I
MIGLIORI DIECI ALBUM NON-METAL FATTI DA BAND/ARTISTI METAL
FUORI CONCORSO: “A LIFE UNTO ITSELF”
Prima
di andare a scoprire quali sono i dieci album non-metal concepiti e dati
alla luce da band o artisti metal (vedi anteprima), ci concediamo il lusso di una
piccola divagazione. Se c’è un uomo, un duro, uno dei “nostri” che non
può sfigurare nei “salotti buoni” della “Musica Bene”, quello è Steve Von
Till: voce, chitarra ed anima (insieme a Scott Kelly) dei letali Neurosis,
nonché protagonista di una carriera solista di pregio che lo rivela insospettabile
cantautore.
Perché
riteniamo il suo caso un “divagare” rispetto alla retta via delle nostre
riflessioni? Per due semplici motivi:
1) Sebbene
i Neurosis abbiano contribuito più di ogni altro a cambiare il volto del
metal degli ultimi quindici anni, essi non si possono definire metal in senso
stretto. Non rientrano dunque nel tema da noi trattato, visto che parliamo di
metallari con sacca (di pelle e borchie!) in spalla che decidono di avventurarsi
fuori dal Reame del Metallo. La contaminazione e la spinta evolutiva rimangono
due fattori saldamente radicati nel DNA della band americana, che nasce
come superamento/ampliamento degli stilemi classici dell’hardcore. Poco ci
stupisce, dunque, una loro evoluzione in qualsiasi direzione. E sebbene la loro
musica sia violentissima, pesantissima ed intrisa di Black Sabbath da
cima a piedi, molti metallari non si riconoscono in essa, mentre un grande
numero di loro fan provengono dagli ambiti più disparati. Insomma: considerateli
post-hardcore, post-metal, quello che diavolo volete, resta il
fatto che non sono sicuramente un fenomeno culturalmente legato al solo metal.
2) L’operato
in solitaria di Steve Von Till non è un’evoluzione dei Neurosis, ma un percorso
parallelo e per questo sarebbe metodologicamente non corretto considerarlo
nella nostra trattazione. Il “rocker” che si distacca un attimo dalla
sua band per ritagliarsi un momento di intimità (vedi il Bruce Springsteen
di “Nebraska”, armato di sola chitarra acustica ed armonica a bocca) è una
situazione tipica che non suscita clamore, ma diviene un archetipo del rock
e dunque del metal. A parte Klaus Meine (che non sa suonare un’emerita
mazza, salvo il tamburello che sovente ama sbattersi sulle chiappe), tutti i vocalist,
più o meno, sanno strimpellare una chitarra almeno il lasso di tempo che dura
una ballata: pensate al Bruce Dickinson di “Tears of the Dragon” o a Jon
Bon Jovi in “Dead or Alive”.
Un
conto però è se poi il disco acustico te lo fa Bon Jovi, un bonazzo che
fa musica per adolescentesse in calore. Un conto se lo te fa un demonio
pelato e barbuto che vomita parole incomprensibili e mette a dura prova le
corde della sua chitarra in tour de force elettrici che sicuramente
superano, quanto a violenza ed intensità, molte delle estrinsecazioni più
estreme del metal. Prendete un album qualsiasi dei Neurosis (che so, anche quel
“Through Silver in Blood” che ci siamo degnati di analizzare in queste
pagine)… cos’è la musica dei Neurosis se non: distorsioni tremende, rutilanti
percussioni, urla stridenti di derivazione hardcore e tutto quello che ci siamo
dilungati a descrivere? Torno dunque al punto 1: chiamatelo metal o Antonio
o Gerardo o Sbirulino, ma questa musica rimane un gran bel bordello.
E’
interessante, a questo punto, individuare i punti di contatto fra quanto appena
descritto e quel cantautorato minimale che ci viene offerto dal solo Steve Von
Till.
Formalmente
parlando, le zone di intersezione non sono molte: il cantautorato di Von Till
guarda ai classici della tradizione folk americana, sicuramente a Johnny
Cash (che è il primo nome che viene in mente), ma anche ad uno stuolo di
artisti più o meno conosciuti (Townes Van Zandt, per esempio, che è
stato oggetto di un bell’album-tributo di qualche anno fa, che vedeva
protagonisti lo stesso Von Till, il compare Scott Kelly (che fra l’altro
coltiva una carriera solista molto simile a quella del collega) e l’inaffondabile
Wino. Pertanto un cantautorato epico, visionario, dalle forti tinte
country che si sviluppa sui binari di chitarra acustica/voce. Una
voce che, per quanto roca e grattante (ricorda non poco le ugole al vetriolo di
Mark Lanegan e Tom Waits), non ha niente a che vedere con quei
vocalizzi disumani che sono il perfetto complemento alle bordate sonore di casa
Neurosis. Di elettricità, salvo sporadiche eccezioni, manco se ne parla.
Batteria, ritmi tribali: men che zero. Al massimo qualche ricamo di
chitarra slide e la sporcizia sottocutanea di striscianti droni.
Quello
che invece colpisce è la coerenza concettuale che unisce due universi così
apparentemente distanti. L’elettricità degli accordi imponenti si stempera
nello stanco reiterare di note appena accennate di chitarra acustica; le urla-lacera-tonsille
in un latrato sommesso e sconsolato: ma il mood apocalittico, il sapore
arcaico, l’evocazione delle sempiterne afflizioni dell’essere umano innanzi al
collasso del suo mondo, in pratica tutto il logoro immaginario dei Neurosis,
continuano a vibrare nelle ballate oscure di questo cowboy che si approssima
mestamente alla sua ultima frontiera: la Fine.
Von
Till ci incuriosì dunque con un esordio semplice ed efficace come “As the
Crow Flies” (2000); ci ha poi stupito per la costanza e la raffinata
maturità espresse in lavori eccelsi come “If I Should Fall to the Field”
(2002) e “A Grave is a Grim Horse” (2008). E continua a deliziarci con
il suo ultimo lavoro, rilasciato proprio quest’anno, che porta il nome di “A
Life Unto Itself” (2015). Tutta la carriera solista di Steve Von Till
merita di essere acquistata, ascoltata, approfondita. Al neofita, però, ci
sentiamo di consigliare “A Life Unto Itself” non perché sia necessariamente il capitolo
migliore della saga, ma perché in esso il buon Von Till fa un piccolo passo
indietro, che per il metallaro medio significa un passo avanti (ed è a questo
pubblico che noi ci rivolgiamo). Mi spiego: laddove agli inizi della sua
carriera solista Von Till aveva bisogno di tracciare una netta linea divisoria
fra quello che combinava nei Neurosis e quello che architettava per conto
proprio (anche solo per una questione prettamente identitaria), oggi, con una
maggiore padronanza dei propri mezzi espressivi, il Von Till cantautore
è tanto maturo che può permettersi di riappropriarsi di qualche elemento della
propria visione artistica, senza rinnegare il percorso intrapreso, ma
anzi integrandolo con nuove sfumature e rendendolo quindi più ricco e personale.
Del
resto nel metal è frequente: avete presente il celeberrimo Dottor Stranamore
(quello della pellicola di Stanley Kubrick, impersonato da Peter
Sellers) che di tanto in tanto gli scappa il braccetto teso a mo’ di saluto
nazista sebbene si sforzi di non apparire quello che è (ossia un nazista)?
Ebbene, la stessa cosa capita al metallaro che smette di essere metallaro:
all’inizio è animato da buone intenzioni, sta buono, poi l’attenzione cala e
TAC!, ecco che ci scappa di nuovo la chitarra elettrica!
E
così accade più volte nell’ultimo lavoro di Von Till: la vocazione cantautrice
viene “sporcata” da sporadiche spennellate di chitarra distorta, da
oscure meditazioni ambient e persino da inquietanti rituali/mantra
canori che fanno parte del bagaglio espressivo che il Nostro ha avuto modo di
maturare non solo in seno ai Neurosis, ma anche in altri progetti quali Tribes
of Neurot e Harvestman. L’ossatura, ripeto, rimane composta da una
chitarra acustica goffamente strimpellata da manoni callosi da zappatore
di campo e da una vociaccia da contadinone stitico.
In
“A Life Unto Itself”, in realtà, si toccano vette artistiche che sono veramente
eloquenti per quanto riguarda il tema che stiamo toccando. Che poi sarebbe: il
metal è solo rumore, suonato da ignoranti ed incompetenti? Toh: ascoltati
questo e ricrediti! Ci vuole però cultura musicale anche per ascoltare la roba
solista di Steve Von Till, che non è che sia robetta agile agile. Punti
deboli: 1) seppur non perduri molto (circa tre quarti d’ora) l’album può
seriamente sfondare le palle; 2) la voce di Von Till è terribilmente monotona;
3) i ritornelli arrancano, spesso si fa fatica a sopportare un passaggio da
strofa e ritornello, a volte la reiterata riproposizione dei medesimi accordi
di chitarra fa venire il latte alle ginocchia. Beninteso: niente peggio di
quanto combinato da altri cantautori minimalisti iper-blasonati: un nome
su tutti, il Mark Kozelek dei Sun Kil Moon.
Punti
di forza: Steve Von Till è l’unico fra i grezzoni di tutto il mondo metal/para-metal
che possa vantare una sensibilità da autentico cantautore. La sua voce è
monocorde, ma spaventevolmente espressiva; i suoi brani semplici, ma pregni di
atmosfera, pathos ed efficaci come devono essere, del resto, i frutti del folk-cantautorato
americano che nasce dal blues derelitto dei neri zappatori di campi, o
raccoglitori di cotone, o costruttori di linee ferroviarie sotto il sole
cocente. E’ la polvere, il fieno delle balle nei campi, la merda dell’America
rurale che si respira nella musica di Von Till. Sincero, genuino, paroliere
criptico e visionario, artista capace di rivaleggiare con i grandi del cantautorato
contemporaneo.
E
con in più una capacità di “scavo interiore” che molti altri non possono avere
perché non provenienti dalle aspre profondità delle miniere metallifere:
passaggi ambient da brivido, slanci di viola e violino che evocano un folk ancestrale
che fa accapponare la pelle. E poi quel rantolo tenebroso che si fa veicolo di
messaggi di uno sconforto assoluto. Il coraggio di spingersi oltre, ancora più
sotto, picchiando duro con il piccone esistenziale forgiato fra
l’incudine e il martello della devastante poetica apocalittica dei Neurosis: il
cantautorato come specchio gentile della musica brutale del post-harcore o del
post-metal che dir si voglia. Ecco cosa manca ai semplici cantautori, nati e
cresciuti a pane e Nick Drake, e che invece possiedono questi reduci
malconci dalle trincee putride del metallo.