5 giu 2015

RECENSIONE PATHOSRAY: "SUNLESS SKIES"



Una schiera di figure (pseudo) umane che prosegue e si perde verso l’orizzonte, raccolte in posizione fetale, con enormi chiodi che gli trapassano la colonna vertebrale, mani racchiuse dentro bloccanti cilindri metallici e piedi imbullonati nel terreno, una grottesca e proboscidale maschera antigas sul viso per poter respirare un'aria, gialla e malata, ammorbata da gas venefici...insomma, una sorta di lager a cielo aperto, un prodotto distopico (saranno i figli dei nostri figli??) degli errori e degli orrori perpetrati oggi da un’umanità che si è resa schiava con le sue stesse azioni ottuse, ignoranti, e quindi arroganti, incurante dell’ambiente naturale nel quale è inserita …questa è l’angosciante copertina ideata da Gonzalo Ordones Airas, in arte Genzo, l'illustratore cileno cui si sono affidati i Pathosray per la copertina della loro seconda fatica del 2009, “Sunless skies".

A cura di Morningrise

Sotto le ali della Frontiers records, l’ottima etichetta napoletana specializzata in Hard and Heavy, Power e Prog metal e che non si è fatta pregare due volte per accaparrarsi una realtà del genere, i Pathosray erano chiamati a confermare l’immenso debut album omonimo di due anni prima (qui la recensione).

Vi sono riusciti? MM non poteva esimersi dalla rivisitazione di quello che, ahimè, è per ora l’ultima uscita discografica del quintetto friulano.

Il gruppo, oltre al cambio di etichetta, presenta un’altra importante novità: fuori Luca Luison alla chitarra e dentro Alessio Velliscig, che impareremo ad apprezzare sin dai primi minuti del disco sia per le qualità tecniche, capace com’è di districarsi alla grande anche nei passaggi più contorti, che per la precisione nell’esecuzione di fraseggi ed assoli.

Diciamo subito che quel ponte ideale che avevamo descritto nella prima recensione tra il prog anni ’70 e il moderno prog/power metal, al primo impatto, sembra essersi inclinato di più verso quest’ultimo aspetto. L’uno-due che accoglie l’ascoltatore, “Crown of Thorns” e “Behind the Shadows”, infatti sono due belle bordate che faranno felici gli amanti delle sonorità a-là-Nevermore/Symphony X, con una chitarra, impostata su toni bassi, dal suono molto compresso e potente, quasi in stile nu-metal, accompagnate con grinta e gusto dal duo Moni Bidin-D’Amore, rispettivamente batteria e basso che, come sempre, lavorano con la precisione di un orologio svizzero e danno profondità e corposità al sound generale. Due canzoni molto aggressive quindi, soprattutto la prima, ma che trovano aperture catartiche nei bridge e nei bellissimi chorus in cui la strabiliante voce di Marco Sandron, protagonista assoluto per tutta la durata del disco, si esprime in tutta la sua estensione e classe, richiamando alla mente più di una volta, sia nelle parti più aspre che in quelle più pulite, il grande Russell Allen. Questi primi dieci minuti hanno l’unica pecca di richiamare qualche deja-vu di troppo (bellissimo il duello tastiere-chitarra dreamtheateriano alla fine di “Behind the shadows”), ma la qualità dei pezzi rimane ottima e la personalità del gruppo ovvia anche a questo aspetto.

Ma è nel trittico centrale (“Aurora”, “Quantic Enigma” e “In your arms”), che il gruppo ci fa tornare indietro di due anni alle sonorità che avevano caratterizzato il loro esordio, riproposte però con quell'approccio e quel mood più oscuro e modernista di cui sopra (dovuto probabilmente anche all'apporto di Velliscig): continui cambi di ritmo e di umori, un gusto unico per le aperture melodiche, assoli emozionanti dal sapore classico, le tastiere di Gianpaolo Rinaldi che avvolgono il tutto a tratti con dolcezza, a tratti con suoni campionati ultramoderni, a tratti con richiami agli amati anni ’70, periodo sempre presente, seppur come detto in maniera meno invasiva rispetto al passato, come punto di riferimento nel songwriting della band.

“Aurora” è emblematica in tal senso con il suo inizio elettronico e la voce filtrata di Sandron che subito dopo si scioglie in cori e aperture melodiche, in una continua alternanza di parti tirate e rilassate, che si intersecano in un saliscendi emozionante in cui l’ascoltatore rimane avvolto piacevolmente. L’assolo al centro della song, da brividi, porta a un interludio molto soft ed emotivo, prima di tornare in chiusura sul tema iniziale. Splendida.

La successiva “Quantic enigma” ripete lo schema di "Aurora" con ancora maggiore qualità: grande spazio lasciato a Rinaldi che si esalta in partiture che richiamano il miglior Jordan Rudess. Con la differenza sostanziale e migliorativa però che qui Sandron ridicolizza, in un ideale raffronto, il buon LaBrie!

“In your arms” è una pseudo-ballad, che si apre con un dolcissimo pianoforte e la voce più calda che mai di Sandron, prima dell’ingresso di Villescig e un ritornello con cori tanto semplice quanto trascinante. Grandissimo il lavoro in arrangiamento fatto dalla sessione ritmica, con una tecnica, mai fine a se stessa, sempre varia e funzionale. Impossibile non emozionarsi…

Insomma, il campionario fuori dal comune che il gruppo aveva profuso a piena mani in “Pathosray” torna in questi tre splendidi pezzi che esprimono in modo perentorio quelli che sono i Pathosray pronti ad affacciarsi nella seconda decade del terzo millennio.

E non è finita di certo qua: la successiva “Sons of a Sunless Skies” è un concentrato di quanto detto sopra, con un clima a tratti claustrofobico che va a richiamare quelle sensazioni veicolate dalla cover dell'album; e poi menzione di assoluto rilievo per gli 8 minuti e passa della conclusiva “Poltergeist” (all’interno della quale trova spazio la bellissima voce soul della guest-vocalist Silvia Marchesan), un brano enorme che racchiude, “frullate” in maniera mirabile, tutte le caratteristiche ed influenze succitate che vanno a formare il Pathosray-sound e che faranno felici i progsters più incalliti dal palato fine, visto che qui ogni membro della band trova il giusto spazio per esprimersi sia a livello tecnico che melodico. E quando il brano si chiude, tra un tripudio di tastiere e i vocalizzi di Silvia, beh…possiamo solo alzarci in piedi e applaudire: chapeau!

Alla fine dell’ascolto la cosa che colpisce di più, come era già successo per l'album d'esordio, è l’assoluta genialità e intuitività dei membri della band nel capire, a livello di scrittura, quando accelerare quando rallentare quando tirare una bordata al limite del thrash, per poi rilasciare la tensione sempre al momento giusto, con un passaggio acustico, un’apertura melodica, un passaggio epico. Questo continuo "carico e scarico" permette di non far filtrare neppure per un attimo la noia e garantisce la longevità degli ascolti del platter (in questo senso la lezione dei Maestri Opeth, una delle principali band amate dai componenti dei Pathosray, è stata assimilata alla perfezione!).

In conclusione un album ottimo, a mio modesto avviso leggermente inferiore al suo predecessore (ma bissarlo era per chi scrive una impresa titanica…). Si ha come l’impressione che, paradossalmente, il gruppo padroneggi sì meglio la materia e le proprie capacità tecnico-compositive, ma che spinga (relativamente…) leggermente meno sul pedale dell’inventiva, non riuscendo a toccare i picchi compositivi, se non nella conclusiva Poltergeist”, di una “Sorrow Never Dies” o di una “Scent of Snow”. Ma queste sono quisquilie, inezie perfezioniste considerata l'assoluta bontà del disco.

Da avere. E speriamo che vi sia al più presto una terza release a firma Pathosray!


Voto: 8

Canzone top: "Poltergeist"

Canzone flop: nessuna

Momento top: l’assolo centrale e il bridge di "In your arms"

Dati: 9 canzoni, 47 min.

Etichetta: Frontiers Rec.