Correva l’anno 1997. Da
neo-studente universitario squattrinato mi aggiravo nei vicoli di Genova alla
ricerca del mio acquisto metallaro mensile: la scelta doveva essere ben
ponderata. Disponevo infatti, nei mesi “buoni”, di quelle sole, fatidiche
30.000 lire, utili appunto per l’acquisto di un unico compact disc.
Bazzicando nella deandreiana via
del Campo, finisco davanti alla vetrina dell’etichetta musicale Black Widow e
dalla porta aperta sento fluire leggiadre, ma al contempo vigorose, note
di chitarre acustiche, accompagnate, oltre che da una timida chitarra
elettrica, da flauti, violini, violoncelli, mandolini, tastiere…all’epoca ero
molto sensibile verso queste sonorità e fu quindi amore al primo ascolto!
A cura di Morningrise
Entro e chiedo chi diavolo sia quella band che suona in maniera così bucolica ma al contempo così fottutamente e avanguardisticamente metal. Mi viene risposto con candido stupore: i Promethean! (come a dire: “sei proprio uno sfigato a non conoscerli!”). Rimasi dentro il negozio ancora qualche minuto ad ascoltare, ma dentro di me avevo già deciso: nonostante la copertina oscena comprai il cd, titolato “Gazing the invisible” e nei mesi a seguire lo consumai.
Entro e chiedo chi diavolo sia quella band che suona in maniera così bucolica ma al contempo così fottutamente e avanguardisticamente metal. Mi viene risposto con candido stupore: i Promethean! (come a dire: “sei proprio uno sfigato a non conoscerli!”). Rimasi dentro il negozio ancora qualche minuto ad ascoltare, ma dentro di me avevo già deciso: nonostante la copertina oscena comprai il cd, titolato “Gazing the invisible” e nei mesi a seguire lo consumai.
La mente che stava dietro
quest’unicum di avantgarde/folk-rock è un personaggio niente male: si tratta di
Timo Iivari, già fondatore della black/dark band finlandese Black
Crucifixion, gruppo nato nei primi ’90.
Piccola premessa: il nostro Timo
viene dalla città di Babbo Natale, Rovaniemi, 60.000 anime in mezzo alla
Lapponia ad appena 8 km dal Circolo Polare Artico, con inverni interminabili,
punte di -40° C e turismo basato sul Villaggio di Santa Klaus. Iivari,
probabilmente devastato dalla noia, invece di darsi alle sculture di ghiaccio o
travestirsi da elfo per compiacere i bimbi in villeggiatura, decide di
indossare borchie e cartuccere, una maglietta dei Mayhem, completa l’opera con
un face painting spinto e si dà al Black, con lo pseudonimo di…Forn (che altri
non è che un alias di Tom Bombadil del Signore degli Anelli!).
Ma quest’attività, dopo appena
due EP pubblicati dai Black Crucifixion, non lo deve aver soddisfatto granchè, e così, chiamati a
raccolta un po’ di amici (tra cui un altro tipetto poco raccomandabile, Marko
Laiho, il Nuclear Holocausto dei neo-disciolti Beherit) crea questi notevolissimi 45 minuti
di rock sperimentale (non a caso l’opera fu prodotta dalla lungimirante
Avantgarde Music, l’etichetta lombarda specializzata sì in black, death e doom
ma che ha sempre appoggiato anche ottimi progetti di sperimentale commistione
metallara); dicevo: un rock dalle forti tinte folk nella prima metà del
disco, e psichedeliche nella seconda, con chiari stilemi pinkfloydiani. Ma l'uso non lesinato di violini e violoncelli farà le gioie anche degli amanti di certo goth/dark rock. Infatti sempre protagonista per l'intera durata dell'album è l’ensemble dei
sette musicisti "classici" chiamati a raccolta da Timo: gli strumenti a fiato e ad arco
costituiscono senza dubbio quel quid che caratterizza il
sound della band e che avrebbe potuto costituire la possibilità concreta di successo per i Promethean.
Timo, che è un polistrumentista, decide, oltre a scrivere tutti i testi delle canzoni, di limitare il proprio apporto strumentale e di mettersi dietro al microfono, con risultati per la verità alquanto disastrosi, essendo stonato come una campana (sentire "Don't mind the dancer" per credere). Ma è un difetto su cui si può soprassedere, visto che le parti cantate sono nettamente inferiori alle parti di sola musica. Peraltro, quando proprio si rende conto di non riuscire a cantare, Iivari si limita a recitare, a declamare i propri versi come in uno degli highlight del disco, "All blue is beautiful", o come nella bellissima “Polygon”, i cui unici versi sono i seguenti: “Quando tutto è niente / e tutto ciò che è nuovo è sempre la stessa cosa / ricopri la Terra con i tuoi peccati / e non provare alcuna vergogna”. Ermetico ma intrigante, no?
Timo, che è un polistrumentista, decide, oltre a scrivere tutti i testi delle canzoni, di limitare il proprio apporto strumentale e di mettersi dietro al microfono, con risultati per la verità alquanto disastrosi, essendo stonato come una campana (sentire "Don't mind the dancer" per credere). Ma è un difetto su cui si può soprassedere, visto che le parti cantate sono nettamente inferiori alle parti di sola musica. Peraltro, quando proprio si rende conto di non riuscire a cantare, Iivari si limita a recitare, a declamare i propri versi come in uno degli highlight del disco, "All blue is beautiful", o come nella bellissima “Polygon”, i cui unici versi sono i seguenti: “Quando tutto è niente / e tutto ciò che è nuovo è sempre la stessa cosa / ricopri la Terra con i tuoi peccati / e non provare alcuna vergogna”. Ermetico ma intrigante, no?
Ma, come spesso accade nel mondo
Metal, per avere successo bisogna essere tempestivi e i Promethean proprio non
lo furono. Il 1997 fu infatti l’anno dell’uscita dei massimi capolavori
dell’avantguarde: “Omnio” degli In The Woods, “La masquerade infernale” degli
Arcturus, “The linear scaffold” dei Solefald, “Those who caress the pale” dei
Ved Buens Ende. E questo solo per rimanere in Norvegia e nell’alveo del
post-black.
Il mercato quindi non se li filò, avendo altro cui guardare.
Il mercato quindi non se li filò, avendo altro cui guardare.
I Nostri resteranno così in vita
un battito di ciglia. Nel 1998 daranno alla luce il più che buono “Somber
regards” (altro bellissimo titolo) dove tutto risultava più professionale,
dal packaging alla produzione, e persino Timo sembrava riuscire a cantare in
modo più umano, oltre a inserire rispetto a “Gazing…” stilemi jazz-fusion
davvero interessanti. Il disco, sempre molto emozionale, era più bilanciato,
più maturo e meno incerto rispetto al predecessore sulla direzione stilistica e artistica da prendere. Ma
l’esperimento non riuscì, commercialmente parlando, e Timo decise di sciogliere
la band e tornare a sferragliare black, peraltro niente male, col suo gruppo
d’origine.
Io lo voglio però ricordare per le
emozioni datemi in quel biennio ’97-’98. Un’avventura musicale che ci fa ancora
una volta capire di più come dal Black Metal, “genere fresco e malleabile” come
già MM lo ha definito in un post di Memento Mori di questa settimana, possano
poi nascere le espressioni artistiche più innovative, capaci di strizzare l’occhio
ai generi più disparati e approdare con credibilità e disinvoltura a lidi avanguardistici.
Probabilmente Timo il nome della
band lo scelse dal secondo EP del 1993 dei Black Crucifixion, “Promethean
Gift”, ma a me piace pensare che lo abbia dato avendo in mente il mito di
Prometeo e della sua creazione dell’uomo attraverso il fuoco divino donatogli
da Zeus. Anche se, più che un Titano quale Prometeo era, la versione di Iivari nei
Promethean la associo a quella di un satiro (giusto per rimanere nel
mito greco), capace con la musica del suo flauto di incantare gli ascoltatori.