CONCLUSIONI
(…seconda parte)
Cos’è
il Governo Ombra del “Nuovo Metal”? Non fateci consumare
ulteriormente la pelle dei polpastrelli per ridigitare tutte le spiegazioni che
potrete trovare nei post che hanno costituito le tappe di questa nostra rassegna
sul “Nuovo Metal” (che invero nessuno ha capito bene cos’è). Se vi siete persi
qualcosa buttate un occhio sulla “prima parte”, se invece vi siete persi tutto,
ma proprio tutto, allora digitate qui (ed andatevene affanculo!).
Ecco
dunque i nostri dieci ministri ombra:
10°
classificato: Khanate, “Clean Hand Go Foul” (2009)
A
fronteggiare il noise terroristico dei temibili Today is the Day del
pazzo Steve Austin, schieriamo gli ancor più temibili Khanate,
altra improponibile creatura di Stephen O’Malley, maestro dell’orrido e
dell’avanguardia metallica che abbiamo incontrato in occasione della
trattazione dei Sunn O))). “Disorganici” è il termine giusto per
descrivere i Khanate, in quanto la loro musica è priva di spina dorsale, è un susseguirsi senza capo né
coda di ambientazioni sgradevoli, fra passaggi lenti, colpi fuori tempo, gli
immancabili momenti dronici by O’ Malley ed improvvise esplosioni, il
tutto condito dall’ugola disastrata di Alan Dubin, fra le voci più
dilanianti dell’intero panorama del post-sludge metal. Scegliamo proprio il
loro album postumo “Clean Hand Go Foul” (uscito dopo lo scioglimento
della band, avvenuto nel 2006), che è anche la loro opera più brutta: un’ora di
audace musica per soli quattro pezzi (l’ultimo supera la mezzora) di pura agonia
sonora senza compromessi.
9°
classificato: Orthrelm, “OV” (2005)
Umea
chiama New York. Se il ministero della metal cervellotico, labirintico ed
autoreferenziale spetta di diritto ai Meshuggah, gli unici che possono
rivaleggiare su questo fronte sono gli Orthrelm di Mick Barr e
Josh Blair. Com’era stato con “Catch Thirtythree” degli svedesi, anche qui
abbiamo a che fare con un solo brano il cui senso è probabilmente solo ed
esclusivamente quello di far uscire di cervello l’ascoltatore. Batteria
vorticosa e riff ripetuti ad infinitum, niente voce né concessione
alcuna all’orecchiabilità: forse un esperimento fine a se stesso, ma ad ogni
modo un bell’esempio di metal pe(n)sante. Per chi trovasse il piatto
pesantuccio, consigliamo come valido surrogato l’altro progetto importante di
Barr, i Krallice, che più o meno ripropongono la stessa ricetta a base
di dissonanze e ritmi forsennati in salsa ferocemente post-black metal
8° classificato: Void of Silence , “Human Antithesis” (2004)
Contrastiamo
il nulla dipinto dai maestri del drone-doom metal Sunn O))) con il doom
apocalittico di Riccardo Conforti ed Ivan Zara de Roma. A
prescindere dal piacere di veder campeggiare fra i grandi del “Nuovo Metal” finalmente
degli artisti italiani, la proposta dei romani è indubbiamente interessante, se
non altro per l’introduzione di elementi, inediti per il metal, mutuati
dall’universo del folk apocalittico (Death in June e Der Blutharsch in primis).
Fra industrial, ambient, neo-folk e doom sinfonico, “Human Antithesis” è
un intenso racconto a sfondo bellico, curato nei minimi particolari ed
illuminato dalla eccezionale prestazione dietro al microfono di Alan
Nemtheanga Averill, versatile vocalist degli irlandesi Primordial, il
quale va a sostituire il ben più marcio Malfeitor Fabban, che lasciò il
progetto per concentrarsi sui suoi Aborym, originale industrial-black
band su cui sarebbe stato interessante spendere due parole.
7°
classificato: Agalloch, “The Mantle” (2002)
Già
citati nel capitolo dedicato agli Wolves in the Throne Room, gli
americani Agalloch sono fra i più importanti esponenti del filone
post-black metal. La loro formula a base di Ulver, Opeth, Katatonia, post-rock
e neo-folk riporta il cuore e la poesia al centro di tutto. E “The Mantle”
è il loro album più suggestivo ed emozionante, espressione libera delle
pulsioni artistiche di questo fantastico ensemble che è in grado di confezionare
un album per gran parte strumentale, ricco di spunti geniali, progressioni
post-rock, passaggi acustici e voci pulite. Inarrivabili.
6°
classificato: Alcest, “Souvenirs d'un Autre Monde (2007)
Ancora
più dolci e malinconici dei Jesu di Justin Broaderick, gli Alcest
sono stati una delle realtà più innovative e coinvolgenti degli ultimi anni. Dalla
Francia con amore, il piccolo Neige è un menestrello fragile e
gentile che ebbe la bella idea di fondere la rarefazione sonora di Burzum ed
Ulver alle scariche elettriche tipiche dello shoegaze. Dal suo operato, non solo
nascerà un nuovo sotto genere (il blackgaze, destinato a spopolare negli anni a
venire), ma emergerà un ponte capace di unire metal (anche quello più estremo)
alle tendenze più suggestive del dark e dell’indie-rock.
5° classificato: Baroness, “Yellow and
Green” (2012)
E’
un peccato non aver messo in campo questo bel doppio album: esso, a guardar
bene, rappresenta infatti l’evoluzione ultima del metal come oggi lo
conosciamo. Dai Neurosis agli Isis, dai Mastodon ai Baroness, che
nell’arco di soli tre album si affrancano dal violento post-hardcore delle
origini per approdare ad una coinvolgente proposta a base di stoner e
post-grunge, chiudendo un ideale cerchio che aveva visto la distruzione del
vecchio metal proprio per mano dello stesso grunge. Le nuove composizioni dei
Baroness, dunque, ricordano nei momenti più felici Alice in Chains, Pearl Jam e
Queens of the Stone Age, non tralasciando le lezioni impartite negli anni
appena precedenti dai padrini Mastodon e dagli Opeth, entrambi sempre più
interessati alle sonorità settantiane.
4°
classificato: Katatonia, “Viva Emptiness” (2002)
Cugini
degli Opeth, i Katatonia sono stati protagonisti di una grande
rivoluzione ch li ha traghettati dal black-doom delle origini, ad una riuscita
forma di goth-rock. Fra i primi grezzoni ad approdare alla voce pulita, sono stati di
grande influenza per l’universo del gothic-doom metal, ma noi scegliamo una
tappa ulteriore, quella compiuta con “Viva Emptiness”, ove i Nostri
decidevano di irrobustire nuovamente il loro sound, rinforzando il loro intenso
dark-metal con i modernismi di Tool e i riff taglienti dei Meshuggah. Un’evoluzione
inarrestabile che li condurrà ai nostri giorni freschi e forti di
un’autorevolezza che permetterà loro di imporsi come standard e come
voce di rilievo del metal odierno.
3° classificato: Cult of Luna, “The
Beyond” (2003)
Importanti
almeno quanto gli Isis, i Cult of Luna sono stati i primi a
raccogliere il bouquet lanciato dai precursori Neurosis. Se il
post-hardcore è divenuto quello che è oggi, è anche grazie a questo collettivo
svedese che negli anni è cresciuto toccando vette irraggiungibili per i comuni
mortali, confezionando album sempre più raffinati e sorprendenti. Il nostro
sguardo però torna agli inizi della loro carriera, a quel “The Beyond”
(loro secondo full-lenght) che ad oggi campeggia fra i capisaldi del genere:
ancora ferocemente post-hardcore, esso non ha la grazia e la verve
sperimentale dei lavori che seguiranno, ma possiede una forza apocalittica ed
una carica visionaria che non potranno lasciarvi indifferenti.
2°
classificato: Tool, “Lateralus!” (2001)
Solo
i Tool possono gareggiare con i Tool, per questo contro “Ӕnima”
schieriamo un’opera importante come “Lateralus”, che costituisce un
ulteriore salto in avanti nel percorso virtuoso della band americana che
rivoluzionò il mondo, non solo del metal, ma del rock in generale! Con
“Lateralus” la loro musica si fa mantrica, spirituale, mistica: scavando e
scomponendo gli schemi cellulari dell’heavy metal, attraverso uno sviluppo
certosino ed una attenzione al dettaglio che ha del maniacale, i brani si fanno
lunghi ed articolati, dall’andamento tortuoso ed imprevedibile. E i Tool divengono
gli autori di una musica pazzesca che esce da ogni possibilità di
classificazione. Altro che ascolto: buona meditazione a tutti!
1°
classificato: Neurosis, “A Sun That Never Sets (2001)
Se
solo i Tool possono affrontare i Tool, allora gli unici avversari dei Neurosis
non possono che essere i Neurosis stessi: contro il capolavoro della
prima fase “Through Silver in Blood” ci giochiamo la carta del
capolavoro della maturità: “A Sun That Never Sets”. I Neurosis ci stupiscono
ancora una volta con un album melodico e dalla forte carica emozionale: un
post-post-hardcore (scusate il gioco di parole) dal volto più umano e dall’approccio intimo e cantautoriale, che
introduce quelle chitarre arpeggiate e quelle voci pulite che costituiranno l'ossatura delle
carriere soliste di Steve Von Till e Scott Kelly, sempre più
interessati al folk-country delle loro terre. Con questa pietra miliare, i Neurosis
mettono a segno non solo l’ennesimo colpo vincente della loro storia, ma fanno
compiere al metal intero un nuovo importante salto in avanti, riconvertendo il
disumano in umano. Avanti tutta, dunque, senza più remore e paure, verso lidi
sconosciuti e bellissimi!
Adesso
basta però, voglio tornare a casa, voglio ascoltare gli Accept….