigetta la centralità dell’anima e del trascendente e si rivendica invece la verità della carne. Ciò non toglie l’angoscia del pensiero che quando la materia si decompone, l’anima lo fa con essa, e non gli sopravvive. Quando il Paradiso brucia, è un bruciare di cadavere, che restituisce un odore nauseabondo, contro ogni illusione di sentire il profumo dell’anima immortale. Quando il credente si aspetterebbe di trovare la vita spirituale, dovrà constatare che invece l’odore dell’anima è semplicemente l’odore della morte ("Stench of paradise burning"). I Disincarnate quindi esprimono l’arenarsi del pensiero sulla vita e la morte allo stadio del “cadavere”, della carogna. La carogna che produce cibo per i vermi che vi proliferano, per gli avvoltoi e per chi ne sogna ("Dreams of the carrion kind") cercando al suo interno la chiave per spiegarsi la vita. 

Storicamente, i Disincarnate coincidono con l’ascesa della fama di James Murphy, e con l’apice del death americano, che nel momento stesso in cui diventa ipertecnico si pone il problema della propria stessa contaminazione e scomposizione. Tanto è vero che la copertina di “Dreams of…” segna il passaggio ad una visione cubista, scomposta della realtà. In sostanza cosa fare di più che “disincarnare” la realtà, più che proporre un’autopsia di Gesù Cristo come fecero i Deicide in “Once upon the cross", quali limiti di brutalità toccare oltre la scansione di nomi come Disincarnate con accento ciociaro? 

E da lì infatti inizia la crisi del death, che come esito ha due correnti distinte. La prima, tradizionalista, si salva tramite le ideologie negative, culto del caos, religioni medio-orientali etc. e continua cantare una negatività a fondo cieco. La seconda si dà alle contaminazioni, che dal death melodico portano alla dissoluzione del death. Qualcuno rimarrà intrappolato in territori stilistici di mezzo, dando vita ad un genere “asinino”, il blackened death, che può essere entusiasmante ma non produce frutti ulteriori. 

Pietra angolare della storia del death, i Disincarnate non un buon gruppo “di genere”, da cui all’epoca ci si aspettava il “plus-ultra”, che in verità non arrivò da loro e non in quel momento.

A cura del Dottore