30 ott 2015

2005-2015: DIECI ANNI SENZA QUEL "PORCELLINO" VISIONARIO


Recentemente, nelle mie giornaliere elucubrazioni metalliche, ho fatto questo pensiero: presumo che, tendenzialmente, ogni appassionato di musica divida i gruppi/artisti in tre grandi categorie: quelli che apprezza/ama, quelli che detesta/non gli piacciono e quelli che gli stanno indifferenti o piacciono “così così”.

Comincio con questa lapalissiana cagata semplicemente per dire che, personalmente e in relazione al Mondo Metal, a queste tre macro-categorie aggiungo una quarta. Cui appartengono quelle band di cui non posso che constatare, e quindi riconoscere, grandezza, classe e originalità. 
Ma che non hanno la caratteristica di smuovermi le budella, di farmi “vibrare”. Insomma: non mi emozionano. E quindi solo rarissimamente, e neppure con grande entusiasmo, ne riascolto la discografia.

Tra queste, l’esempio per il sottoscritto più macroscopico sono i Voivod.

A cura di Morningrise

Ne parlo perché quest’estate è ricorso il decimo anniversario della scomparsa di Denis “Piggy” D’Amour, storico chitarrista della band del Quebec, portato via nel giro di poche settimane da uno dei più terribili dei tumori, quello al colon, che raramente concede scampo.

Premesso che per parlare diffusamente e con precisione della band canadese bisognerebbe scrivere una piccola enciclopedia dedicata, vi dico subito che io i Voivod non li capisco. Non li ho mai capiti. Cos’è ‘sta storia del Voivod, sorta di divinità vampiresca partorita dalla mente, evidentemente alquanto malata, del batterista Michel Langevin, in arte Away? Come si fa a star dietro alle sue avventure e ai suoi viaggi? E poi queste tematiche post-apocalittiche e/o post-nucleari in salsa futuristico-spaziale cosa davvero rappresentano?

Se poi proprio ci si vuole estraniare dai fil rouge lirici che collegano le diverse produzioni discografiche della band (il che vorrebbe dire perdere molto del contenuto sostanziale della proposta del quartetto ma forse mantenere un sano equilibrio mentale), non si ha molta fortuna in più se ci si sofferma "solo" sulla colonna sonora che li accompagna...Technical Thrash, approccio punkettaro (soprattutto nelle prime produzioni e nell’uso delle vocals del grande Denis Bélanger, in arte Snake), psichedelia come se piovesse, dissonanze e tempi dispari, acidi assolo, fraseggi jazzistici, stop-and-go spiazzanti e chi più ne ha più ne metta.

Se a tutto questo ci aggiungiamo la formazione classica dello stesso Piggy, particolarmente riscontrabile nel songwriting  di molti album, allora si potrà capire come affrontare l’ascolto di un disco dei Voivod sia impresa più che ardua.

Insomma, io i Voivod cerco di non ascoltarli! E se ogni tanto non resisto, vado direttamente alla loro produzione della seconda metà degli anni ottanta (per quanto anche quella anni '90 non sia per nulla male, anzi!), quando fecero uscire un trittico di album pazzeschi: “Killing Technology” (1987) e “Dimension Hatross” (1988) sono due full-lenght assolutamente devastanti, sia concettualmente che musicalmente.

Ma poi c’è “Nothingface” (1989).

E’ difficile spiegarlo ma nessuno mi può togliere dalla testa che “Nothingface” sia uno dei dieci album più importanti e rappresentativi del Metal anni ottanta. Ma del Metal tutto intendo, non di un singolo genere metallico! 
Ma se mi si chiede il perché, la mia risposta è…boh!! Non ne ho idea! L’ho ascoltato a più non posso, lo riascolto tutt’oggi e continua a essere per il sottoscritto un oggetto misterioso. Non ci capisco nulla. So solo che è incredibile, che ad ogni ascolto ti rivela mille nuove sfaccettature (prerogativa dei Grandi...). E che dentro ci ritrovi, in un continuo ossimoro sonoro, tutta la Musica del mondo (perdonatemi l’iperbole, ma giusto per rendere l’idea): dai Rush ai Motorhead, dai King Crimson agli Slayer, dai Pink Floyd ai Discharge, dai Deep Purple ai Venom, dai grandi compositori della Musica Classica ai Celtic Frost. Impossibile direte? No, con i Voivod si può e in particolare si può con “Nothingface”! 
Ad eccezione dell’opener “The Unknown Knows” (l’unica song un po’ più “abbordabile” da un ascoltatore occasionale), brano di una bellezza indicibile, e della superba cover di "Astronomy Domine" dei Pink Floyd, tutte le altre tracce sono piccole catastrofi psico-metalliche, flussi incontrollabili privi di qualsivoglia struttura o formato. Non vi troverete ritornelli da canticchiare o anthem da urlare a squarciagola, ma solo cibernetiche staffilate musicali che fanno disorientare al primo ascolto come al centesimo. Tanto da poterci immedesimare negli ultimi versi di "Sub-Effect", pezzo conclusivo del disco: Troppo tardi per l'S.O.S. [...] / Nessuna ricerca, nessun salvataggio / Mi sono incagliato, sono differente / L'errore è perfetto / come un sub-effetto della mia mente 
Facile no? Giusto per capire di cosa parliamo (e soprattutto di cosa parlano!).

Poi penso che con tutta la visionarietà e l’immaginazione possibile, ogni artista vada a pescare anche dalla realtà quotidiana in cui è immerso. E allora provo a interpretare, o meglio a farmi la mia idea del "Mondo-Voivod": quegli ipercubi, quegli specchi a raggi x, quelle architetture aliene di lovecraftiana memoria, quei mondi robotizzati, potrebbero non essere altro che la rappresentazione della nostra società e delle nostre città alienanti, e nel loro caso specifico le grandi metropoli del Nord-America (Montreal e Quebec City in primis); non-luoghi da cui fuggire con l’estro e la fantasia e in cui sublimare traumi, esperienze e sogni. Ma anche il proprio amore per la fantascienza, lo spazio e l’astronomia. Tutti elementi che riscontriamo costantemente nella produzione voivodiana.

Il loro problema, per sfondare davvero sul mercato, è stato probabilmente il fatto di essere avanti anni luce rispetto al resto della concorrenza. Troppo semplici&complessi assieme, troppo visionari e al contempo troppo brutali e a-commerciali. E poi tutte le sfighe collegate a problemi personali, l’incidente stradale quasi mortale che coinvolse il nuovo cantante Eric Forrest, litigi con le case discografiche (ne cambiarono 5 in nei primi 15 anni), l’impossibilità di andare in tournée in Europa per molto tempo…e nonostante tutte queste disavventure sono ancora qua, a deliziarci e straniarci con i loro paradossi metallici. Che grandi!

E allora riposa in pace, caro Piggy. La tua chitarra ha regalato alla nostra amata musica parti indelebili. 
E Metal Mirror, nel suo piccolo, vuole omaggiarle col tuo ricordo.