I 10 MIGLIORI ALBUM GLAM METAL
CAPITOLO 4: "TOOTH AND NAIL" (13/09/1984)
Nella vita, per emergere e avere
successo, c’è sicuramente bisogno di talento, coraggio e inventiva. Ma da sole
queste doti spesso non bastano. Bisogna che siano affiancate anche da una buona
dose di fortuna, dall’”essere al posto giusto al momento giusto”.
La storia del successo di Donald
Maynard Dokken, per tutti "Don", ne è una plastica dimostrazione. Il modo in cui sfondò nel mondo
del metallo infatti è davvero una concatenazione di eventi e coincidenze quantomeno
singolari.
Era il 1981, Don aveva già
formato i Dokken, che però si filavano in pochi, anche perché era un gruppo di
musicisti statunitensi ma di stanza in…Germania! In uno dei tanti viaggi tra un paese e l’altro
per concludere un accordo per la registrazione di un disco, Don fece amicizia prima
con gli Accept e successivamente entrò in contatto con quella che allora era senza
alcuna ombra di dubbio la più famosa hard rock band del mondo, gli Scorpions.
Mentre gli Scorpioni di Hannover scrivevano e cominciavano a incidere quello
che fu uno dei loro tanti capolavori, “Blackout” (che uscirà l’anno successivo),
Klaus Meine ebbe problemi seri con le proprie corde vocali e dovette operarsi.
Ed ecco che il Nostro si inserì in questa “falla” e cantò sulle demo dei vari
brani in divenire. Meine dopo l’operazione completò la registrazione dei pezzi
ma le parti registrate dal cantante californiano rimasero in molte tracce come
backing vocals: un’esperienza non da poco da inserire nel proprio curriculum!
Ma le concatenazioni fortunose erano
appena iniziate. Enumerandole: 1- gli Scorpions, dopo quella collaborazione diedero
la possibilità ai Dokken di registrare negli studi del loro celebre produttore
Dieter Dierks il debut album “Breakin’ the chains” ; 2- tornato negli Usa la
major Elektra, con le referenze acquisite in Europa e notate le grandi doti
vocali di Don su “Breakin’…” decise di mettere i Dokken sotto contratto e di
rieditare l’album dandogli una diffusione anche americana (mentre prima la
distribuzione era stata solo europea); 3- entrando in Elektra il gruppo venne
preso sotto l’ala protettrice del produttore britannico Roy T. Baker, che
all’epoca vi lavorava, uno dei più famosi e validi di sempre (collaborò
proficuamente per tutti gli anni settanta coi Queen, tanto per intenderci…) 4- l’ottimo
bassista della band, Juan Croucier, lasciò i Dokken perché corteggiato dai più
rinomati Ratt. Ma quella che poteva essere un fatto negativo non si rivelò
tale: infatti il bassista cubano venne rimpiazzato da Jeff Pilson, che fu
decisivo per la scrittura di “Tooth and Nail”, contribuendo alla stesura di
tutte le canzoni presenti sul disco, oltre ad essere un vero e proprio “animale
da palcoscenico”, un trascinatore dal vivo.
Il risultato della somma di queste
situazioni, in cui fortuna&bravura si incrociano ripetutamente, fu che ”Tooth
and Nail” sbancò il mercato discografico, vendendo la bellezza di 3 mln di
copie lanciando i Dokken nel gotha dell'hard rock. Un traguardo raggiunto appunto
“con le unghie e con i denti”.
Ma rispetto ai tre dischi finora
trattati nella nostra Retrospettiva sul Glam, questo ha un che di diverso: è decisamente un album di musica hard ‘n’ heavy!
Certo presenta delle caratteristiche che lo accomunano alla Scena (le marcate linee melodiche, i cori trascinanti e ritornelli di facile presa), ma di primo acchito non sembrerebbero poter essere definiti "glam".
E allora che c’azzeccano, si potrebbe chiedere??
Per rispondere alla domanda e per giustificare questa mia
scelta, bisogna fare un piccolo passo indietro, al gennaio 1983 quando venne
pubblicato il terzo full-lenght dei Def Leppard, “Pyromania”. Mi scuso in
anticipo ma è decisivo aprire una parentesi sul grandissimo gruppo di Sheffield
e della sua abnorme influenza su tutto l’hard’n’ heavy mondiale, statunitense
in primis.
Facenti inizialmente parte a
pieno titolo della NWOBHM grazie al loro fenomenale debut album “On through the
night” (1980), a mio modo di vedere il capolavoro della loro intera carriera, dopo il discreto “High
‘n’ Dry”, Joe Elliott e soci virarono su stilemi più melodici e album-oriented, se
vogliamo patinati, andando a comporre una musica palesemente vicina ai gusti
americani (del resto già nel disco d’esordio era presente un profetico brano
dal titolo “Hello America”). Il che li portò a sfornare il loro disco della
consacrazione, “Pyromania” appunto, che segnò una definito passaggio dagli
stilemi iniziali di stampo heavy a
una musica come detto più orientata alla diffusione radiotelevisiva, e in
definitiva popolare.
Quest’album, a mio parere buono
ma nulla più (sicuramente inferiore, ad esempio, al loro successivo “Hysteria”)
ebbe un effetto devastante negli States, vendette 10 (dieci) mln di copie diventando
disco di platino e raggiunse la 2° posizione su Billboard. E i gruppi
statunitensi che suonavano quel genere musicale non ne poterono essere che influenzati.
La risposta made in U.S.A. a
“Pyromania” non si fece attendere: pochi mesi più tardi usciva infatti “Metal
health” dei Quiet Riot, altro album decisivo nella storia del metallo anni ’80,
non solo perché fu il primo album metal a raggiungere la prima posizione di
Billboard (vendendo qualcosa come 6 mln di copie), ma perché può essere a tutti
gli effetti considerato un “classico” dell’H.M. tout court, grazie a pezzi immortali come la title track, “Cum on
feel the noize” e la conclusiva ballad “Thunderbird”, dedicata allo scomparso
Randy Rhoads, che aveva suonato nei primi due dischi dei QR ed era, ahinoi,
deceduto l’anno precedente in un incidente aereo; una perdita devastante per l’intero
mondo del metallo (chiedere a Ozzy per avere conferma…). Ma i Quiet Riot non si
demoralizzarono dalla tragedia che colpì il 25enne fenomeno delle sei corde e, arruolato
il messicano Carlos Cavazo, diedero alle stampe questo splendido disco di puro
hard’n’heavy.
Probabilmente sarebbe stato più
corretto che ci fossero loro nella nostra lista. Ho preferito invece inserire i
Dokken al posto dei QR non per un fatto prettamente musicale, ma perché Kewin
DuBrow&co erano nell’approccio e nel look molto più vicini agli Iron Maiden
degli esordi, molto più “metallari” e grezzi che glamour. Ai Quiet Riot in
definitiva mancava un certo appeal di
immagine, che invece Don e soci, sempre curati ed "eleganti" nell’aspetto,
avevano.
I Dokken quindi possono essere
presi come esempio onnicomprensivo di tutte quelle band che la critica inserì
nell’unico calderone “hair” senza però essere strettamente “glam”.
Se infatti
immortaliamo la band losangeliana nel 1984 è evidente come curassero fortemente
l’immagine, le pose, gli sguardi, la tipologia di indumenti. Certo non avevano
quel trucco così marcato o quegli abiti così sgargianti di altre formazioni coeve, ma
è altrettanto vero che agli occhi risaltavano subito le loro capigliature,
iper-cotonate e mechesate e gli
sguardi da homme fatale di Don (tutte
caratteristiche di immagine che vennero esasperate nel successivo “Under lock
and key”del 1985). E rispetto ai QR anche sulla musica una conseguenza tutto ciò
l’aveva, in particolar modo emergeva uno stile raffinato, un hard
rock quasi sempre misurato e rispondente a quei canoni AOR, a quell’heavy
melodico che l’anno prima i Def Leppard avevano codificato in modo perentorio
su “Pyromania”.
Se ho già accennato
all’importanza rivestita da Pilson nell’economia del songwrting e nella
riuscita complessiva del disco, è anche d’obbligo soffermarsi sul coautore di
tutte le musiche dell’album, e cioè George Lynch, chitarrista di altissimo
livello, facente parte di quella generazione d’oro di guitar hero che nacquero, sia in America che in Europa, tra la metà
e la fine degli anni ’50 (Lukhater, Malmsteen, Satriani, Van Halen, lo stesso
Rhoads). La sua presenza sarà decisiva per rendere ottimo un album che
altrimenti sarebbe semplicemente più che buono. Anche nei pezzi che
risulterebbero più semplici e/o non memorabili (“Heartless heart”, “Don’t close your
eyes”, “Bullets to spare”) i fraseggi e i solos di Lynch donano una classe e
un’eleganza decisiva per la qualità del brano e conseguentemente dell’intero
platter.
Ma non vorrei che ci si facesse
un’idea sbagliata del sound della band: quando c’è da picchiar duro i Nostri
dimostrano di saperlo fare e bene come dimostrano la terremotante title track (top song di "TaN",
splendido pezzo tirato con un rifferrama di prima qualità e la conclusiva “Turn
on the action”, una song velocissima guidata dal chitarrismo sempre ispirato di
Lynch e che risulterà uno dei pezzi migliori del disco.
In mezzo non mancano le chicche
come l’ottima “Just Go Lucky”, dolce e potente allo stesso tempo e
caratterizzata da un refrain trascinante; “Into the Fire”, introdotta da un
inquietante arpeggio acustico che fa da preambolo all’esplosione di tutta la sua
verve; e “When heaven comes down”, mid tempo oscuro che rimane tale anche nel
chorus, cantato a piena voce da tutto il gruppo, un brano impreziosito ancora
una volta nella sua parte centrale da uno splendido assolo di Lynch.
I Dokken
poi, come era usuale in quel periodo, non si fanno mancare la ballatona da
classifica, quell’“Alone again” che mette in mostra tutta la dolcezza e
l’estensione vocale di Don.
Nonostante quanto detto di positivo, a mio
modo di vedere “Tooth and Nail” non è il capolavoro dei Dokken, che
raggiungeranno l’apice artistico con il fenomenale, e molto più complesso,
“Back for the attack” del 1987.
Ma, come accennato, è
probabilmente il disco che rappresenta al meglio un certo trend che si viveva
negli States a metà degli anni ’80, a volte parallelo e a volte intersecante il
più generale movimento Glam, un disco che è al contempo punto di partenza per
lo sviluppo artistico della band e summa
di un certo modo di interpretare il connubio tra hard rock e heavy metal in
chiave melodica e album oriented. Un’interpretazione che, come detto, arrivava
dai britannici Def Leppard, ma che negli States ebbe la sua maturazione e
culmine artistico.