Nel 2022 c'erano stati gli Emperor e fu scontato andarci anche se il resto del bill era del tutto irrilevante, tanto che il mio approccio non fu molto "da festival": semplicemente andai per assistere ad un concerto degli Emperor con un paio di gruppi a fare da spalla. Nel 2023, invece, i nomi in cartellone erano ben più accattivanti e per questo il tutto divenne un'avvincente staffetta che vedeva messi in fila Asphyx, Profanatica, Rotting Christ, Suffocation, Enslaved, King Dude e Marduk. Nel 2024 non ci sono nemmeno andato (la line-up allora non mi convinse per nulla, con gli Amorphis a condurre le danze seguiti da nomi di scarsa rilevanza).
Quest'anno è stato ancora diverso: ho titubato fino all'ultimo istante, ma alla fine mi son deciso ad andare. A trainare indubbiamente sono stati gli headliner Triptykon (che han buttato sul piatto un succulento set a base di classici dei Celtic Frost - mica cazzi!) e i Blood Incantation, freschi di un superbo "Absolute Elsewhere" (album che in questo tour viene riprodotto per intero – di nuovo: mica cazzi!). Il resto del bill ha vissuto di rendita, diviso equamente fra death e black metal con Decapitated, Cryptopsy, Batushka, Blackbraid quali capolista di un numero molto vasto di altri nomi minori. Il tutto ospitato da ben cinque venue in quel di Camden Town, tutte a loro modo iconiche per un appassionato di metal, rock e sonorità alternative: mi riferisco a Roundhouse, Electric Ballroom, Underworld, Black Heart e The Dev (e per l’ultima volta: mica cazzi!).
La presenza della prestigiosa Roundhouse sulle prime ha destato in me qualche perplessità: uno, perché per quanto bella ed iconica è una location che non offre la migliore acustica per il metal estremo; due, perché con essa sarebbe aumentato il numero dei biglietti, dunque il numero degli spettatori e dunque il rischio di calca e lunghe file per accedere agli altri locali con minore capienza (timore avvalorato poi dal fatto che l'evento ha finito con il registrare il sold out). Questi possibili disagi, tuttavia, non mi hanno distolto dal proposito insano di compiere anche quest'anno l'"impresa"!
L'idea originaria - e del tutto contraria al comune buon senso - era infatti di intraprendere una maratona che partisse addirittura dalle 13:20 con i Warbringer, indubbiamente un modo divertente per iniziare la giornata: non solo il godimento per il thrash, convinto e ben suonato, di una band solidissima e con una ventina di anni alle spalle, ma anche la gioia di supportare l'underground (visto che i Nostri giungono dall'altra parte dell'Oceano Atlantico e sarebbe stato poco educato - considerato l'orario infelice - farli suonare davanti a quattro gatti). Agli americani sarebbero poi seguiti nel mio programma i Lamp of Murmuur (americani anch'essi, ma fautori di un epico black à la Immortal - fase "At the Heart of Winter"), gli Spectral Wound (black metal dal Canada) e i Múr (islandesi, autori di un pregevole post-metal): tutto questo come antipasto agli ottimi Blackbraid.
L'esperienza insegna tuttavia che ogni maratona troppo lunga conduce inesorabilmente a condizioni psico-fisiche tutt'altro che decenti per godersi i gruppi a fine giornata, che poi son quelli che vorremmo vedere più degli altri. E così, anche per impegni personali (sono pur sempre un padre di famiglia anche se in giorni come questo uno vorrebbe tornare ad essere un imberbe diciassettenne senza responsabilità), alla fine decido saggiamente di cambiare i miei piani e timbrare il cartellino d'ingresso direttamente alle 15:40 con gli Spectral Wound. Rimane l'intenzione di impostare la giornata all'insegna di un agile e disinvolto dinamismo, con sprazzi di relax volti alla rigenerazione corporea e mentale in un contesto di caos e rumore: già mi immaginavo passeggiare fischiettando con le mani in tasca per le strade vivaci di Camden con lunghe pause da consumare al Raven (tetro coffee shop per metallari) o dal kebabbaro (ehm, falafellaro) di fiducia. Per ottimizzare decido di andare in culo al look da bel tenebroso (tanto phie zero), indossare comode scarpe da ginnastica e di uscire direttamente in camicia, senza borsa o zainetto, sfidando i possibili imprevisti della giornata in modo casual & minimal. Tappi per gli orecchi in tasca, non si sa mai.
Approdo a Camden intorno alle 15:20, ritiro piuttosto agilmente il braccialetto, mi fiondo di corsa all'Electric Ballroom per prendermi una birra e con calma posizionarmi fra le prime file per vedere gli Spectral Wound, scordandomi tragicamente che anche i migliori piani son fatti per essere disattesi. Mi attende infatti una doccia fredda: il torvo buttafuori all'ingresso del locale gela il mio entusiasmo indicandomi la fila. Una lunga fila. Mi guardo indietro e noto la mesta serpentessa di energumeni che non sembra finire mai, la percorro a ritroso con frenesia e passo dopo passo quasi mi ritrovo alla fermata della metropolitana da cui ero emerso poco prima come un raggio di sole. È una fila che scorre, per carità, ma mi ci vogliono dieci minuti per arrivare all'ingresso del locale, dieci minuti che mi sembrano una eternità. Una volta acceduto all'antro oscuro che è l'Electric Ballroom mi dirigo al bar per prendere qualcosa da bere, ma c'è fila anche lì: mi guardo intorno e realizzo che il posto è terribilmente pieno...e siamo solo alle tre del pomeriggio! Che gli Spectral Wound siano la nuova sensazione del metallo del terzo millennio e non ce ne eravamo resi conto?
Sono ancora in fila al bar ed ecco che attacca la superba "Fever & Sufferings", dunque rinuncio a malincuore alla prima (sospirata) bevuta della giornata e questo mi irrita molto, soprattutto quando cerco di farmi spazio nella ressa e sono costretto a rimanere confinato nelle retrovie, lontano dal palco, con il mixer che mi copre metà della visuale e le luci dell'altro bar che incombono alle mie spalle - una sensazione che detesto. Ad aggiungere merda alla merda, i suoni fanno cagare, cosa che mi stupisce visto che l'Electric Ballroom gode notoriamente di un'ottima acustica in relazione al metal estremo. I canadesi portano sul palco il loro ultimo "Songs of Blood and Mire", uscito l'anno scorso e che ho molto gradito. I Nostri, teoricamente parlando, sarebbero fautori di un ispirato black metal melodico con passaggi anche tirati e che non disdegna uscite black'n'roll. Nei fatti i canadesi vanno a tremila all'ora e fanno un fottuto casino, cosa che me li fa risultare particolarmente ostici e persino indigesti, aggravando la situazione di disagio ed incertezze che sto vivendo, trafelato, tristemente sobrio, confinato con i nani da giardino in culo al mondo e seriamente preoccupato sul da farsi.
Credo che, emotivamente parlando, questo sia stato uno dei concerti che meno mi son goduto in vita mia, non per colpa degli Spectral Wound che eseguono in modo tutto sommato onesto il loro pregevole canzoniere. E così, mentre mentalmente ridefinisco le strategie per affrontare la giornata, il quintetto passa in rassegna i brani dell'ultimo album mostrando discrete capacità tecniche, al netto di suoni caotici ed impastati. Spicca il cantante per il suo aspetto malmesso (barba e face-painting - un binomio che cammina sempre sul filo del disastro) e per le sue pose plastiche: lo vedi spesso di profilo, immobile, piegato indietro con un braccio al cielo e l'altro che stringe una bottiglia, principalmente nell'atto di ingurgitare alcool (cazzo quanto avrai bevuto, figlio mio!). Egli rappresenta alla perfezione una sorta di mistica dell'avvinazzato per cui provo profonda simpatia e, a dirla tutta, anche molta invidia.
Riesco a farmi avanti man mano che la gente indietreggia - chissà, forse in tanti hanno avuto la mia stessa pensata: si son presentati ad un orario ragionevole e per curiosità si son buttati nella mischia per poi andarsene affanculo. Alla fine conquisto anche un posto di tutto rispetto non troppo lontano dal palco, ma forse quello che davvero mi manca è un po’ di benzina (aka alcool) per accendere il diavolo che è in me. Ci provo, ma non riesco a trovare un centro di gravità permanente e neanche l'hittona "Aristocratic Suicidal Black Metal" (che gran titolo del cazzo!) è in grado di scuotermi. Il set è fortunatamente breve (credo cinque brani in tutto) e finisco per accogliere con sollievo la chitarra acustica al termine della conclusiva "Twelve Moons in Hell", outro che sancisce la fine dell'esibizione con i cinque musicisti abbracciati a ricevere la giusta ovazione da parte degli astanti.
Bene, adesso ho circa tre quarti d'ora per ritrovare il mio centro e ridisegnare la mia interiorità. Intanto prendo due birre per rimettermi in pari. Decido anche di saltare i Mùr e di rimanere rintanato nelle tenebre dell'Electric Ballroom per evitare di dover rifare la fila e rientrare (pensate voi i livelli di paranoia!). L'obiettivo è bere un po' per tranquillizzarmi e farmi trovare pronto sotto al palco per i Blackbraid. Ritrovo la calma comodamente seduto su un divanetto e spippolando sul cellulare come l'ultimo dei millennial. Fortunatamente gli scenari di calca vissuti con gli Spectral Wound non si ripeteranno (paradossalmente nemmeno con gli headliner!), ma l'esperienza patita segnerà l'intera giornata, trasferendo lo spirito tronfio e baldanzoso con cui essa si era aperta in una dimensione di maggiore cautela e mestizia emotiva.
Giunge quindi il momento dei Blackbraid, ottima realtà black metal che - per chi non lo sapesse - radica il suo tratto identitaria nelle tradizioni e nell'immaginario dei nativi americani, con alle spalle un paio di album degni del nostro interesse ("Blackbraid I" e "Blackbraid II") ed un terzo in arrivo. Ho discrete aspettative, ma anche queste si infrangono contro un solido muro di suoni che non soddisfano i miei timpani. Ma chi cazzo hanno preso come fonico all'Electric Ballroom oggi? Un punk mendicante di Camden? La situazione è sicuramente migliore rispetto all'esibizione degli Spectral Wound, ma la musica della band, che in teoria dovrebbe essere coinvolgente, giunge ai miei padiglioni auricolari piatta e priva di sfumature e profondità. E così senza grandi scossoni passano in rassegna titoli come "The Spirit Returns" e "The Wolf that Guides the Hunters Hand" che invero attendevo con trepidazione. Nemmeno la lenta e cadenzata "Moss Covered Bones on the Altar of the Moon" risolleverà le sorti.
Dal vivo i Blackbraid (sulla carta una one-man band) si presentano come un quintetto assai affiatato, anche se poi la compagine tradisce nel complesso un che di dilettantismo - fra personaggi dai look diversi ed un modo di porsi sul palco abbastanza scoordinato. Le attenzioni ricadono ovviamente sulla figura sciamanica del buon Sgah'gahsowáh che dal vivo si limita a cantare, cosa che fa con grande serietà sfoderando screaming e growl micidiali ed accompagnando il tutto con gesti lenti ed enfatici. Il momento topico è rappresentato senz'altro dalla mitica “The River of Time Flows Through Me”, all'inizio della quale il Nostro impugna una specie di flauto (ma il suono è così pulito e nitido rispetto al resto che viene il sospetto che si sia fatto aiutare da una base pre-registrata). Trascorso il momento folcloristico, la musica del Blackbraid torna impetuosa ed epicheggiante.
Una esibizione in crescendo, quella degli americani, che non delude ma nemmeno colpisce in modo particolare. Anche in questo caso parte delle responsabilità va al settaggio nei suoni, non disastrosi ma nemmeno pienamente in grado di catturare le vibrazioni che la musica dei Blackbraid è solita emanare.
Tempo di uscire all'aria aperta e cambiare location. Alla Roundhouse stanno già suonando niente meno che i Bathuska, ma io decido di incamminarmi nella direzione opposta e puntare al più raccolto Underworld per fare un assaggio del kraut-rock dei giapponesi Minami Deutsch, unico gruppo non metal della giornata (per la cronaca: i Nostri si muovono al seguito dei Blood Incantation che li hanno voluti con sé nel presente tour per affinità lisergico/spaziali). Ma prima un paio di parole sui Bathuska. Non me la voglio tirare, ma i Bathuska io li ho visti nel 2018 quando la patetica scissione non si era ancora consumata: fu - nel suo piccolo e a suo modo - un concerto perfetto e non è mia intenzione intaccare il bel ricordo rivedendoli ad esibizione già iniziata, tanto più che di sicuro i polacchi non saranno cambiati di una virgola (già con i Patriarkh sarei stato più curioso, almeno indossano vestiti diversi). E poi diciamolo, hanno avuto un'idea carina, i Bathuska, ma artisticamente son quel che sono: son durati il giusto, bene dunque averli visti quando meritava farlo, ma adesso anche basta.
Sebbene non saprò mai con certezza se ho fatto bene o no a disertare i polacchi, posso affermare con serenità che i Minami Deutsch mi son piaciuti assai. Ha giocato a loro favore il fatto che la loro esibizione ha coinciso con il "classico momento a metà di una giornata di festival", quel magico istante in cui tutti i pianeti si allineano, tu sei rodato, carico a molla e sai che il meglio deve ancora venire. I Nostri, con il loro mix calligrafico di Neu!, Can e Hawkwind (una formula potenziata dalla dimensione live), si incuneano alla perfezione in questa finestra privilegiata, cimentandosi in suite fiume - per lo più strumentali - scandite da una metronomica batteria ed ingagliardite da chitarre incendiarie. All'Underworld c'è aria di scazzo e mentre continua la mia incessante spola fra bar e palco, ilari metallari ballettano allegramente. Non c'è che dire: dopo la seriosità di un paio di band black metal è una vera toccasana per lo spirito immergersi in un contesto del genere.
In origine questa doveva essere una breve parentesi in attesa dei Cryptopsy ma la situazione m'è presa talmente bene che ho deciso di rimanere fino alla fine della esibizione dei giapponesi. Bello rinfrancato ritorno all'Electric Ballroom, dove gli americani stanno già suonando. Della formazione che suonò nel mitico "None So Vile" rimane solo il piovresco Flo Mounier, fenomenale dietro alle pelli, ma non so fino a che punto possiamo chiamare Cryptopsy il gruppo che si trova sul palco. Cosa assurda: i suoni sono perfetti. E i Nostri sono dannatamente chirurgici, peccato solo che suonino brutal death! Durante il loro show ho la plastica conferma che i cantanti di brutal death gesticolano decisamente a tempo, parrebbero conoscere ogni singola nota e cambio di tempo dei brani eseguiti tanto da sembrare dei maestri di solfeggio. Bravi Criptopsy, il pubblico reagisce bene ed io stesso rimango positivamente impressionato, solo che dopo due canzoni giustamente mi rompo il cazzo.
Nella tabella di marcia i prossimi sono i tanto agognati Blood Incantation, e visto che non mi pare proprio il caso di attardarmi, decido di avviarmi per tempo verso la Roundhouse che dista circa dieci minuti a piedi. La cosa ghiotta è che verrà riproposto per intero l'album "Absolute Elsewhere", capolavoro che lo scorso anno ha saputo riscuotere enormi consensi divenendo quasi un caso nel panorama del metal contemporaneo. Cosa dire: la band ha confermato pienamente le capacita tecniche ed espressive dimostrate in studio, ma soprattutto ha ribadito lo status di superiorità rispetto al contesto che li circonda. Il resto, nel bene o nel male, lo ha fatto la Roundhouse.
Nel male, perché purtroppo - come prevedibile - i suoni non si sono rivelati sufficientemente adeguati nel supportare la complessità della musica sapientemente riproposta sul palco: i suoni si sono infatti rivelati non sufficientemente profondi e nitidi da evidenziare le sfumature e i preziosismi di una proposta che, per rendere, deve necessariamente muoversi nel contesto della perfezione assoluta (a farne le spese sono stati soprattutto i passaggi più death che sono usciti dalle casse un po' confusi e caotici).
Nel bene, perché il locale, con la sua forma circolare e l'altissimo soffitto, rappresenta una location estremamente suggestiva, l'ideale per ospitare uno show di tal fattispecie: ai lati dell’ampio palco campeggiano imponenti due obelischi con criptiche iscrizioni ad introdurre il concept mistico/astrale dell’album. Dietro: uno schermo gigante dove vengono proiettate immagini che, per quanto digitalizzate (e probabilmente fatte con l’IA), assicurano un forte impatto visivo. Fra paesaggi surreali e dimensioni parallele, passando da rovine di civiltà, mari cosmici e buchi neri, le immagini si sono susseguite con grande fluidità lungo il filo della narrazione, non costituendo affatto un elemento secondario (credo che la stessa esibizione in un ambiente più ristretto - e con il classico pannello bianco di 2mX2m sovrastato dalle sagome dei musicisti - avrebbe reso la metà...).
In virtù di questi fattori contrastanti (suoni non perfetti ma bilanciati da un grandioso apparato multimediale) la grandezza dei Blood Incantation emerge solo a tratti, ma quando arriva arriva, toccando momenti di estrema visionarietà soprattutto nella seconda metà dello show quando immagini e musica si sono intrecciate delineando i contorni di un allucinante viaggio spirituale. L'approccio prog ed estremamente tecnico hanno tenuto alta l'attenzione degli astanti per tutta la durata dell’esibizione. Le due lunghe suite (“The Stargate” e “The Message”) si sono a poco a poco materializzate in tutte le loro varie sezioni seguendo alla perfezione il copione e concedendo poco all'improvvisazione, con le fasi più distese ed atmosferiche a guadagnarsi lo stupore del pubblico, letteralmente "incollato allo schermo". In certi frangenti, fra giochi di luce stupendi e sequenze visive spettacolari, i Blood Incantation si sono guadagnati nella mia testa lo status di “Pink Floyd del death", cosa di cui - ne son convinto - i Nostri sarebbero fieri. Quanto ai singoli musicisti, si segnalano le prodezze del chitarrista Morris Kolontyrsky, disinvolto e sufficientemente dinamico sulle assi, e l’instancabile head-banging del front-man Paul Riedl, con la caratteristica crapa pelata a fare da perno alla lunga chioma roteante.
Il format festival impone tempi ristretti, pertanto niente bis e tanti saluti. Da un lato un vero peccato perché non ci sarebbe dispiaciuto assistere alla riproposizione di “Inner Paths (to Outer Space)” e “Obliquity of the Ecliptic”, ma dall'altro il set ridotto si è rivelato provvidenziale da un punto di vista della tenuta fisica visto che si inizia ad essere stanchini. Mi perdonerete dunque se deciderò di saltare a piè pari i Decapitated, (storica realtà death metal polacca che a questo punto ci sta come una bistecca dopo il cappuccino). Preferisco rimanere nei pressi della Roundhouse, mangiucchiare qualcosa, recuperare saggiamente le energie e farmi trovare in piene forze per il clou della serata: i Triptykon. O meglio, per il signor Tom G. Warrior.
Come uno scaltro sciacallo approfitto della fiacchezza che dilaga fra il pubblico dell’Incineration per saltare fra le teste della gente accasciata per terra e portarmi alla barra sotto al palco, perché ci tengo a vedere in faccia il Tom. Ho ancora voglia di bere, ma fortunatamente possiedo quel briciolo di senno per capire che è solo una questione mentale: sono infatti molto stanco e so per certo che il bicchiere della staffa sarebbe più deleterio che utile ai fini del godimento dell'evento. Resisto, dunque, e mantengo l’ottima posizione che tuttavia non mi assicura una buona compagnia. Poi uno si chiede qual è il “popolo dei Celtic Frost”, immaginandosi magari cenacoli di intellettuali stempiati con occhialini e foulard al collo impegnati in profonde e pacate dissertazioni su filosofia ed occulto. Niente di tutto questo! C'è gente spiacevole intorno a me, in particolare c’è un ubriaco che non fa altro che ripetere “uh!” in faccia a quelli che gli stanno intorno (me compreso). Il problema è che anche altri genialoidi iniziano a ripetere “uh” in modo scriteriato – cosa che evidentemente irradia ilarità nell'ambiente. Fatto sta che appena si spengono le luci un sacco di gente inizia a ripetere in coro “uh! uh! uh! uh! uh!” tanto che mi pare di ritrovarmi allo zoo in un covo di scimmie: una scena a mio avviso disdicevole e poco rispettosa per la figura mitica di Tom G. Warrior, per la sua visione artistica e soprattutto per il suo celeberrimo ed inimitabile “UH!” che solo lui dovrebbe avere il diritto di proferire.
Voglio a questo punto esprimere il mio più profondo e sentito rispetto nei confronti di un personaggio come Thomas Gabriel Fischer (stasera mi sento vicino a lui e lo voglio chiamare con il suo vero nome - che è anche il modo più corretto nella circostanza, visto che è così che si fa chiamare attualmente nei Triptykon). Fischer è uno che ha letteralmente fatto la storia del metal estremo. Lo ha fatto con gli Hellhammer, ma soprattutto con i Celtic Frost, celebrati questa sera. E ha l'onestà intellettuale di presentarsi con il monicker Triptykon, pagando sicuramente un prezzo in termini di immagine e dunque di ritorno economico. Il fatto che il Nostro faccia anche show incentrati sul repertorio dei Celtic Frost è stato visto da qualche malizioso come una mossa commerciale, ma secondo me questo non è da vedere come un raschiare il fondo del barile. Anzitutto gli album dei Triptykon sono estremamente validi, a dimostrazione della vitalità artistica del Nostro. Ma poi se vuole suonare i classici dei Celtic Frost, chi cazzo siamo noi per criticare? Sono pezzi suoi, li ha scritti lui, sono marchiati dalla sua voce inconfondibile e la sua chitarra dà loro un corpo. Per quanto mi riguarda potrebbe farlo anche sotto l'insegna dei Celtic Frost, non mi offenderei, ma non lo fa, questo perché è un signore e per via di un patto con l'antico sodale Martin E. Ain (un accordo che affermava che non vi sarebbero stati Celtic Frost senza Tom G. Warrior o senza Martin E. Ain, venuto a mancare nel 2018). E questa si chiama onestà, intellettuale, artistica, professionale e soprattutto umana, alla faccia di quello stronzo di Phil Anselmo e dei suoi infami Pantera (ma che piuttosto vada in giro chiamandosi Ghepardo, perché quelli non sono i Pantera, perché i fratelli Abbott quei Pantera non li avrebbero riconosciuti né tanto meno accettati ed approvati, mai!).
Ma torniamo a noi. L'appena menzionato Martin E. Ain viene subito chiamato in causa con l'intro "Totengott", ottima traccia atmosferica che su "Monotheist" era cantata/urlata proprio dallo storico bassista. Sullo sfondo campeggia non a caso la copertina di quell'album. La scenografia sarà decisamente minimale con le copertine dei vari album proiettate sullo sfondo (in modo a dire il vero un po' sconclusionato, visto che il più delle volte esse non corrisponderanno al brano di volta in volta suonato). Alle copertine verranno affiancate anche immagini dai soggetti più disparati evocanti sensazioni di decadenza ed oscurità. Al centro del palco si erge una sorta di leggio in stile pulpito da predicatore ad alimentare l'aura da sciamano di Fischer (e a rinfrescargli la memoria in merito ai testi...). Ma ecco che si muove qualcosa sulle assi. Il batterista Hannes Grossmann prende posizione accompagnato dal boato del pubblico seguito dalla bassista Vanja Šlajh e dall'altro chitarrista V. Santura. Ed infine ecco Lui, l’unico ed iconico Fischer che, passate oramai le sessanta primavere, sembra oramai un mix fra Gino Strada e Messner in versione satanica: lunghi capelli bianchi da spaventapasseri, papalina nera schiacciata in testa (ma perché poi?) e il caratteristico face-painting che fascia di nero gli occhi spiritati.
Si entra subito a gamba tesa con la doppietta "Circle of the Tyrants"/"The Usurper", stasera evidentemente c'è da godere. Quanto alla scaletta non ci si può certo lamentare, catturando essa quanto di più memorabile gli elvetici hanno saputo sfornare lungo la loro intera carriera. Si susseguiranno estratti dai seminali EP "Morbid Tales" ed "Emperor's Return", dai capolavori "To Mega Therion" ed "Into the Pandemonium" e persino dall'ultimo "Monotheist" che personalmente trovo eccezionale (a voler proprio vedere il pelo nell'uovo, vi sarebbe da segnalare l'assenza di una "Rex Irae (Requiem)", ma ripeto, va bene così!).
L'esecuzione è solida e portata avanti con sicurezza e mestiere, l'esibizione si divide fra una prima metà tiratissima (si segnala anche una devastante riproposizione di "Into the Crypts of Rays" dove il ritornello viene cantato a pieni polmoni dal pubblico esaltato) ed una seconda più doomica ed atmosferica: dimensione, quest'ultima, in cui i Nostri stasera si sono mossi decisamente meglio. Se infatti la prima parte del set è scorsa via anche troppo velocemente fra ritmiche serrate e il solito rifferama ossessivo e martellante, la vera svolta si è avuta con la possente "Procreation (of the Wicked)": la lunga introduzione a suon di riff tanto rocciosi quanto maestosi è la migliore celebrazione della morbosa visione artistica dei Celtic Frost che, con quel brano, lanciavano i primi segnali nella direzione di quel gothic metal che avrebbero sperimentato (inventato) di lì a poco. Ad aggiungere gloria alla gloria avremo improvvise colonne di fuoco sparate durante l’anthemico ritornello, soluzione scenica certamente pacchiana ma efficace nel rendere ancora più infernale e tesa l’atmosfera respirata durante l'esibizione.
Siamo entrati nel vivo. Rendono molto bene gli estratti da "Monotheist", ossia "A Dying God Coming into Human Flesh" e "Ground" (presentate per la prima volta sotto l'insegna dei Triptykon). In particolare colpisce la prima con i suoi lugubri landscape sonori che rasentano l’ambient ed incutono reale inquietudine. Il declamato isterico e sopra le righe di Fischer colpisce duro: quel canto che tanto avrebbe ispirato il growl del death metal, con il passare degli anni è divenuto una sorta di soliloquio/sproloquio di un vecchio sbiascicone che veste gli abiti di un predicatore invasato davanti ad un cantiere edile. Sotto al palco nel frattempo si consumano scene surreali con un manipolo di manigoldi che continuano a darsele di santa ragione nonostante la lentezza della musica: è un pogo stanco ma violento, fatto con intenti malvagi, colpi secchi assestati con solennità nella penombra di quella che sembra essere l'anticamera dell'Inferno o il piazzale nel retro di un magazzino di un supermercato.
Per gli stessi motivi per cui ci era piaciuta “Procreation (of the Wicked)” esalta la "cugina" "Dethroned Emperor", altro titanico mid-tempo in cui il Nostro accentua volutamente la sua non perfetta pronuncia inglese nel ritornello che sembra cantato da un orco su di giri. Con un pizzico di delusione, invece, accolgo brani su cui nutrivo grandi aspettative come "Mesmerized" e "Sorrows of the Moon", gioielli di gothic metal ante litteram che son stati penalizzati da una esecuzione approssimativa ed un poco confusionaria. I suoni qua non hanno colpa (del resto non è difficile equalizzare un sound assai semplice fatto di riff e batteria, riff e batteria); qui a fallare è lo stesso Fischer, il cui canto pulito non ci arriva con efficacia mentre gli intrecci fra accordi ed arpeggi non rendono benissimo.
Si rialzano le quotazioni grazie a due “pezzoni” da novanta come la storica "Necromantical Screams" e la più recente "Synagoga Sathanae" (quest'ultimo si è distinta per il contributo al microfono da parte del chitarrista V. Santura, chiamato a supportare il Maestro in alternanze vocali a dir poco letali). Entrambi i brani si muovo lungo gli stessi binari esprimendo un approccio più misurato e puntando sulla maestosità: la dimensione ideale - si diceva - per questi "Celtic Frost targati 2025", ridotti all'osso e privi di orpelli.
Ende.
Mentre ancora le note di musica classica echeggiano nella hall e giungono persino al cesso, io mi prodigo in una pisciata assolutoria e colgo in me sentimenti contrastanti. Da un lato riconosco l'innegabile fascino emanato da un personaggio come Fischer, dall'altro constato i limiti della sua arte, evidenziati da uno show un po' povero e tirato via dal punto di vista del concepimento e dell'allestimento. Se infatti non ci si è presi la briga di portare sul palco, non dico un'orchestra intera, ma almeno un tastierista ed una corista, si poteva fare sicuramente meglio a livello di scenografia, anche solo per creare il giusto pathos fra un pezzo e l'altro.
Questa versione ibrida fra garage ed arena voleva forse favorire i Celtic Frost oscuri e furiosi interpreti di quel thrash malefico delle origini che avrebbe condotto al black metal scandinavo degli anni novanta, ma sacrifica i Celtic Frost avanguardisti, quelli che ebbero uno sguardo sul metal che nessuno prima di loro aveva avuto. La loro forza è stata la visione più che la composizione, dopo tutto assai basica. E più che uno scultore, più che un pittore, Fischer è un artista concettuale, per questo lo troviamo un po' impacciato in un laboratorio con uno scalpello o con un pennello in mano.
Nonostante questo, Fischer e compari stasera sono stati in grado di ricreare l'antica magia ed ergere quel grandioso muro di suono, tanto fiero e pungente quanto decadente e spossato, che porta con sé quel senso di universalità che solo la musica dei Grandi possiede, che so, quella dei Black Sabbath o dei Motorhead. Non solo una bella bandierina piantata sul curriculum, dunque, ma anche la consapevolezza di aver vissuto qualcosa di importante. Qualcosa che forse richiederà tempo per essere metabolizzato e capito fino in fondo.
Titanici.