26 ott 2015

VIRGIN STEELE: “VENI, VIDI, VICI”




I MIGLIORI DIECI BRANI “LUNGHI” DEL METAL CLASSICO

8° CLASSIFICATO: “VENI, VIDI, VICI” (VIRGIN STEELE)

Con David DeFeis ci si alza di livello…
…ma solo perché suona le tastiere…
…e le tastiere fanno sempre comodo in un brano lungo…

Continua così, con gli impavidi Virgin Steele, la nostra maratona dedicata ai migliori brani lunghi del metal.

Se DeFeis un giorno facesse outing, non mi stupirei. Nella sua musica si può scorgere una certa dolcezza, uno strato di miele spalmato sulla scorza rugginosa del metallo (anche se l’acciaio non si ossida…nda). E poi quell'indugiare sull'anatomia maschile, l'attrazione morbosa per i fustacchioni dell'iconografia ellenica e poi romana. “Romanticismo barbarico” lo chiamano gli stessi autori: quel modo di mescolare ruvidità metallica con pacchianate neoclassiche allo zucchero filato. Senza contare quell’altezzosità aulica da prof. in pensione che continua a tediare con la storia antica i propri ex studenti che lo vanno a trovare a casa: non altro che un modo per distanziarsi dallo schiacciante e becero successo dei burini “moto, topa e spade” Manowar, con i quali, ad inizio anni ottanta, i Virgin Steele hanno praticamente dato i natali all'epic metal (ma del resto si sa, fa più clamore una scoreggia che decantar versi in latino). Uno sforzo di differenziazione che ha portato i Virgin Steele ad essere, dei Manowar, non solo la versione più sfigata, ma anche quella più raffinata, elaborata, dolce.

Dolcezza che si mescola, per quanto mi riguarda, alla tenerezza che il personaggio mi ha sempre ispirato. Se chiudo gli occhi e penso a DeFeis, mi immagino il cantante/tastierista intento a scollegare il microfono dalle tastiere per porsi in prima linea sul palco, o, viceversa, correre nuovamente dietro alle tastiere, rimettere il microfono nell’apposito supporto e riprendere a suonare e cantare. Mi son sempre chiesto: ma perché non si compra due microfoni? Con un microfono in più, posto per esempio sulla classica asta, potrebbe evitare quell’andirivieni ogni volta che intende smarcarsi dalle tastiere, che in effetti, dal vivo lo condannano ad una eccessiva staticità.

Dolcezza, tenerezza, ma anche povertà di mezzi, appunto: una povertà di mezzi che ha sempre ostacolato la piena realizzazione della sua visione artistica altresì ambiziosa. La musica dei Virgin Steele, con il tempo, si è appropriata di spunti orchestrali, sinfonici e progressivi, ma mai arrivando a delle produzioni all'altezza della situazione (non dico orchestre da ottanta elementi, ma almeno suoni di tastiera decenti, che non sembrino fatti con il tastierino trovato nell’uovo di Pasqua!). Nel pacchetto ci metto anche il buon Pursino: fido compagno di avventura da una vita (fece il suo ingresso in formazione nel lontano 1985), Edward Pursino è un chitarrista senz’altro dotato e versatile, eppure niente mi toglie dalla testa che se lo rapassimo a zero, sul suo nudo cranio troveremmo marchiata a fuoco la scritta “SERIE B”. Pursino ha scritto e suonato cose notevoli, ma non ha una vera personalità: sa fare tutto e niente, non capendo ancora se è un chitarrista hard-rock (ho sempre storto il naso innanzi alle sue improvvise virate à-la Brian May) o un chitarrista metal (nemmeno Criss Oliva l’aveva capito, ma con ben altri risultati – Dio lo benedica). Sostanzialmente Pursino fa quel che può nel cercar di accompagnare al meglio l’estro istrionico e voltagabbana di DeFeis, perennemente sospeso (musicalmente e localmente) fra il ruggito del leone e il sibilo della voce bianca.

Tutti rispettano DeFeis, io stesso rispetto DeFeis, perché sono innegabili il suo talento e la dedizione che mette nelle sue creazioni, ma alla fine neanche DeFeis è impeccabile. C’è sempre qualche dettaglio che rovina il quadro generale: un po’ come nell’aspetto di quell’agente commerciale, un po’ tarchiato e dalla fronte sudata, che indossa una giacca di una taglia superiore, una cravatta non intonata alla camicia, delle scarpe che mal si accompagnano al completo.

Eppure ci sono dei momenti in cui un album dei Virgin Steele è quell’insieme di cose che ti ci vuole, quando magari hai bisogno di tutto e il minimale ti ripugna. Ed allora ben venga l’album dei Virgin Steele che ha tutto dentro, dalle staffilate metal con ritornelli memorabili a momenti di estremo pathos; un luogo, l’album dei Virgin Steele, dove il brano tirato e semplice convive pacificamente con quello dagli sviluppi imprevedibili; dove qua è là ti puoi imbattere in un intermezzo sinfonico non richiesto, dove la power-ballad viene collocata sempre al posto giusto e dove magari c’è anche il pezzo lungo.

L’apoteosi di tutto questo è un trittico di album posti a metà carriera dei Nostri. Quando la vecchia concezione del metal classico stava tramontando, essi piazzarono sul mercato i capolavori della maturità: quei due tomi, animati da un unico concept, che portano l’altisonante nome di “The Marriage of Heaven and Hell”, part one e part two, usciti nel 1994 e nel 1995. Non pago, DeFeis decise successivamente di far uscire una terza parte, che originariamente si sarebbe dovuta chiamare “A Season in Purgatory”, e che invece venne edita con il titolo “Invictus”: un lavoro che godette, in termini di successo e popolarità, degli influssi positivi del periodo (era il 1998 ed il power viveva la sua stagione d’oro).

Una trilogia imponente (anche dal punto di vista della durata, visto che i tre album durano rispettivamente settanta, sessantasei e settantasei minuti) che culmina proprio con “Veni, Vidi, Vici”, l’ultimo brano nella scaletta di “Invictus”. Questa lunga premessa si è resa dunque necessaria per presentare questo brano: un brano a sua volta imponente (10:41 la sua durata) che porta in sé non solo il peso dell’epopea che lo precede, ma anche e soprattutto l’intera carriera della band, con tutti i suoi pregi e difetti. Tutto quello che abbiamo detto fino ad adesso, vale dunque per descrivere questo brano.

Non mi chiedete però la trama: non mi sono mai preso la briga di approfondirla, né sono riuscito a trovare in rete qualcuno che l’abbia fatto per me, a dimostrazione del fatto che tutti rispettano DeFeis, ma nessuno ha voglia di indagare su quello che scrive. Ma è comprensibile: sono sicuramente storie noiose che parlano di eroi, cavalli, battaglie, duelli, spade, divinità, e che hanno pure la presunzione di rivestire quegli stessi accadimenti con pretenziose riflessioni metafisiche (pare che il fulcro tematico di tutta la trilogia sia il sempiterno scontro fra Bene e Male, e il rapporto fra Uomo e Divinità – viva la fantasia!). Dulcis in fundo: infarcendo il tutto con dotti riferimenti alla mitologia classica, greca e romana. Del resto basta guardare la copertina: Perseo che brandisce la testa di Medusa, un’immagine che è difficilmente accostabile al Giulio Cesare che venne, vide, vinse richiamato dal titolo del brano. Del resto, quello di creare dei grandi pastrocchi è un antico vizio della band: si guardi, per esempio, l’evocazione della distruzione di Roma in “The Burning of Rome”, evento richiamato giusto per parlar d’amore, peraltro ficcandoci dentro, come se non bastasse, anche Pompei.

Perché DeFeis è raffazzonato, non buca lo schermo, è come quel tristo figuro che, ad un banchetto di matrimonio, ad un certo punto si alza in piedi per fare il discorso in onore degli sposi, un bel discorso pieno di citazioni e buoni sentimenti, ma che dopo quindici secondi inizia già ad annoiare la platea: il brusio si trasforma presto in un vocio più spazientito e i colpi di tosse si moltiplicano, fin quando, con il sollievo di tutti, succede l’evento traumatico (il bambino di tre anni che casca dalla sedia fracassandosi il cranio, il nonno che scoreggia, l’ubriaco che dal fondo della tavola grida con voce impastata EVVIVA GLI SPOSI), il fatto che interrompe il discorso sul nascere e riporta tutti a godersi liberamente la festa. Senza rancore per DeFeis, a cui tutti vogliono bene e che tutti rispettano.

Questo per dire, insomma, che non ci siamo interessati dell’aspetto lirico della questione, mentre musicalmente “Veni,Vidi,Viciè una bomba. Essa, nei suoi dieci minuti, conserva il formato canzone (con ricche guarnizioni all’inizio, in mezzo ed alla fine), mantenendo l’adrenalina e i toni da stadio di un brano anthemico di soli quattro. Apertura con arpeggio e coretti di DeFeis (già, dobbiamo ricordare che la specialità del DeFeis cantante è quella di alternare digrignanti tonalità basse a falsetti sibilanti), e poi subito chitarre maidiane, ritmi martellanti ed andamento cavalcante. Seguirà un baccanale di cambi di tempo e passaggi barocchi, il tutto condotto da doppia-cassa sparata a tremila. Ed ancora: strofe masticate a denti stretti, urla raschianti, ululati da lupo castrato, bridge, contro-bridge e il ritornelloneWE CAME, WE SAW, WE CONQUERED YOU ALL”, in quel tuttomusicale che è la musica dei Virgin Steele.

Un tuttomusicale che sfoggia ruggente hard-rock, fiero epic-metal, power-metal galoppante, progressive sinfonico, arie classiche. In esso, dunque, troviamo Puccini, Verdi, Uriah Heep, Rainbow, Genesis, Queen, Savatage, Iron Maiden, Manowar. La macchina corre spedita e non si ferma un momento, supportata da una sezione ritmica in forma smagliante (Rob DeMarino al basso e Frank Gilchriest alla batteria) e in un attimo, il tempo di qualche assolo e diverse divagazioni sinfoniche (fra cui un rallentamento strappalacrime nel quale viene ripreso il tema portante dell’intera trilogia), siamo già all’ottavo minuto. Da qui in poi i Nostri iniziano a pompare nuovamente il ritornellone con le mille variazioni del caso, una fase in cui è lecito ributtare tutto dentro ancora una volta: assolo trascinanti, stesse frasi ripetute all’infinito, urli, schiamazzi, gridolini, nuovamente il tema del concept, fino al finale iper-trionfale, con tanto di applausi di finto pubblico, trombette liofilizzate e falsetti sciorinati manco se al posto di DeFeis ci fosse stata Whitney Houston!
     
Ma tornando alla metafora del matrimonio (che fra l’altro calza a pennello con il concept, visto che proprio di matrimonio fra Paradiso ed Inferno si parla), i Virgin Steele, e quindi i loro album, e dunque “Veni, Vidi, Vici”, rispecchiano la ricchezza di emozioni, belle o meno belle, che si possono provare durante la lunga giornata di un matrimonio a cui siamo invitati: quantità spropositate di cibo, alcool di variabile qualità, gente vestita bene, gente vestita male, fiche con tacchi a spillo vertiginosi, fresconi con coccarda al taschino, nonni rincoglioniti, nipoti starnazzanti, ilarità, noia, esaltazione, indignazione, corteggiamenti sfrenati se si è single, ubriacature colossali se si è con gli amici.

E chissà se, fra un discorso prolisso e un flirt da gentiluomo con la vecchia zia che non si fila nessuno, DeFeis non sia proprio quell’invitato che ritroverete nel bagno “incastrato” dietro alla sposa…o dietro allo sposo, fate voi…