25 ott 2015

RECENSIONE "THE BOOK OF SOULS" - Un nuovo, vecchio pachiderma per amico



E allora affrontiamolo e andiamo a conoscerlo questo elefante!

Premesso che la copertina a me piace da matti con l'Eddie in versione Maya, il primo “barrito” mi lascia piacevolmente sorpreso: l’opener “If Eternity Should Fail”, brano interamente scritto da Bruce, si rivelerà uno dei pezzi migliori del lotto. Ottimo sia negli evocativi intro e outro, sia nella sinuosità centrale dove si passa da mid-tempos a parti accelerate. Il ritornello non è il massimo, ma che ormai gli Iron non centrino pienamente i chorus lo sappiamo da circa vent’anni…comunque: benone così e andiamo avanti (facendo un po’ di violenza su me stesso visto che detesto il track-by-track, ma per l’occasione dovrò abbozzarne uno...)

A cura di Morningrise

Se “Speed of Light”, nella sua piacevole semplicità, è inserita solo per assolvere la canonica funzione di singolo ruffiano e radio-oriented (come lo furono nella Quarta Era pezzi banalotti come “The Wicker Man”, “Wildest Dream” e “Different world”), le difficoltà e le arrabbiature per il sottoscritto iniziano con “The Great Unknown”. Questo è un pezzo più che buono che ricalca il consueto schema che abbiamo descritto ma, come accadrà altre volte nel corso del platter (soprattutto nella seconda metà, ma anche già nella prima con “When the River Runs Deep”) presenta delle fastidiose e inutili parti di tastiera, totalmente moleste per la riuscita complessiva del brano. Steve, ma perché non ti fai una palata di “cazzi tua” e ti metti solo a suonare il basso tralasciando in fase di scrittura sta cavolo di tastiera?? Piccolo consiglio: o la usi solo e soltanto come fatto in brani che trasudano epicità (e qua vi rimando a “Blood Brothers”), oppure lascia stare!!!

Ma probabilmente il pezzo che esemplifica al meglio le “gioie e i dolori” degli ultimi 10 anni della band è “The Red and the Black”: ha un inizio in stile “The X Factor” (mi ricorda la cupissima “Blood on the World’s Hands”) e già questo per me è un elemento positivo, salvo poi partire con una strofa cavalcante che sfocia in degli “ooh oooh oooohh” di trooperiana memoria che non so se interpretare come auto-citazionismo ironico oppure inserto serio, ma di fatto l’effetto non è minimamente trascinante, bensì irritante. E' invece spettacolare la sezione musicale centrale, dinamica, piena zeppa di cambi di ritmo in cui assolo e passaggi melodici si susseguono uno dietro l’altro facendo godere non poco le orecchie. E’ la song tipica dei nuovi Iron: questo approccio classico, ma al cubo, simil-progressive, che rimescola, dilatandoli, tutte le loro peculiarità dalla reunion in poi. Annoia, esalta, irrita, emoziona, spiazza, ti ci fa ritrovare…il tutto in 13 minuti di roba!

Il primo dischetto si chiude con la title track, un brano dal flavour orientaleggiante che crea un affascinante senso mistico e per una volta le tastiere sono usate a proposito riuscendo a trasportare l’ascoltatore con l’immaginazione alla civiltà Maya e ai loro antichi riti. 
E’ un brano particolare, che ti entra sottopelle piano piano, molto completo e perfettamente bilanciato tra stilemi atmosferici, altri più classicamente heavy e altri prog-à-la-iron. Vi dirò: a conti fatti è il mio brano preferito!

Ora: qua gli Iron si potevano (dovevano?!?) fermare. Attaccavano alla title track giusto “Empire of the Clouds”, sulla cui bellezza non riesco ad aggiungere una virgola su quanto scritto già mirabilmente in merito dal nostro Mementomori (ne avevo preparato una lunga descrizione ma non direbbe niente di meglio di quanto già espresso da lui), e avrebbero chiuso così alla grande. Parleremmo comunque di 68 minuti di musica!!

E invece no, cribbio. Ci piazzano altri 25 minuti di roba (i primi del CD2), che non solo appesantiscono il tutto, ma soprattutto abbassano drasticamente la qualità dell’insieme. Da “Death or Glory” (strofe convincenti che poi sfociano in un chorus banalotto) a “Shadows of the Valley” (in cui vi è il caricaturale plagio, presumo voluto, dell’intro della mitica “Wasted years”); da “Tears of a Clown” (brano più breve del lotto porta avanti un refrain orecchiabile e un chorus molto easy listening, con le solite tastiere che ce la mettono tutta per rovinare la riuscita generale del brano, che comunque rimane super-anonimo) a “The Man of Sorrows” (solita struttura con incedere lento, arpeggiato ed atmosferico, ma quando la canzone prende finalmente piede, si rimane all’interno di un mid-tempo ancora una volta senza anima, che scivola via nella noia), è tutto un di-più, un già-sentito che, secondo me, non aveva ragione d’essere e che non fa altro che fornire acqua al mulino dei detrattori dei nostri beneamini. 

E allora? Allora dopo tutte queste parole, alla fin fine sapete cosa c’è? Che questo cavolo di doppio album cresce, cresce ascolto dopo ascolto e la voglia di rimetterlo a girare sul lettore c’è. E, dopo averci pensato bene e a lungo, mi strappa, peraltro con soddisfazione, una sufficienza (non pienissima, ma...).

Perché nonostante un songwirting non ispiratissimo, nonostante la produzione di Kevin Shirley non sia brillantissima, nonostante le prolissità, nonostante che la formazione a tre chitarre non paia mai aggiungere un quid in più rispetto a quella a due, nonostante il dito vada in alcuni momenti automaticamente allo “skip”, nonostante parti di tastiera usate per la maggior parte delle volte a sproposito, nonostante le due metà dell’intero siano diseguali, nonostante la stanca secchezza del drumming di Nicko (si sentono i 63 anni, Mr. McBrain?), nonostante si abbia a tratti l’impressione di essere di fronte a un compitino travestito da compitone, nonostante tutti questi nonostante …la sensazione è proprio quella che desideravamo: sei vecchi amici che dopo tanti anni ti vengono a trovare a casa, a dirti “lo sappiamo, siamo vicini ai 60, e anzi qualcuno li ha già ampiamente superati. Ma siamo ancora qua, a suonare col cuore, a provare a farti emozionare con la nostra musica. Si, siamo invecchiati, il peso dell’età esce fuori ma..ci riconosci, vero?”.

Si, ragazzi…vi riconosciamo. E con le braccia al cielo, urliamo con le lacrime agli occhi: vi vogliamo bene!!
E ho la certezza tutto sommato che questo elefante che mi avete fatto trovare in casa avrò la voglia di tenerlo e farlo crescere assieme alla mia famiglia… UP THE IRONS! Sempre e comunque!

Voto: 6
Canzone top: “The Book of Souls
Momento top: la sezione strumentale di “The Red and the Black
Canzone flop: un brano a scelta del CD 2 (ad eccezione di “Empire of the clouds”)
Dati: 11 canzoni, 92 minuti
Anno: 2015
Etichetta: Parlophone