12 giu 2022

VIAGGIO NEL FUNERAL DOOM: CATACOMBS


Tredicesima puntata: Catacombs - "In the Depths of R'lyeh" (2006) 

Ci sono band a cui la definizione “funeral doom” sta stretta stretta. I Catacombs, invece, ci stanno belli larghi, anzi, potrei quasi dire che essi incarnano la quintessenza del genere, impersonandone il lato più brutale. 

Alla fin fine, se qualcuno mi chiedesse cos'è il funeral doom, penso proprio che gli direi: “Ma vatti ad ascoltare i Catacombs”, il che suonerebbe anche come una minaccia. Ed effettivamente lo è… 

I Catacombs hanno figliato a ritmi produttivi degni di un panda. In più di quindici anni di attività la loro discografia conta infatti soltanto tre release, di cui un unico full-lenght: l’EP “Echoes Through the Catacombs” del 2003, l'album “In the Depths of R’lyeh” del 2006 e un second EP “Into the Dismal Shades” di dieci anni dopo. Ma la mente creatrice che si cela dietro ai Catacombs non se ne è stata certo con le mani in mano, dividendosi in più progetti. Parliamo di tale John Del Russi, che adesso si fa chiamare con il nome d'arte Xathagorra Mlandroth, comodissimo e di facile pronuncia. Voglio sperare che il Nostro non si offenderà se per noi rimane semplicemente John. 

Dunque, John viene dall'Arizona ed è uno che di Estremo se ne intende. Scorrendo il suo CV si capisce che la sua missione artistica è sempre stata quella di sondare i recessi più oscuri dell’universo musicale. Gli Hierophant (con i quali già si dilettava con il funeral doom) sono stati la sua esperienza più consistente prima dei Catacombs, ma vi sarebbero da segnalare anche gli Inimical (black metal), gli Origin of Darkness (death/funeral doom) e i Sect (black metal). Peraltro non è ben chiaro se attualmente i Catacombs siano attivi o meno; quello che si sa è che dal 2016 il Nostro ha continuato ad operare sotto la ragione sociale Xathagorra, non pubblicando sostanzialmente nulla. La cosa simpatica è che il Nostro è sempre stato solo: quelle sopra menzionate sono infatti tutte one-man band, dettaglio che rende poco chiara la dinamica che ha portato alla creazione ed allo scioglimento di tutti questi progetti. Sembrerebbe che John sia una di quelle persone perennemente insoddisfatte che prendono decisioni affrettate e poi si ricredono il momento dopo, ma chi siamo noi per giudicare John? 

Anche perché il Nostro si muove da vero signore fra queste sonorità, mostrando mano ferma e chiarezza di intenti. Ascoltare un album dei Catacombs è come ritrovarsi in una mostra di arte contemporanea dove alle pareti troveremo una sequenza impressionante di quadri, grandi, colossali e dalla stessa forma (quadrata), tutti neri con un singolo pallino grigio scuro collocato ogni volta in una posizione leggermente diversa.
 
Questa descrizione corrisponde alle fattezze di “In the Depths of R’lyeh”, composto da cinque brani di ben oltre dieci minuti l'uno e un outro di un paio di minuti. I più sagaci di voi avranno già capito che qui si parla di H.P. Lovecraft, ed infatti la mitologia dello scrittore americano fa da sfondo a questi oltre settanta minuti di doom estremo. Ascoltando l'album per davvero sembrerà di ritrovarsi nei fondali dell'oceano a contemplare le architetture irrazionali della mostruosa città sommersa di R'lyeh, dimora del dormiente Chtulhu (peraltro intravedibile in tutta la sua grazia nella lugubre copertina). 

Più che musica contemplativa, questa è musica descrittiva, così come descrittivi sono i testi: didascalie  che sembrano scritte da un cieco che cerca di trasmettere le sue impressioni tastando con le mani l'oggetto che intende descrivere. Vengono in mente i Tyranny, altri funerei campioni nel trasporre in musica le orrorifiche visioni scaturite dalla penna di Lovecraft. I finlandesi, anche da un punto di vista strettamente musicale, rimangono il termine di paragone più calzante per descrivere la musica dei Catacombs, ma qui si va oltre, anche solo per il fatto che se il sound dei Tyranny si giova dell’integrazione delle diverse (seppur simili) sensibilità "artistiche" di due musicisti, qua le risorse si dimezzano e tutto viene caricato sulle larghe spalle del solo John. Se il suono dei Tyranny in un certo senso è stratificato, quello dei Catacombs, facendo a meno di tastiere e di certi altri orpelli da post-produzione, va dritto al sodo: chitarra, basso, drum-machine e voce. 

L’approccio, come quello dei Tyranny, è vicino al modus operandi che va per la maggiore negli ambienti dell’atmospheric black metal, ove l'obiettivo è suggestionare l'ascoltatore, immergerlo in una determinata atmosfera. E questo, con i Catacombs, accade in modo grezzo ed elementare, selezionando pochi elementi per poi metterli insieme, ripeterli, cambiare di poco la loro disposizione. Ma per fare questo ci vuole un grande senso dell'equilibrio, perché il passo dall'atmosfera alla noia è davvero breve. I Catacombs sfuggono a questo pericolo, allestendo un lavoro accattivante che, nonostante le premesse, sa tenere desta l'attenzione dell'ascoltatore, quello ovviamente avvezzo a tal tipo di sonorità.

Ci vuole stomaco ad ascoltare questa musica, ma ce ne vuole indubbiamente anche per suonarla. Batteria programmata all'insegna della lentezza più assoluta, come se ogni beat comportasse un rialzo significativo della bolletta dell'elettricità. Ovviamente non una battuta fuori posto (e vorrei anche vedere) ed è in questo rigore che i Catacombs sono abili nel disporre i pochi tasselli del loro mosaico. 

Lentezza. Basso profondissimo, chitarra profondissima, voce profondissima. Ai Catacombs, cosa non da tutti, riesce l'impresa di risultare minimali adoperando un suono massimalista.

Il basso rimbomba, evoca il clangore di certa musica industriale e rinforza in modo credibile il già massiccio muro di suono imbastito dalla chitarra: riff lunghi, molto lunghi, e il loro fiero prolungarsi senza cedimento alcuno certifica una produzione all’altezza dell’impresa. Quanto alla prestazione vocale, si vada direttamente alla voce: brutal growl degradato a rantolo indistinguibile. Peculiarità della proposta (se vogliamo definirla una peculiarità) è la presenza costante di una seconda chitarra che, attraverso singole note, accompagna la processione degli altri strumenti inserendo melodie sinistre che, all’orecchio attento, permettono di distinguere i diversi brani. 

Ebbene si, le singole composizioni riescono anche a conservare una loro propria identità, del resto si era detto che il Nostro è un vero signore del funeral doom. La title-track suona subito come un instant-classic del genere, grazie al dialogo della chitarra ritmica con quella solista e riuscite variazioni ritmiche. Insomma, la classica hit che potrebbe aprire una playlist di sedici ore sul funeral doom. 

IA! 
IA! 
Cthulhu Fhtagn!

E poi che gioia infinita l'inaspettato arpeggio che compare a metà di "At the Edge of the Abyss": un arpeggio spettrale, pulitissimo, che si insinua subdolamente fra le trame opprimenti del brano, che proseguirà la sua marcia ossessiva come se niente fosse. E quando dopo quaranta minuti di disco (ossia la durata dei primi tre brani) ti sembra di aver capito tutto dei Catacombs, ecco che la chitarra arpeggiata prosegue il suo cammino solitario percorrendo nella loro interezza i due brani successivi, divenendo componente costante nella seconda parte dell'album. 
 
Con la conclusiva "Fallen into Shadow" (altro highlight dell'opera) si vola alto (o si sprofonda molto in basso, a seconda dei punti di vista), forte dell'assodato binomio di schiacciante doom da un lato e arpeggio cimiteriale dall'altro. Insomma, non dovete aspettarvi chissà quali colpi di scena, ma proprio come accade nelle opere minimaliste, ogni elemento è prezioso, e quando emerge è in grado di colpire e stregare. Evidentemente a John piace il motto: less is more

Anche i titoli di coda sono assai risicati e scorrono lentamente nell'inesorabile reprise della title-track, degna chiusura di questo maledetto cerchio: 

IA! 
IA! 
Cthulhu Fhtagn!