17 mag 2025

VIAGGIO NEL DUNGEON SYNTH: WONGRAVEN



Pure Northern Medieval Atmosphere Music: Wongraven, "Fjelltronen" (1995)

Nel 1995 il black metal norvegese viveva già una fase di piena maturità, anzi, di post-maturità, visto che nei due anni appena precedenti i nomi di punta della scena avevano rilasciato i loro lavori più significativi e seminali, certificando il consolidamento di determinati tratti stilistici (che, detto per inciso, sarebbero divenuti i codici identitari del black metal per come lo conosciamo oggi). Nel 1995, dunque, la Norvegia era già abbastanza “avanti” nel suo cammino e poteva già permettersi di guardare altrove e tentare nuove strade che permettessero di superare quegli stessi stilemi forgiati negli anni appena precedenti. Un’opera emblematica in questo senso fu “Bergtatt” degli Ulver, lavoro in cui si spingeva ulteriormente oltre la commistione fra black metal e folk. Il folk, del resto, aveva già fatto capolino in diverse produzioni precedenti (si pensi a certe uscite acustiche degli Enslaved), connaturandosi fin dall'inizio con un ingrediente che ben si sposava alla visione artistica del black metal. 
 
Nel 1995, in altre parole, era naturale pensare al folk come un terreno da battere per espandere le suggestioni del black metal. E questo era certamente ben chiaro nella testa di due esponenti di primo piano come Fenriz dei Darkthrone e Satyr dei Satyricon. E’ sempre bello ricordare che i due, insieme a Kari Rueslåtten dei The Third and the Mortal, avviarono il progetto Storm e, sempre nel 1995, con quel monicker diedero alle stampe quel condensato di epicità nordica che risponde a “Nordavind”. Ma anche in solitaria i due si dettero da fare nell’esplorare il folclore della terra madre, Fenriz con il progetto Isengard e Satyr utilizzando la ragione sociale Wongraven, di cui parleremo oggi. 

Laddove Fenriz offriva una versione baldanzosa, tracotante e squisitamente elettrica della tradizione folcloristica scandinava, Satyr preferiva appendere al chiodo la chitarra elettrica e dare sfogo alla propria indole atmosferica. Approccio che comprendiamo benissimo pensando al fatto che, se i Darkthrone avevano marciato con grande determinazione lungo i binari del minimalismo, battendo un percorso di scarnificazione sonora che tendeva in modo programmatico ad eliminare ogni sorta di divagazione melodica, i Satyricon avevano invece sviluppato il proprio suono in un’ottica che potremmo definire quasi progressiva, con brani articolati e tanti mid-tempo a favorire la creatività di un riff-maker di razza come Satyr. 
 
L’atmosfera, in altre parole, era una componente importante per i Satyricon, come chiaramente si poteva udire in entrambi gli album fino ad allora rilasciati. Il debutto “Dark Medieval Times” (un titolo che già palesava l’amore della band per atmosfere cupe ed arcaneggianti), pur acerbo, si fregiava di incursioni di chitarra arpeggiata e interventi sporadici di tastiere, concedendosi persino una parentesi totalmente atmosferica come “Min Hyllest til Vinterland” che spezzava il flusso elettrico con prelibatezze acustiche, evocative tastiere, effetti ambientali ed un aspro recitato in norvegese. Il successivo “Shadowthrone” smussava gli angoli e ribadiva l’intenzione della band di allestire una proposta ancora più raffinata sia a livello compositivo che di arrangiamenti. In quel tomo le tastiere occupavano maggiori spazi e divenivano protagoniste assolute nella conclusiva “I en Svart Kiste”: una strumentale animata da arie dal flavour folkish simile negli esiti a certi esperimenti che nel medesimo periodo Varg Vikernes stava compiendo negli album targati Burzum
 
A ben vedere i due brani costituiscono una chiara anticipazione dei contenuti che sarebbero poi stati condensati nei 32 minuti di “Fjelltronen” (in norvegese “Il Trono della Montagna”), opera prima ed ultima del progetto Wongraven: un progetto evidentemente molto intimo per l’artista, tanto che gli avrebbe dato il suo stesso nome, anzi il cognome (Satyr è registrato all'anagrafe come Sigurd Wongraven). 

Scritto, eseguito ed arrangiato in pressoché totale autonomia (si segnalano i contributi a margine di Ihshan degli Emperor - a sintetizzatori e pianoforte - e di Hans-Kristian Kjos Sørensen - alle percussioni a mano), questo lavoro va a raccogliere idee maturate nei tre anni precedenti e finisce per brillare della verve progressiva insita nella penna del suo autore, nonostante il range espressivo sia qui ridotto ed incentrato sul suono delle tastiere, che il Nostro - c'è da dire - padroneggia discretamente. La chitarra, invece, affiorerà solo sporadicamente e in formato rigorosamente acustico. 
 
Quel che ne esce è un suono fosco, nebbioso, ma anche maestoso, evocatore del più tenebroso, cruento e misterioso medioevo. Le cinque tracce che compongono il platter confluiscono fluidamente l’una nell'altra, connesse da effetti ambientali (il persistente soffiare del vento tratteggia un quadro nel complesso tetro e minaccioso) e temi melodici che si ripetono, finendo per costituire un unicum che va assaporato nella sua interezza: aspetto, questo, che palesa ancora una volta le doti da “regista” di Satyr, molto attento agli aspetti della produzione, degli arrangiamenti e della resa sonora dei diversi strumenti. 
 
Det Var en Gang et Menneske” dall'alto dei suoi sedici minuti e mezzo occupa metà dell’album, ergendosi come brano portante dell’intera operazione. In esso troviamo ottimamente orchestrati tutti gli ingredienti della ricetta Wongraven: si parte con tastiere solenni, vento e tamburi. Cori odinici si intrecciano a melodie di organo in quelle stesse geometrie un po’ spigolose che abbiamo trovato anche negli album dei Satyricon. I cori sono eseguiti dallo stesso Satyr, come anche le voci sussurrate chiamate a rinnegare la natura strumentale che potevamo aspettarci da un'operazione di questo tipo. Ancora cori ispirati, tastiere e lupi ululanti a delineare un quadro tanto suggestivo quanto lugubre, fino al riemergere al minuto dodicesimo della chitarra acustica. Si segnala a questo punto una voce sofferente che potremmo quasi definire come uno screaming strozzato. Il tema melodico portante, affiorato più volte durante il corso del brano, torna nel finale a chiudere il cerchio e certificare un equilibrio compositivo che ha del prodigioso. 
 
La tensione non cala nelle tre strumentali che seguono: “Over ødemark” è un gioiello di pianoforte classicheggiante scritto niente meno che con l'aiuto di Ihsahn. “Opp Under Fjellet Toner en Sang” è un motivetto quasi festoso che spezza il mood oscuro dell’intero lavoro, mentre gli otto minuti di “Tiden er en Stenlagt Grav” offrono un sound più corposo con un bel basso vibrante e colpi di rullante ad incalzare suggestive arie medievaleggianti. “Fra Fjelltronen”, infine, si congeda nel migliore dei modi attraverso un crescendo epico in cui ritornano i cori in voce pulita e i timpani a rinforzare il tutto. Il finale viene marcato da versi recitati al contrario e dal funereo rintocco di una campana campionata da “Crossing the Triangle of Flames”, brano di chiusura del leggendario “Under a Funeral Moon” dei Darkthrone (a rimarcare, se ce n'era bisogno, il legame indissolubile del lavoro in questione con la scena black metal di Oslo). Le illustrazioni del pittore norvegese Theodor Kittelsen, già noto per le copertine di Burzum, sono la ciliegina sulla torta. 
 
L’album, stampato in edizione limitata dalla Moonfog dello stesso Satyr e quasi ignorato alla sua uscita, sarebbe poi finito nel calderone del dungeon synth, sebbene se ne discosti per diversi aspetti: una maggiore varietà di elementi, la presenza significativa di voci e strumenti acustici (la chitarra, lo scacciapensieri) ed un approccio alla composizione che oseremmo definire progressivo. Non bisogna scordarsi, del resto, che nel 1995 il dungeon synth non esisteva ancora come genere musicale o come movimento autonomo, e dunque in questa prima fase è facile imbattersi in lavori che, pur concorrendo ad edificare quegli stilemi che diverranno in seguito tipici nel dungeon synth, presentano anomalie ed aspetti non conformi. 
 
Definitelo come vi pare, ma "Fjelltronen" rimane un vero capolavoro di “Pure Northern Medieval Atmosphere Music”, se vogliamo adoperare la stessa definizione con cui Satyr volle etichettare questa sua creazione.