Il violino: sarà perché sono un concittadino di Nicolò Paganini, il più grande violinista della Storia della Musica, sarà perché ritengo che il suo suono sia assolutamente unico nell’esprimere determinati stati d’animo, principalmente romantici e malinconici; sarà perché quasi sempre un brivido mi corre lungo la schiena quando ne ascolto l’inconfondibile melodia…
Sarà insomma per tutti questi fattori che ho visto sempre con grande favore il suo utilizzo anche nell’Heavy Metal. Certo, amalgamarlo con la classica strumentazione metallica non è gioco da ragazzi e, per farlo con risultati importanti, bisogna padroneggiare la materia.
A cura di Morningrise
L’influenza di Paganini su moltissimi artisti rock & heavy è enorme ed è da essi ampiamente riconosciuta, in particolare all’interno del (Neo) Classical. A celebrare l’eredità lasciata dall’illustre genovese erano per lo più chitarristi: da Malmsteen a Blackmore, da Eddie van Halen a Steve Vai, solo per citare i più famosi, musicisti che la materia la padroneggiavano decisamente bene...
Se andiamo invece alla ricerca di violinisti metal veri e propri, il nome che di primo acchito viene in mente al metallaro medio è di certo quello di Martin Powell. Il geniale tastierista e violinista inglese ce lo ricordiamo per l’enorme contributo dato alla causa dei My Dying Bride (successivamente ad Anathema e Cradle of Filth): difficile non rimanere stregati dalle sue splendide partiture nei primi 4 album del gruppo di Halifax. All’epoca non era così usuale ascoltare il suono di un violino all’interno di un disco metal, eppure venne immediatamente apprezzato dal pubblico metallaro dedito alle neonate sonorità goticheggianti, tanto che ancora adesso quegli album e Powell stesso, sono rimasti nel cuore dei fan della Sposa Morente. Per il sottoscritto anche a distanza ormai di 22 anni dalla pubblicazione di “Turn Loose The Swans”, una lacrima sgorga spontanea dopo le prime note di “Sear me MCMXCIII”…
Già, il 1993: quell’anno non veniva dato alle stampe solo "Turn Loose The Swans", ma anche un album di una giovane band olandese, formatasi già nel ’91, fautrice di un death/doom sicuramente debitore dei Paradise Lost di “Gothic” e degli stessi My Dying Bride, ma che presentava anche delle caratteristiche originali. Erano i Celestial Season di “Forever Scarlet Passion”, licenziato dalla piccola etichetta francese Adipocere.
I Celestial Season hanno avuto tutti i crismi per diventare i prime mover di un movimento olandese che, di lì in avanti e per tutta la decade, riuscirà a sfornare gruppi e album che hanno fatto la storia e l’evoluzione del gothic metal mondiale: dai The Gathering “pre e post Anneke” agli Orphanage, dagli After Forever della sensuale Floor Jansen ai best-seller (e sopravvalutati) Within Temptation.
Prima di tutti questi c’erano loro: i Celestial Season.
“Forever Scarlet Passion” di per sé non è un album eccezionale (sicuramente inferiore al successivo “Solar Lovers”, il loro capolavoro), non ha un songwriting di primissimo livello e, come detto, lo si può considerare per molti versi derivativo della scena inglese dell’epoca. Ciò che lo distacca dalla massa e lo rende per questo oggetto del presente post, è l’aver anticipato un’atmosfera ovvero la sensazione di star assistendo ad una rappresentazione teatrale, ad una tragedia musicata grondante decadentismo e romanticità. Questo tipo di attitudine e di impostazione verrà portata alla ribalta, e al successo di pubblico e critica, dai norvegesi Theatre of Tragedy due anni dopo con il loro omonimo debut album; un gruppo e un disco che faranno da apripista ad un sottogenere, il Gothic c.d “beauty and the beast”, che conterà numerose band, molte delle quali norvegesi (The Sins Of ThyBeloved e Tristania su tutte).
Mentre i Theatre of Tragedy per raggiungere l’obiettivo della “teatralità” per lo più sulla flebile e deliziosa voce di Liv Kristin Espenaes alternata al growl cavernoso della voce maschile, sulle tastiere e sull’utilizzo dell’inglese arcaico nelle lyrics, i Celestial Season hanno nelle partiture di violino e nell’uso delle clean vocals, seppur alternate al growl, di Stefan Ruiters le loro armi vincenti.
“Cherish my pain”, l’opener del disco, è emblematica in tal senso: ci accoglie un intro di violino struggente, suonato da Edith Mathot, poi tutti gli strumenti partono all’unisono, seguiti dalla voce di Ruiters molto dolorosa e recitativa. La parte doomfuoriesce prepotente nelle parti rallentate, accompagnate questa volta dal growl, ma non c’è tempo di annoiarsi perché i cambi di ritmo sono numerosi, e saranno una costante di tutti i pezzi dell’album.
Nota di merito poi per il gioiellino “Ophelia”, posizionata a metà del disco, appena due minuti ma di grandissima intensità, con un mood incredibile da tragedia teatrale, una sensazione anche qui veicolata dall’accompagnamento del violino che sembra direttamente portarci dentro la rappresentazione dell’”Amleto” shakespeariano e illustrarci l’annegamento della povera Ofelia.
Un violino sempre presente in tutte le composizioni e che torna prepotentemente a rubare la scena agli altri strumenti nella conclusiva “For Eternity”, altro highlight del platter.
Le altre canzoni del disco si attestano su livelli buoni o più che buoni, e denotano già, soprattutto nelle parti più veloci, quelle influenze stoner e psichedeliche (sic!) che, pur mantenendo le caratteristiche goth/doom di “Forever Scarlet Passion”, saranno ancora più evidenti nel successivo, e come detto superiore, “Solar Lovers” (1994). In esso i Celestial Season raggiungeranno una maturità compositiva notevole come testimoniano le meravigliose “Decamerone”, “Soft embalmer of the still midnight” (gran titolo questo…), la cover molto ben riuscita di “Vienna” dei britannici Ultravox e “The scent of Eve”, quest’ultima probabilmente la loro miglior composizione, riuscendo a condensare in quasi 9 minuti tutte le caratteristiche del sound proposto nei due full-lenght.
I Celestial Season, a partire dal mini “Sonic orb” del 1995, e più compiutamente con gli ultimi due dischi (“Orange” e “Chrome”) pubblicati prima del loro scioglimento avvenuto nel 2001, abbandoneranno gli stilemi gothic e death per abbracciare completamente lo Stoner, scrivendo comunque pagine significative anche per questo sottogenere.
Riflettendo sull’uso del violino nell’Heavy Metal, sono andato in maniera immediata con il pensiero a Giuseppe Tartini e al suo “Il trillo del diavolo”, celeberrima sonata per violino composta nel 1713, un’opera straordinaria e profondamente heavy.
Non si sarebbe mai immaginato che 280 anni dopo quello strumento sarebbe entratoda protagonista a marchiare una scena e un sottogenere che ha lasciato tracce molto significative nel variegato universo dell’Heavy Metal (musica che col Diavolo nell’immaginario collettivo ha molto a che fare…)