18 ott 2021

DEAFHEAVEN - LIMITI, DIFETTI E PREGI DEL METAL



Infinite Granite” è un album ingannevole, si svela strada facendo: all’inizio lo liquidi come la spersonalizzazione definitiva di un percorso iniziato con il botto (“Roads to Judah” e “Sunbather” contribuirono alla definizione del cosiddetto blackgaze) e poi deviato verso lidi sempre più lontani dal metal estremo ed appiattito su schemi ampiamente conosciuti (quelli dello shoegaze e del post-rock). Ascolti “Shellstar” e “In Blur” e capisci che il sound dei Nostri, così originale ed ispirato in campo estremo, si è andato ad adagiare su arpeggi riverberati, impalpabili melodie eteree e scoppi di chitarre a dir poco telefonati. Intuisci che la voce di George Clark non ce la fa a reggere un intero album su registri puliti, che la magia delle composizioni dei soliti My Bloody Valentine, Slowdive e Ride è un’altra cosa. 
 
Eppure, brano dopo brano, ti rendi conto che, sotto la "scorza sognante", cova la complessità e la pesantezza che solo una band metal può avere...
 
Sulle prime l’ascolto di “Infinite Granite” mi aveva suscitato una sensazione di impotenza del metal, una sensazione infastidente di incapacità del metal di saper esprimere emozioni fresche, in modo semplice, diretto, come se l'artista dedito al metal non si volesse mai veramente “mettere a nudo”, ma dovesse in qualche modo sempre mascherarsi. Del resto il metal nasce e si afferma come un genere "iperbolico", poco incline all’intimità e più all'esagerazione: le emozioni ci sono, ma sono spesso esasperate, enfatizzate. 

Provai una sensazione simile anche l'anno scorso in un paio di occasioni: pensieri che formulai nella mia testa ma che non ho avuto modo di sistematizzare per iscritto. Ero in procinto di concedermi una settimana al mare, avevo voglia di leggerezza e varietà e, senza nemmeno troppi pensieri, mi sono ritrovato nell’autoradio “69 Love Songs” dei Magnetic Fields: un album triplo, più di 170 minuti, per un totale di 69 tracce, appunto. In quell’album c'è un po’ di tutto: folk, cantautorato, country, elettronica, synth-pop, indie-rock, free-jazz, tutte suggestioni che trovano coesione grazie al talento del mastermind Stephin Merritt che scava a fondo nella sua arte, consegnandoci, fra dramma ed auto-ironia, un affresco stupefacente della sua sfaccettata interiorità. Insomma – pensai – una cosa che non avrebbe mai saputo fare il metal con la stessa scioltezza, ma anche con la medesima capacità di penetrazione esistenziale. 
 
Un’altra cosa che non farà mai il metal è un album come “Microphones in 2020” dei Microphones, album che ebbi modo di ascoltare nella medesima vacanza, e che usavo mettermi come sottofondo a colazione. Questo lavoro è costituito da un unico lungo brano di tre quarti d’ora dove Phil Elverum, l'uomo dietro al progetto, semplicemente si racconta, supportato da un unico giro di chitarra (e vari diversivi distribuiti durante il disco): una narrazione che ripercorre un’intera esistenza, tanto che all'ascoltatore parrà di sfogliare le pagine di un diario, fra ricordi, considerazioni, fra eventi personali ed elementi del contesto socio-culturale dell'epoca. Ripeto, una cosa che non farà mai il metal, che se deve realizzare una suite di quaranta minuti, o un triplo album, deve essere per forza un qualcosa di epico o fantascientifico, in ogni caso un concept elaborato e dalle maestose velleità. 
 
I Deafheaven, si diceva, con “Infinite Granite” si lasciano alle spalle il passato estremo per calarsi definitivamente nella dimensione dello shoegaze. Come dunque poter bissare la magia intimistica di quel genere che mette al centro di tutto la fragilità interiore e le emozioni? Se questo deve essere il metro di paragone, allora i Nostri perdono il confronto, in quanto non possono competere con chi lo shoegaze lo ha inventato e lo continua a suonare di professione. 
 
Il fatto è che il metal, come tutti i generi, ha i suoi pregi e i suoi difetti, limiti che difficilmente vengono valicati perché per farlo serve una sensibilità che si deve necessariamente creare altrove. La domanda è dunque mal posta. Potremmo invece partire dicendo che anzitutto i Deafheaven non hanno commesso l’errore dei colleghi Alcest di “Shelter”, lavoro nel quale i francesi per davvero abbracciarono in toto gli stilemi del dream-pop, abbandonando non solo ogni asperità ereditata dall’universo estremo da cui provenivano, ma anche ogni pur piccola velleità di complessità compositiva. 
 
I Deafheaven di “Infine Granite” sono invece una band metal che ha deciso di accantonare la componente più harsh per concentrarsi su quella melodica, che peraltro è sempre stata parte fondante del proprio sound, ma il cui approccio alla scrittura non sembra essere mutato. Soprattutto a non essere cambiata è l’accuratezza, l'attenzione al dettaglio, la cura degli arrangiamenti condita da tecnicismi ed armonizzazioni di melodie mutuate dal modus operandi del metal:  tutti aspetti a cui evidentemente non ambisce l’universo non-metal, più interessato alla tramutazione dei sentimenti in musica senza troppe mediazioni. In altre parole, se da un lato l'approccio metal toglie immediatezza, dall'altro aggiunge tecnica, struttura ed imprevedibilità.
 
La ricerca ritmica, per esempio, conferisce allo sviluppo dei brani dei contorni progressivi, senza rinunciare a quella solidità che i momenti più tesi richiedono. Le chitarre si intrecciano continuamente in melodie che non sono altro che la conversione delle texture tipiche del metal classico nella dimensione dello shoegaze. Si pensi all’attacco di chitarre di “Great Mass of Color”, per non parlare del crescendo finale in cui Clark si fa scappare un mezzo screaming dalla concitazione. Quindi non shoegaze e black metal come due mondi distinti, bensì l'uno come la prosecuzione dell'altro, con il secondo ad emergere quando il primo esaurisce la propria potenza espressiva e c'è bisogno di "rincarare la dose". 
 
La strumentale “Neptune Raining Diamonds” è un intermezzo di tastiere e sintetizzatori che spiana la strada all’ottima “Lament for Wasps”, altro pezzone del disco che, pur rimanendo coerente con il sound espresso fino a quel momento dalla band, sfoggia passaggi di grande raffinatezza strumentale che svelano uno spirito, nella sostanza, più vicino al progressive che alle dilatazioni emozionali dello shoegaze. Quanto alla voce, qui si apprezza la volontà di emancipazione dal canto etereo che si perde fra gli strumenti e lo sforzo di centrare melodie iconiche, ricorrendo alle lezioni dei maestri Depeche Mode, da sempre capaci di coniugare con naturalezza spleen malinconico e appeal radiofonico (e non a caso lo spettro di Dave Gahan si rivela in più frangenti). 
 
Da qui in poi è un piacere arrivare alla fine del disco, con toni pacati che si alternano a momenti più sostenuti, con uno screaming che sporadicamente riemerge (come succede nel finale di “Villain”) e trame che svelano, in modo oramai esplicito, la propensione ad incastri melodici di grande gusto ed ispirazione, nel contesto di brani dalla durata considerevole e dagli sviluppi non sempre prevedibili - due ottimi esempi sono le incalzanti “The Gnashing” e “Other Langiage”, verbo shoegaze elevato all’epicità propriamente metal. 
 
E vi dirò, il finale esplicitamente black metal della conclusiva “Mombasa” (con tanto di blast-beat e screaming agonizzante) non era neppure indispensabile per confermare la libertà di pensiero ed azione della band. Le ragioni per la scelta di questo finale possono essere molteplici, dai sensi di colpa di una band black metal che aveva bisogno di dimostrare che sa ancora picchiare duro quando vuole, all'ipotesi di una reale esigenza artistica, come se il black fosse la spontanea esasperazione dello shoegaze (noi propendiamo per la seconda). Ma certo questo colpo di coda, inaspettato fino ad un certo punto, non altera il giudizio complessivo sul platter: chi si è avvicinato alla band per il lato più orecchiabile probabilmente non rimarrà turbato, mentre i vecchi fan - quelli si - potrebbero provare una punta di rimpianto per i vecchi lavori, che comunque sono sempre disponibili per essere riascoltati in ogni momento. 
 
Del resto i Deafheaven non hanno mai riscosso pareri unanimi né da parte del pubblico né da parte della critica: c’è chi li stroncava persino ad inizio carriera (laddove oggi si riconoscono i classici della band e dell’intero genere), figuratevi come i detrattori sono ingrassati con i più recenti “New Bermuda” e “Ordinary Corrupt Human Love”. C'è sempre stata la tacita convinzione che i Deafheaven si trovassero al termine di un perenne vicolo cieco, pronti al passo falso, ma nel frattempo una via di fuga veniva sempre trovata e il loro seguito cresceva, irretendo quelle nuove generazioni di ascoltatori che sempre meno si curano delle classificazioni. Certamente qualche sostenitore della prima ora si sarà perso per la strada, ma quello che importa, in questi casi, è che il ricambio di fan base abbia portato ad un saldo positivo: giusto premio per un percorso artistico caratterizzato da onestà e dedizione
 
E se oggi la svolta di “Infinite Granite” può sembrare fatta per meri motivi commerciali, la verità è che, con la consueta professionalità, i Nostri confezionano un album denso di idee e contenuti, spesso nascosti agli occhi del distratto che si ferma al guscio. 

Per me, fra i dischi dell'anno!