I
MIGLIORI DIECI BRANI “LUNGHI” DEL METAL CLASSICO
7° CLASSIFICATO: “AND THEN THERE WAS SILENCE” (BLIND GUARDIAN)
C'è un uomo che si accascia esausto sul ripiano della toeletta
del suo camerino. I suoni ovattati di un'orchestra echeggiano ancora al di là della
porta, poi tutto si ferma ed esplodono gli applausi del pubblico in delirio.
L'uomo, incurante, si sfila dalla testa la lunga parrucca bionda e la posa
accuratamente innanzi a sé. Si mette le mani fra i capelli unti, fissando con
gli occhi vacui la sua immagine riflessa allo specchio. Si chiede cosa sia
andato storto, si guarda le dita fasciate di anelli, il mascara colato sugli
occhi: si sente perduto. Quell'uomo è Hansi Kursch.
Anno 2002: esce “A Night at the Opera”, un
vero spartiacque nella carriera dei Bardi di Krefeld. I Blind
Guardian prima di quell’album furono una band straordinaria da cui
aspettarsi ogni volta qualcosa di sensazionale. Dopo quell’album, essi divennero
degli artisti onesti da cui attendersi niente più che il consueto buon disco.
Come ultima traccia di quell’album troviamo la lunghissima “And Then There
Was Silence” (dalla durata mastodontica di 14:05): il pezzo più
controverso dell’album più controverso di Kursch & soci. Continua così la
nostra panoramica sui migliori brani lunghi nel metal.
Nel documentarmi per scrivere questo post ho passato in
rassegna le maggiori testate metal online e ho constatato con stupore il
divario di opinioni che ha suscitato “And Then There Was Silence”,
giudicata da molti come una prova superlativa e da altri come un episodio poco
convincente. A chi dare retta? Sostenitori o detrattori? Capolavoro assoluto o
fuoco fatuo?
Un punto fermo è che la carriera dei Blind Guardian, dalle
origini fino a “Nightfall in Middle-Earth” (come descritto qui anche dal
nostro blog), è stato un percorso in crescendo. Certo, vi sarà chi avrà
preferito la ruvida genuinità di un “Somewhere Far Beyond” e chi
l’equilibrio formale del solido “Imaginations from the Other Side”, ma
ciò non toglie che “Nightfall in the Middle-Earth” sia un’opera grandiosa da
tutti i punti di vista. Forse un po’ manierista, sicuramente leziosa nel troppo
indugiare sui ricami rispetto alla “polpa”, che comunque c’era. Si sentiva che
i Blind erano alle ultime cartucce, ma lo slancio e la convinzione erano tali
che l’effetto ottico funzionò alla grande e noi tutti (tranne qualche
irriducibile purista) fummo contenti di cadere preda dell’incantesimo dei
quattro Bardi.
Cosa che non si può dire del successivo “A Night at the
Opera”, che secondo il parere di tutti tirò troppo la corda sul fronte dei
fronzoli. Va bene tutto, ma la pomposità, la spinta operistica, la complessità orchestrale
divennero un corpo troppo ingombrante che occupò impunemente lo spazio che fino
ad allora era stato riservato ad un ospite d’onore nella musica dei Blind
Guardian: il cuore. Quel cuore verace, renano, che già abbiamo avuto
modo di incontrare anche qui su Metal Mirror.
Per questo all’inizio di questo nostro scritto ci siamo
dilettati a dipingere il povero Kursch come un uomo perduto, prigioniero di
un’evoluzione che lo ha portato via dalla sua natura. Kursch è una persona
semplice e fondamentalmente buona. Se mi trovassi un giorno nella vera merda,
sdraiato e sanguinante sull’asfalto, vorrei che a raccattarmi fosse proprio il
buon Kursch con la tutina celeste della Misericordia. Kursch, uno che probabilmente
ogni tre mesi prende il giovedì libero per andare a donare il sangue. Uno che
il sabato mattina se ne va al canile a fare volontariato. Uno che, infine, mi
commuoverei, il giorno del mio matrimonio, vedermelo di fianco al posto del
testimone, impacciato ed impettito nel completo troppo stretto. Riascoltare,
come esercizio mentale, “The Bard’s Song: In the Forest” (poco più di
tre minuti in cui la sola chitarra acustica accompagnava la raucedine del buon
Hansi), ci dà il senso della misura: quanto cuore, quanto sentimento in quei
tre minuti. E che vuoto, che immenso vuoto, dietro ai quattordici di “And
Then There Was Silence”.
Nel metal il “pezzo lungo” spesso è la carta “da ultima
spiaggia” che viene giocata quando una band inizia ad accusare il primo calo di
ispirazione. Della serie: Avemo dato er mejo, tutto quello che potevamo fa’
l’’amo fatto, e mo’ che ce ‘nventamo? Famo un pezzo lungo, no? Se ci
pensate questo ragionamento è un vero controsenso: concepire, scrivere e
realizzare un brano di estesa durata è una sfida più tosta della normale
canzone. Andrebbe dunque compiuta, questa impresa, al top
dell’ispirazione (come appunto fecero i Rush, che raggiunsero successo e
consacrazione proprio con “2112”),
non quando si è oramai stanchi e con il fiato corto. Eppure nel metal (ma
quanto voglio bene al metal!) questo capita molto spesso. L’abbiamo visto
anche con i Manowar.
“And Then There Was Silence”, come se non bastasse, è una
lunga canzone che arriva alla fine di un lungo album (settanta minuti la sua
durata complessiva!). Li capisco, eccome se li capisco, coloro che dicono di trovarla
prolissa e pretenziosa: ascoltarla dopo essersi sorbiti tutto l’album è come vedere
un film di Tarkovskij dopo una maratona dedicata ad Antonioni. Bello,
bellissimo, ma che due coglioni…
Il nostro dovere è però andare oltre le facili conclusioni.
Pertanto ci sentiamo di affermare che tagliata fuori dal suo contesto “And Then
There Was Silence” (che fra l’altro è uscita autonomamente come singolo, e
forse proprio questa è la dimensione ideale per poterla apprezzare appieno) è
veramente una grande canzone. Continuo ad utilizzare il termine canzone
non del tutto impropriamente, dato che la traccia, nella sua complessità,
mantiene con le unghie e con i denti uno schema con ritornello, se ovviamente
vogliamo chiudere gli occhi innanzi a tutte le guarnizioni che stanno intorno a
questi elementi tipici del formato strafo/ritornello. La complessità del brano non
sta quindi nella sua strutturazione (non è una suite), bensì
nella sua stratificazione. Chi era rimasto perplesso innanzi alle sfarzose
architetture sonore che avevano dato corpo a “Nightfall in Middle-Earth”
sicuramente non gioirà innanzi alla boriosità di questo brano. Esso non
vive infatti di un vero e proprio climax (cosa che potremmo del resto aspettarci
da una band che intitola il proprio album Una Notte all’Opera), ma suona
alquanto piatto, appesantito in ogni sua mossa da strati e strati ed ancora
strati di cori ed orchestrazioni che vanno a seppellire l’impianto metal,
parecchio elaborato anch’esso.
Esiste in letteratura una corrente che si chiama realismo
isterico, che vede fra le sue caratteristiche principali la lunghezza dello
scritto e frequenti digressioni su aspetti secondari rispetto alla storia
principale, che c'è, ma che viene a ricoprire un ruolo secondario (per chi
fosse interessato, gli autori di riferimento sono Don DeLillo, Thomas
Pynchon, David Foster Wallace e Jonathan Franzen). Conoscendo
il suo amore per il fantasy, escludo che il buon Kursch sia un
fan degli scrittori sopra citati, ma il modo in cui lui e la sua banda hanno
costruito il brano in questione è molto simile a quanto descritto dalla penna
di un Pynchon o di un Wallace.
I Blind Guardian non hanno velleità progressive né
concettuali, ma operano per accumulo di elementi. Lo stesso concept lirico
procede buttando parole a palate, tanto che, ad uno sguardo distratto,
non è ben chiaro cosa in esso si voglia argomentare: si va sicuramente a parare
dalle parti dell'Eneide e dell'Iliade, sono infatti tirate in
ballo sia Roma che Troia, anche se non si capisce bene con che logica (pare in
realtà che una logica vi sia e che il brano parli degli ultimi giorni di Troia
secondo la profezia di Cassandra). Se questo è il tema trattato, fa comunque sorridere
il perseverare della band su certe atmosfere crucco-fantasy ed in
particolare sui cori da Oktoberfest (che per esempio imperversano poco
dopo lo scoccar del decimo minuto). E' chiaro che elementi del genere sono
talmente radicati nel DNA dei tedeschi che non ci stupiamo a ritrovarceli un
po’ ovunque, ma concedete che sia almeno lecito sorridere al pensiero di
parlare di mitologia greco-romana in questi termini.
Mi permetto di citare Vittorio Sgarbi che una volta osò
descrivere Mike Bongiorno come un salame: “Ovunque lo tagli, è uguale”.
Così ci sembra il brano dei Blind Guardian, che parte con orchestrazioni a
tutta gargana e così si trascina fino alla fine. No, per quanto i Blind
Guardian guardino ai Queen, “And Then There Was Silence” non è la loro “Bohemian
Rhapsody”: quello sì che era un brano ben strutturato, equilibrato, che nei
suoi sei minuti mostrava un senso compiuto, nascendo come ballad, accelerando,
sfoggiando poi il leggendario intermezzo operistico, esplodendo con le schitarratone
di May ed infine tornando ballad per chiudere il cerchio. No, qui tutto
è affogato in un miliardo di cambi di tempo, riff, armonie, saliscendi
continui. Il momento di calma orchestrale registrato al terzo minuto (ottima,
in quel frangente, l’interpretazione ricca di pathos di Kursch) è dunque
solamente un falso allarme.
Tutti esprimono il massimo in ogni singolo passaggio e c’è
da dire che l’ensemble tecnicamente si muove a livelli altissimi. Kursch
perde il suo proverbiale ruggito e si sforza come un dannato di risultare
intonato, spesso sovra-incidendosi ed allestendo cori polifonici. Le lezioni di
canto si fanno sentire ed a tratti sa convincere anche in questa raffinata
veste. André Olbrich e Marcus Siepen continuano a tessere la loro
intricata matassa chitarristica, in cui ritmiche e linee melodiche si
confondono continuamente (si avvista comunque una specie di assolo al nono
minuto!). Da applausi, infine, la prestazione dietro alle pelli di Thomas
“Thomen” Stauch, indubbiamente uno dei migliori nel suo campo: sarà un
peccato perderlo proprio al termine delle registrazioni di “A Night at the
Opera”, d’altra parte non fatichiamo ad immaginarci la scena in cui il buon batterista
saluta i suoi ex compagni e se ne va (“a rega',, me so rotto li cojoni,
andatevela a pià ner culo voi e l'opera!”).
Proprio con la figura del buon Stauch che, zaino in spalla,
si avvia lungo il viale che riporta all'heavy metal (tornerà all'ovile di un
power canonico con i Savage Circus), concludiamo la nostra storia: il paradosso
dei Blind Guardian è che hanno incarnato per un periodo il miglior metal
possibile, ma, avendo probabilmente venduto l'anima al Diavolo, hanno poi dovuto
scontare il prezzo del successo snaturandosi e rimanendo schiacciati sotto il
peso delle proprie ambizioni.
In quanto estimatori del metal più genuino ed emozionante, noi
di Metal Mirror ci sentiamo di affermare che sono probabilmente più pregni di
significato i tre minuti di “The Bard's Song” che il quasi quarto d'ora di
questo brano, che, a voler essere cattivi, potremmo descrivere come un sontuoso
involucro senza cuore. Ma nonostante questo “And Then There Was Silence” rimane
un monumento musicale senza eguali, testimone di un metal che, almeno da
un punto di vista formale, si eleva ad altitudini inusitate: un’impresa di
sicuro non alla portata di tutti. E per questo, che vi piaccia o meno, “And
Then There Was Silence” diviene degna di presenziare nella nostra classifica.