Una schiera di figure (pseudo) umane che prosegue e si perde verso l’orizzonte, raccolte in posizione
fetale, con enormi chiodi che gli trapassano la colonna vertebrale, mani racchiuse dentro
bloccanti cilindri metallici e piedi imbullonati nel terreno, una grottesca e
proboscidale maschera antigas sul viso per poter respirare un'aria, gialla e malata, ammorbata da gas venefici...insomma, una sorta di lager a cielo
aperto, un prodotto distopico (saranno i figli dei nostri figli??) degli errori e degli
orrori perpetrati oggi da un’umanità che si è resa schiava con le sue stesse azioni ottuse,
ignoranti, e quindi arroganti, incurante dell’ambiente naturale nel quale è
inserita …questa è l’angosciante copertina ideata da Gonzalo Ordones Airas, in
arte Genzo, l'illustratore cileno cui si sono affidati i Pathosray per la
copertina della loro seconda fatica del 2009, “Sunless skies".
Sotto le ali della Frontiers
records, l’ottima etichetta napoletana specializzata in Hard and Heavy, Power e Prog
metal e che non si è fatta pregare due volte per accaparrarsi una realtà del genere, i Pathosray erano chiamati a confermare l’immenso debut album omonimo di
due anni prima (qui la recensione).
Vi sono riusciti? MM non poteva esimersi dalla
rivisitazione di quello che, ahimè, è per ora l’ultima uscita discografica del quintetto friulano.
Il gruppo, oltre al cambio di
etichetta, presenta un’altra importante novità: fuori Luca Luison alla chitarra
e dentro Alessio Velliscig, che impareremo ad apprezzare sin dai primi minuti del disco sia per le qualità tecniche, capace com’è di districarsi alla grande anche nei
passaggi più contorti, che per la precisione nell’esecuzione di fraseggi ed
assoli.
Diciamo subito che quel ponte
ideale che avevamo descritto nella prima recensione tra il prog anni ’70 e il
moderno prog/power metal, al primo impatto, sembra essersi inclinato di più verso
quest’ultimo aspetto. L’uno-due che accoglie l’ascoltatore, “Crown of Thorns” e
“Behind the Shadows”, infatti sono due belle bordate che faranno felici gli
amanti delle sonorità a-là-Nevermore/Symphony X, con una chitarra, impostata su
toni bassi, dal suono molto compresso e potente, quasi in stile nu-metal,
accompagnate con grinta e gusto dal duo Moni Bidin-D’Amore, rispettivamente
batteria e basso che, come sempre, lavorano con la precisione di un orologio
svizzero e danno profondità e corposità al sound generale. Due canzoni molto
aggressive quindi, soprattutto la prima, ma che trovano aperture catartiche nei
bridge e nei bellissimi chorus in cui la strabiliante voce di Marco Sandron,
protagonista assoluto per tutta la durata del disco, si esprime in tutta la sua
estensione e classe, richiamando alla mente più di una volta, sia nelle parti
più aspre che in quelle più pulite, il grande Russell Allen. Questi primi dieci
minuti hanno l’unica pecca di richiamare qualche deja-vu di troppo (bellissimo
il duello tastiere-chitarra dreamtheateriano alla fine di “Behind the shadows”),
ma la qualità dei pezzi rimane ottima e la personalità del gruppo ovvia anche a questo aspetto.
Ma è nel trittico centrale (“Aurora”, “Quantic Enigma” e “In your arms”), che il gruppo ci fa
tornare indietro di due anni alle sonorità che avevano caratterizzato il loro
esordio, riproposte però con quell'approccio e quel mood più oscuro e modernista di cui sopra (dovuto probabilmente anche all'apporto di Velliscig): continui cambi di ritmo e di umori, un gusto unico per le aperture
melodiche, assoli emozionanti dal sapore classico, le tastiere di Gianpaolo
Rinaldi che avvolgono il tutto a tratti con dolcezza, a tratti con suoni
campionati ultramoderni, a tratti con richiami agli amati anni ’70, periodo
sempre presente, seppur come detto in maniera meno invasiva rispetto al passato, come punto di riferimento nel songwriting della band.
“Aurora” è emblematica in tal
senso con il suo inizio elettronico e la voce filtrata di Sandron che subito
dopo si scioglie in cori e aperture melodiche, in una continua alternanza di
parti tirate e rilassate, che si intersecano in un saliscendi emozionante in
cui l’ascoltatore rimane avvolto piacevolmente. L’assolo al centro della song,
da brividi, porta a un interludio molto soft ed emotivo, prima di tornare in
chiusura sul tema iniziale. Splendida.
La successiva “Quantic enigma”
ripete lo schema di "Aurora" con ancora maggiore qualità: grande spazio lasciato a
Rinaldi che si esalta in partiture che richiamano il miglior Jordan Rudess. Con la
differenza sostanziale e migliorativa però che qui Sandron ridicolizza, in un ideale raffronto, il buon
LaBrie!
“In your arms” è una
pseudo-ballad, che si apre con un dolcissimo pianoforte e la voce più calda che
mai di Sandron, prima dell’ingresso di Villescig e un ritornello con cori tanto
semplice quanto trascinante. Grandissimo il lavoro in arrangiamento fatto dalla
sessione ritmica, con una tecnica, mai fine a se stessa, sempre varia e funzionale. Impossibile non emozionarsi…
Insomma, il campionario fuori dal
comune che il gruppo aveva profuso a piena mani in “Pathosray” torna in questi
tre splendidi pezzi che esprimono in modo perentorio quelli che sono i Pathosray
pronti ad affacciarsi nella seconda decade del terzo millennio.
E non è finita di certo qua: la successiva “Sons of a Sunless Skies” è un concentrato
di quanto detto sopra, con un clima a tratti claustrofobico che va a richiamare quelle sensazioni veicolate dalla cover dell'album; e poi menzione di assoluto rilievo per gli 8 minuti e passa della conclusiva “Poltergeist”
(all’interno della quale trova spazio la bellissima voce soul della
guest-vocalist Silvia Marchesan), un brano enorme che racchiude, “frullate” in
maniera mirabile, tutte le caratteristiche ed influenze succitate che vanno a
formare il Pathosray-sound e che faranno felici i progsters più incalliti dal
palato fine, visto che qui ogni membro della band trova il giusto spazio per esprimersi sia a
livello tecnico che melodico. E quando il brano si chiude, tra un tripudio di
tastiere e i vocalizzi di Silvia, beh…possiamo solo alzarci in piedi e
applaudire: chapeau!
Alla fine dell’ascolto la cosa
che colpisce di più, come era già successo per l'album d'esordio, è l’assoluta genialità e intuitività dei
membri della band nel capire, a livello di scrittura, quando accelerare quando
rallentare quando tirare una bordata al limite del thrash, per poi rilasciare
la tensione sempre al momento giusto, con un passaggio acustico, un’apertura
melodica, un passaggio epico. Questo continuo "carico e scarico" permette di non far filtrare neppure per un attimo la noia e garantisce la longevità degli ascolti del platter (in questo senso la lezione dei Maestri Opeth, una delle principali band
amate dai componenti dei Pathosray, è stata assimilata alla perfezione!).
In conclusione un album ottimo, a mio modesto avviso leggermente inferiore al suo
predecessore (ma bissarlo era per chi scrive una impresa titanica…). Si ha come
l’impressione che, paradossalmente, il gruppo padroneggi sì meglio la materia e
le proprie capacità tecnico-compositive, ma che spinga (relativamente…) leggermente meno
sul pedale dell’inventiva, non riuscendo a toccare i picchi compositivi, se non
nella conclusiva Poltergeist”, di una “Sorrow Never Dies” o di una “Scent of Snow”. Ma queste sono quisquilie, inezie perfezioniste considerata l'assoluta bontà del disco.
Da avere. E speriamo che vi sia al più presto una terza release a firma
Pathosray!
Voto: 8
Canzone top: "Poltergeist"
Canzone flop: nessuna
Momento top: l’assolo centrale e il bridge di "In your arms"
Dati: 9 canzoni, 47 min.
Etichetta: Frontiers Rec.