29 dic 2022

"LO STATO DELL'ARTE" DEL POWER METAL

 



Che anno è stato, il 2022, per il power metal?

Le uscite da parte di ‘calibri da 90’ non sono di certo mancate nel corso dell’anno appena trascorso e Metal Mirror, oggi, le va ad analizzare. Del resto, certi nomi sono troppo importanti nel panorama metal mondiale per far finta di niente…

Allora, tanto per cambiare la ‘parte del leone’, almeno da un punto di vista quantitativo, l’ha fatta la Nuclear Blast. E così, ecco che per la label di Donzdorf vengono licenziati i nuovi Blind Guardian e Avantasia. Trattiamoli singolarmente.

BLIND GUARDIAN - “The God Machine

I Bardi di Krefeld tornano in campo a distanza di ben 7 anni dall’ultimo, buonissimo, “Beyond the Red Mirror”, già disco dell'anno su Metal Mirror. In mezzo, l’esaltante esperienza di “Legacy of the Dark Lands”, odiato da molti ma amato dal sottoscritto (il perché e il percome lo leggete qui). Ebbene, “The God Machine” è “solo” un buon album, in cui i Nostri dispiegano sapienza compositiva e discreta ispirazione, rilasciando un prodotto di maniera che non fa sobbalzare sulla sedia, pur non avendo né filler né cadute di tono. Semplicemente, per chi scrive, è il full lenght meno valido dell’intera loro carriera (e con una mixaggio rivedibile). Dopo un trittico iniziale notevole, culminante nell’highlight del disco “Secrets of American Gods”, tutta la parte centrale dell’album raggiunge la sufficienza senza mai esaltare: 5 brani di fila (da “Violent Shadows” a “Blood of the Elves”) impeccabili formalmente ma senza quei guizzi (che siano una linea melodica particolarmente memorabile o una sezione strumentale originale) riscontrabili nei primi tre brani. La conclusiva “Destiny” prova delle soluzioni armoniche diverse dal materiale restante con risultati alterni.

Album solo per i fan indefessi del Guardiano Cieco (e infatti fa parte della mia collezione…)

Voto: 7

AVANTASIA – “A Paranormal Evening with the Moonflower Society

Titolo altisonante, suggestiva copertina timburtoniana, solita pletora di super cantanti di ambo i sessi alla corte di Mr. Sammet.

Il nuovo Avantasia è un disco piacevole, asciutto, facilmente memorizzabile. Ma fottutamente ‘telefonato’. Ormai, da circa un decennio, quando si schiaccia il tasto play di un disco dell’ex side project dell’artista di Fulda, sai già cosa aspettarti. Tanto che in molti casi ti chiedi: ma questa canzone non era già presente sul disco “X”?!? E questo non è un bel segnale. Insomma, in tanti frangenti dei 53’ di durata del disco, se non ci troviamo davanti ad auto-plagio poco ci manca (per credere, ascoltare “Kill the Pain Away”, “The Inmost Light” o il refrain di “The Moonlight Society”).

Tobias pare dare il meglio della sua ispirazione nelle sezioni più riflessive e melodiche, anche se a volte esagera, come in “Paper Plane”, ove il tasso di glicemia nel sangue si alza fino a livelli preoccupanti; quando Sammet prova a pigiare il piede sull’acceleratore, invece, è ancora la sensazione di deja-vu a pararsi di fronte, con una qualità che latita (vedasi “Rhyme and Reason” o la peggiore del lotto, la pessima “Scars”). D’altro canto, per noi amanti delle sonorità da sempre trademark degli Avantasia, basta poco per emozionarsi e brani come l’opener “Welcome to the Shadows”, la cazzuta “The Wicked Rule the Night”, il refrain di “Misplaced Among the Angels” o la suite conclusiva, l’orientaleggiante fin dal titolo “Arabesque”, ci bastano e…no, stavo per scrivere “avanzano” ma no, non è più così…E per alzare le quotazioni del disco, non basta la suggestiva variazione delle ugole in gioco, da brano a brano sempre diverse.

Insomma, dopo l’ottimo “The Mystery of Time” (2013) il progetto Avantasia pare essersi arenato in una riproposizione degli stessi stilemi che hanno fatto la fortuna della band dagli albori delle mitiche “Metal Opera I&II”(2001-02). Ma dalle capacità compositive di Tobias ci aspettiamo molto di più che una sufficienza stiracchiata.

Voto: 6

Abbandoniamo la Germania e la Nuclear Blast, piuttosto insoddisfatti, per atterrare nella vicina Austria, in casa Napalm Records che, per il terzo album di fila, ha supportato gli HammerFall…

HAMMERFALL – “Hammer of Dawn

A differenza dei due nomi precedenti, qui le nostre orecchie non si aspettavano nulla di particolarmente significativo dai cinque defenders di Goteburg. E infatti…

Ho lasciato ormai da tempo gli svedesi, deluso dalla sterile riproposizione degli stilemi con cui avevano (ad oggi lo possiamo dire: piuttosto incomprensibilmente) fatto breccia nel mercato internazionale e nel cuore di legioni di fan real&pure nel 1997 col debut “Glory to the Brave” e il successivo “Legacy of Kings”. Se fino a “Crimson Thunder” la qualità della loro discografia si era mantenuti su livelli più che buoni, da “Chapter V” (2005) in avanti l’accoppiata Joacim Cans – Oscar Dronjak va avanti col pilota automatico. Mestiere, mestiere e poco (o nulla) più. Qualcosina di buono qua e là si vede (l’accoppiata iniziale “Brotherhood” e la title track sono piacevoli) e, va detto, l'ugola cristallina di Cans, a 52 anni, continua a essere un trademark importante per la band. Così come produzione ed esecuzione rimangono professionalmente impeccabili. Ma il disco, dalla pessima “No Son of Odin” in poi, non decolla mai, non riuscendo ad emozionare neppure nella scontatissima ballad “Not Today”. Tra lyrics autocelebrative more true than the True e un songwriting che prova a riscaldare i cuori con i cliché più abusati (riff cavalcanti, assoli classic e ritornelli ariosi) è proprio l’ispirazione e il flavour epico, presenti nelle loro prime opere, a mancare. E anche quando li si prova ad evocare tramite refrain corali (come in “Reveries”) il risultato fa quasi tenerezza…

Per i soli fan indefessi della band (e, forse, manco per quelli…)

Voto: 5

Ma allora chi cazzo si aggiudica questa palma di miglior album power del 2022

Torniamo in Germania per saperlo, presso gli studios della versatile earMusic dove, ormai dal 2009, si sono accasati gli Stratovarius…

STRATOVARIUS – “Survive

We had the promised land / We were supposed to be the chosen ones / We thought we were unbreakable…” (da “Broken”)

Lo ammetto: nel corso dei decenni di ascolti metallici, gli Stratovarius li ho abbandonati una ventina di anni fa. E non mi sono mancati. Ho letto distrattamente dei grossi problemi di salute di Tolkki e, in tutta sincerità, me ne sono dispiaciuto perché a Timo sono particolarmente affezionato. Lui e Jen Johansson sono stati due dei musicisti che, nella mia fase liceal-universitaria, ho più apprezzato e i dischi storici dei finlandesi (“Episode” e “Visions” su tutti) li ho, all’epoca della loro uscita, letteralmente consumati.

Ma non avrei mai ascoltato “Survive” se in Redazione il nostro Lost in Moments non lo avesse sponsorizzato caldamente. E, cavolo, aveva, ancora una volta, fottutamente ragione!

Già la copertina è a dir poco clamorosa (opera del loro cover artist di fiducia, l’ungherese Gyula Havancsák), rappresentativa dell’auto-distruzione che l’Uomo, con successo, sta perpetrando da decenni. In una discarica piena zeppa di manufatti, campeggia un teschio umano dalla cui terra che ne riempie la cavità, cresce una gracile piantina verde, simbolo, nonostante tutto, di speranza per il futuro.

Che i Nostri siano baciati da ispirazione e freschezza lo si nota dalle prime note della title track che apre i 58’ di musica che compongono il disco. E non sarà un fuoco di paglia. Tutt’altro. Perché (quasi) ognuno degli undici brani cattura l’ascoltatore; anche quando essi si configurano come “canonici” (penso a “Glory Days” o “Before the Fall”, ad esempio) trasmettono una carica energica notevole. I momenti di stanca si contano sulle dita di una mano (forse proprio i singoli “Firefly” e “World on Fire” risultano scontatini, seppur non sgradevoli). Ma per il resto chapeau, con nota di merito per l’articolata “Frozen in Time”, la dolce “Breakaway” e la suite conclusiva “Voice of Thunder”. 

Per il resto che dire? Band impeccabile con Matias Kupiainen alle sei corde, Lauri Porra al basso e il giovane Rolf Pilve al drum kit che non fanno rimpiangere minimamente tre nomi storici e ingombranti che avevano fatto le fortune degli Stratovarius nei tardi novanta, come Tolkki, Jari Kainulainen e Jörg Michael; Kotipelto non pare risentire minimamente dell’età che avanza, lavorando senza strafare sui suoi soliti registri e riservando il meglio nella conclusiva suite. E anche il buon Johansson, pur ritagliandosi grandi parti tastieristiche, non eccede in sinfonismi né in sezioni virtuosistiche stucchevoli riuscendo in fase di scrittura ad alternare sapientemente potenza e melodia, velocità e rallentamenti, sfuriate dirompenti e sezioni riflessive.

Insomma, un album bilanciato, moderno, ben prodotto. E che, credo, farà felici tanto la fan base dei finnici quanto i ‘traditori’, come il sottoscritto, che li avevano abbandonati.

Felice di ricredermi, consegniamo la palma di Miglior disco Power Metal del 2022 a “Survive”!

Voto: 7,5

Che anno è stato, il 2022, per il power metal? ci chiedevamo all’inizio di questo lungo post. Beh, dai, tra alti e bassi non ci possiamo lamentare…e un disco come “Survive” dimostra che questo genere può ancora essere capace di esprimere ottimo Metal, non snaturandosi ma, al contempo, essendo capace di risultare attuale

A cura di Morningrise