Il concetto di “post” mi
ha sempre affascinato. Il fatto che si parli degli Isis, e dunque di post-metal,
è però solo una coincidenza, perché in realtà non voglio parlare di post-metal,
ma di “post” inteso come “quel che viene dopo”.
Dopo la maturità.
O il successo.
O entrambi…
La parabola artistica dei
bostoniani, nella sua brevità, è stata esemplare. Nati alla fine degli anni
novanta sull'onda travolgente del nascente post-hardcore, dimostrarono
presto, e prima di altri (molti altri), di esser saltati sul treno giusto. Nel 2000,
freschi di nuovo millennio, già se ne uscivano con “Celestial”, che sebbene
pagasse un bel dazio ai maestri Neurosis, era un bell'esordio per
davvero: acerbo ma passionale, dava alla band la giusta visibilità in un momento
storico in cui l'universo “post” stava ribollendo.
Ma cos'è che distingue una band
normale da una grande band? Il tempismo: nel 2002 usciva “Oceanic” il quale già mostrava grandi segni di personalità e grazie al quale i Nostri si
affermavano come i pionieri e gli alfieri più credibili di un’espansione del
suono che ricongiungeva il metal al post-rock strumentale dei Mogwai E
cosa, infine, distingue una grande band da una vera e propria Leggenda?
Il superarsi continuamente, innovando, stupendo, servendo portate sempre
migliori: ecco che nel 2004 usciva “Panopticon”, capolavoro
formale della band e pietra miliare dell’intero genere, grazie al quale i cinque
americani, forti di un approccio più progressivo, uscivano definitivamente dalla
sagoma dell'ombra lunga e lercia di Steve Von Till e soci.
Tutto fantastico, ma poi
iniziarono i problemi. Negli anni ottanta una grande band (vedi per esempio gli
Iron Maiden), una volta accreditata,
poteva permettersi di pubblicare una sequela infinita di lavori fotocopia. Da un po' di anni a questa parte il giochetto non funziona più: il mercato è esigente, i fan sono esigenti,
gli artisti stessi sono più esigenti. E quindi o fai come i Tool, ossia
non pubblichi più niente, oppure cerchi di evolverti, rischiando però di
abbandonarti ad una deriva di ispirazione calante e mestiere crescente.
Gli Isis perlomeno hanno avuto il
buon gusto di fermarsi in tempo, nel senso che dopo la loro fase di picco,
pubblicheranno altri due album, fra l’altro nemmeno malvagi, “In the Absence
of Truth” (del 2006) e “Wavering Radiant” (del 2009),
a gruppo più o meno già dissolto (lo scioglimento ufficiale avverrà poco dopo,
nel 2010).
Quando ascolto “In the Absence
of Truth” a volte ho come l'impressione che tutto vada bene così e che non
poteva essere altrimenti: in esso ci vedo una dimessa ricerca, volta a
costruzioni sonore meno monumentali, ma in qualche modo più sofisticate ed
avviate lungo un sentiero spirituale (come ovviamente predicato dal Vangelo
secondo Steve Von Till).
A volte, però, provo una fatica
tremenda. Non tanto per l'ascolto in sé, ma nell'immedesimarmi nei
musicisti stessi. Solo Jeff Caxide, il bassista, non aveva capito un cazzo:
continuava a crederci, lui solo, progrediva con il suo strumento, affinava la
sua ricerca melodica, esplorava nuovi suoni, guadagnava spazi, non accorgendosi
però che, mentre si dimenava o si chinava a girare le manopole degli effetti
sulla pedaliera, i suoi compagni sbadigliavano a bocca chiusa per non farsi
scoprire, chi con gli occhi lucidi per contenere l'onda d'urto dello sbadiglio
compresso fra le ganasce serrate, chi con gli occhi sgranati per non
addormentarsi. Con le occhiaie dell’Area Manager che, a fine giornata, fiaccato
da indicibili menate lavorative, ti ascolta distratto, annuendo innanzi ai tuoi
futili problemi, ma anche risolvendoteli con la risoluzione dell’uomo di
esperienza. Fiacchezza professionale.
Persino Aaron Turner,
anima della band, oramai non c’aveva più voglia di cantare. Cantante non lo era
stato mai, ma nel momento in cui la musica degli Isis si faceva più raffinata e
la componente hardcore si era affievolita, che senso aveva urlarci sopra? E
lui (che è un ragazzo intelligente) lo sapeva, ma non poteva fare altrimenti. Strumentali
e senza voce non si può diventare, si diceva, sennò i metallari s'incazzano.
Cambiare cantante sarebbe stato troppo faticoso. Chissà come sarebbero andate
le cose se vi fosse stata l’umiltà di cedere il microfono a qualcun’altro,
magari ad una gentil donzella per stupire tutti ancora una volta. Ma anche
l’umiltà richiede energia, e quindi Turner lascia spazio alla musica il più
possibile, ma senza scomparire del tutto: le sue vocalità sono ovunque poco
incisive, cerca di intonare qualcosa di pulito (ma senza profondità), poi torna
a quel growl monotono che era riuscito persino ad intaccare la
perfezione dei “Panopticon” (meglio allora gli strilli hardcore degli inizi, ma
che fatica…).
E poi la musica: mica male la
musica, ma la sensazione è …avete presente quando siete in un paese
straniero, montate su un autobus perché volete andare da qualche parte, ma, pur
non capendo un cazzo, ad un certo punto iniziate ad intuire di aver sbagliato
qualcosa, che quell’autobus, proprio quel giorno, proprio a quel giro, si
fermerà prima, per qualche oscura ragione? Tappa dopo tappa l’autobus riparte,
e voi ogni volta sperate di arrivare alla meta prefissata, ma al tempo stesso rimanete
inquieti. Poi finalmente l’autobus si ferma per davvero, tutti silenziosamente
scendono, con disinvoltura, si disperdono non si sa dove, siete in mezzo al niente,
ognuno sa quello che fare, tranne voi che state ancora rintontiti sull’autobus.
Ecco: “In the Absence of Truth”, la parte finale della carriera degli
Isis, porta con sé questa sensazione di errore e di inconcludenza, frammiste a
speranza e bellezza paesaggistica.
E infatti vi sono guizzi di
genialità, c’imbattiamo in trame inedite (soprattutto sul versante ambient), e nel complesso tutto è confezionato decisamente bene. “In
the Absence of Truth” paga però lo scotto di appartenere alla categoria delle opere
della post-maturità. E non è solo una questione di sfigurare nell’inevitabile
raffronto con il glorioso passato. L’artista spesso non ne è nemmeno pienamente
consapevole: lo splendore, l’energia della gioventù e della massima ispirazione
sono oramai alle sue spalle, ma non ancora lontane anni luce, bensì appena
dietro l’angolo. Sebbene diminuita, la linfa vitale c’è ancora, per questo le
opere della post-maturità soffrono più di un senso di disorientamento che di
vere e proprie lacune artistiche. Da un lato l’artista si sente ancora Dio, ma
dall’altro non ci crede fino in fondo. Più che altro ha
l’ambizione/disperazione di doversi superare in qualche maniera, ma perde
indubbiamente la spensieratezza, perché già cova dentro di sé quella necessità
di fuga: fuga dal dover essere quello che tutti vogliono, quello che lui stesso
vorrebbe. Non è un caso che tante volte l’artista ricomincia a divertirsi proprio
quando oramai ha perso la popolarità, quando non ha più il fiato sul collo, non riceve la pressione di
discografici, critica e fan (un po’ come quando i nonni dicono di essersi goduti più i nipoti che i figli, che invece hanno dovuto educare, dei quali hanno avuto la piena
responsabilità, sì nel vigore della gioventù, ma anche nella fragilità
dell’inesperienza).
Ma se “post” è quello che
viene appena dopo, spesso l’artista ancora stordito dai fumi inebrianti del
successo e della consapevolezza di essere grande (se non IL migliore), vive in uno
stato di allucinazione artistica: nell’assenza di lucidità e nella
confusione di una visione offuscata, egli difficilmente andrà oltre una
concezione di “futuro futuribile”. “In the Absence of Truth” è il futuro
futuribile che gli Isis si immaginavano appena dopo i fasti di “Panopticon”:
il futuro futuribile di quelle commedie di fantascienza in cui si
tratteggia un futuro prossimo, o anche remoto, che non è altro che una banale proiezione
razionale del presente. Non c’è la spinta in avanti dell’utopia, né la forza
premonitrice della distopia.
Noi siamo gli Isis, avranno
pensato, ragazzi semplici, brava gente, gente onesta, quasi eroi per caso
(parafrasando Gianni Morandi “C’erano dei ragazzi, che come me,
amavano Tool e Neurosis…”): sì, qualcuno pelato, altri con la barba, tutti con
la camicia a quadri, ma con il cranio ben rasato, la barba pettinata e senza
caccole, la camicia stirata, gente che suonava fra una tesina di dottorato e
l’altra, gente che si ubriacava con il succo di mirtilli, gente che mentre
suonava nel chiuso della sala-prove pensava ad un bel giro in bicicletta con il
cane al guinzaglio, o ad un gradevole picnic con la famiglia nel parco della
città (ah, la mia bella Boston…).
E quindi basta: il plettro
scivola di mano, la bacchetta cade per terra, gli Isis si sciolgono.
La fatica di esistere.