22 nov 2015

L'EVOLUZIONE AL CONTRARIO DEI BACHI DA PIETRA




Bachi da Pietra, blues dal sottosuolo di un’Italia indipendente alla ricerca di “altri suoni”: perché Metal Mirror ha deciso di occuparsene? Perché il loro ultimo lavoro, “Necroide”, esprime in maniera esemplificativa un processo di “metalizzazione” che di recente ha investito diverse frange del rock.

I Bachi da Pietra hanno origine come esperienza collaterale alle carriere già avviate di Giovanni Succi (già protagonista nel rock cantautoriale dei Madrigali Magri) e Bruno Dorella (ex Wolfango e attivo in Ronin ed OVO). L'uno alla chitarra ed alla voce, l'altro alla batteria, danno vita a questo loro nuovo progetto nell’anno 2004: i Bachi da Pietra nascono così all'insegna di suoni ruvidi ed analogici, e di un blues scarno ed essenziale. La voce di Succi è greve e sussurrata, i suoni striscianti, il tutto farebbe pensare all'ennesima incarnazione più o meno necessaria della scena alternativa italiana.

L’idea riscuoterà pareri positivi tanto da parte della critica quanto del pubblico, cosicché con il trascorrere degli anni l'esperienza tenderà a consolidarsi, assumendo i contorni di un’entità stabile nel panorama del rock alternativo tricolore. Per quanto riguarda i primi quattro album il percorso del duo si rivelerà abbastanza lineare (dalla formula minimale degli esordi si passerà progressivamente a forme più elaborate e ricche di sfaccettature). Con “Quintale”, loro quinto album rilasciato nel 2013, qualcosa cambierà: i suoni diverranno di colpo più corposi, la voce di Succi da roca si farà cavernosa, il loro peculiare blues ancora più sporco e pesante. L’irresistibile “Paolo il Tarlo”, sabbathiana fino al midollo, è forse la migliore rappresentazione di questi nuovi Bachi da Pietra in salsa stoner. Se nell’iper-blues frastornante di “Haiti” sembrerà di udire un Tom Waits sepolcrale ricoperto da un fiume melmoso di feedback e distorsioni, in “Coleotteri” o nella parte centrale di “Sangue”, i Bachi oseranno addentrarsi, senza tante seghe, in territori thrash-metal tout-court.

Quello che però in “Quintale” era stata una velata minaccia, con “Necroide” diviene truce realtà. Anzitutto il titolo, che richiama indirettamente la morte di Jeff Hanneman (affetto da fascite necrotizzante per via del morso di un ragno: un proclama, un programma). Ma non c’è bisogno di scavare troppo fra i significati sottintesi. L'opener dell'album parla chiaro: “Black Metal il mio folk” è il suo titolo. E non si tratta solo di uno slogan altisonante: il raschiante recitato di Succi diventa growl tonante e la distorsione della chitarra (pesantissima) guarda direttamente alle cantine norvegesi.

Salvo i primi secondi di ruvido palm muting, la canzone si muove con un passo lento e cadenzato, ma spietato nel suo incedere, che ci può ricordare, per il groove, “Roots Bloody Roots” dei Sepultura. Ma i brasiliani sono solo un’influenza fra le altre nel miscuglione operato dal duo: per Succi e Dorella black metal non significa Darkthrone, Mayhem e Burzum (non dobbiamo aspettarci queste sottigliezze). Essi semmai hanno di questa etichetta una visione arcaica, originaria, proprio di chi si è formato negli anni ottanta ed è stato testimone dello svilupparsi di quel Metal del Male (Venom, Slayer, Celtic Frost, primi Sepultura appunto) che viene continuamente evocato dal frastuono dissonante dei riff in tremolo.

Black Metal il mio folk, difendi il nome del rock’n’roll” è il ritornello che viene ripetuto come un mantra (anche con la variante “combatti nel nome del rock’n’roll”) e che, non senza ironia, è la dichiarazione di intenti della band: il recupero di un bagaglio esperienziale e culturale che è stato il metal agli inizi degli anni ottanta, uno sguardo nostalgico rivolto ad un passato irrecuperabile. “Erano bei tempi semplici e li chiamavi cupi e catastrofici”: il concetto sembra essere si stava meglio quando si stava peggio, ma non si tratta solo di musica. Alla luce degli attentati terroristici dei giorni scorsi a Parigi, è ancor più chiaro quale sia il messaggio dei Bachi:

Stirpe viziata
da uno scherzo del caso,
hai tenuto settant’anni
questo spettro lontano,
ma anche il caso ha una sua ironia
e una cupa catastrofe
ora sai cosa sia.
Ora hai l’inferno in faccia,
non più lontana e straniera,
ora hai l’apocalisse in piazza,
hai avuto la tua guerra vera.
Ora è la tua terra
quella che si strazia,
ora è la tua casa
quella che si devasta,
ora è la tua gente quella si falcia
ora è la tua testa quella che si taglia.”

Seguirà un’accelerazione (anche quella molto sepulturiana) che va ad accompagnare il testo nella sua escalation di violenza, o di “brutalità, aberrazione, morte”, se si vuole utilizzare le parole di Succi. Quindi non solo goliardia, ma anche apocalittica visione del mondo (quella di un Occidente “viziato” che, dopo settant’anni di pace, riscopre di colpo il terrore e le barbarie della guerra): uno scenario che solo il metal poteva delineare efficacemente. I Bachi non si limitano più a giocare con i distorsori e a rincrudire ed enfatizzare del sano e semplice rock'n'roll: il brano di per sé è clamoroso e può provocare più di un brivido lungo la schiena del metallaro più ortodosso.

C’è infine un’altra valenza che vorrei conferire al titolo del brano: se la maturità artistica, nel senso comune, passa necessariamente da un ammorbidimento dei suoni (dal rock al cantautorato), se per sentirsi “profondi” bisogna suonare folk (il folk impegnato di Bob Dylan, il folk introspettivo di Sun Kil Moon, il folk freakettone degli Akron/Family), allora, dicono i Bachi, vi sbattiamo in faccia il black-metal, il nostro folk: questo è il luogo da cui veniamo e questo è il luogo in cui torniamo con la vecchiaia. Una vecchiaia sincera che non cede più a vuoti intellettualismi. Troppe evoluzioni di artisti, più o meno grandi, sono state deformate da questa falsa coscienza, quest’idea che per essere grandi bisogna fare i grandi, gli adulti a tutti i costi, peraltro nel modo in cui sono stati adulti coloro che oggi sono vecchi. Meno male che le cose stanno cambiando e che gli artisti, senza più vergogna, stanno sempre di più tornando ad essere loro stessi, sporchi e cattivi se necessario. Del resto i tempi sembrano richiedere proprio questo.

Necroide” non è però un album che consiglierei a cuor leggero ad un pubblico metal, perché gli influssi alternative-rock rimangono forti. Ricordiamoci (come ci suggerisce la copertina, raffigurante un volto “pitturato” a metà fra trucco tribale e face-painting) che l’intento dei Nostri è gettare un ponte fra metallo nero e blues nero del Mississippi. E sebbene in episodi come la title-track o “Feccia Rozza” o “Danza Macabra” si sfiori la violenza di un death metal (sì semplice ed elementare, ma rozzo ed efficace – à la Brujeria, potremmo dire), ci sono tante altre cose che con il metal poco c’azzeccano, compresa la ballad noirSepolta Viva” o il funky-rock della seconda traccia intitolata niente meno che “Slayer and The Family Stone”. Ma ad interessarci non è tanto il risultato finale, quanto gli intenti: questo piacere nel riempirsi la bocca di immagini evocanti il vero metal (Slayer, citare i Venom, gli Iron Maiden ecc.).

No, l'heavy metal non è più una vergogna: sono finiti i salottini bene dove si ascoltava solo jazz e/o il cantautorato militante di una Joan Baez. Da tutti i fronti, negli ultimi anni, la musica pensante si sta facendo sempre più pesante. Tornano prepotentemente di moda gli Swans, lo shoegaze si tinge di black metal (e non solo viceversa), e se l'elettronica guarda sempre più volentieri all'harsh-noise, alla techno più annichilente, all'ambient più affossante, il rock sembra recarsi verso le distorsioni, le dissonanze e la potenza del metal.

Un esempio su tutti: la Chelsea Wolfe di “Abyss”. Si è molto parlato dell’ultimo lavoro di questa nuova musa della musica indipendente, ieri (guarda caso) oscura cantautrice, oggi Nostra Signora del Doom. Mi ci gioco le palle che questa si piazza fra i primi dieci album di molte classifiche di fine anno. E’ sempre cantautorato amici miei, roba leggera per gente come noi, ma nemmeno così leggera come ci si potrebbe aspettare. Chitarroni distorti, riff sabbathiani, campanacci a morto: non ci interessa se questa sia o meno roba per fighetti in cerca di sensazioni forti (a me comunque piace), ci interessa invece il dato di fatto secondo cui molti stilemi del metallo vengono oggi accolti da artisti non propriamente dediti al metal e che questa scelta sia serenamente digerita dal loro pubblico.

Metal is cool: ma non come lo era negli anni novanta grazie al Black Album e ai videoclip dei Guns N’Roses (all'epoca il metal divenne solamente più popolare annettendo alla sua platea orde di fresconi, ascoltatori superficiali e qualunquisti interessati solo ai risvolti più pop del nostro genere preferito). No, oggi il metal, spogliato dai suoi cliché più superficiali ed irritanti (moto, birre e pupe) e compreso nella sua metodologia, nella sua autenticità artistica, rivalutato in questa sorta di evoluzione al contrario che porta verso la brutalità e non viceversa, il metal, si diceva, sta diventando oggetto di interesse anche per l’ascoltatore più raffinato, che finalmente riesce a vedere il metal non più come rumore, musica per bifolchi, ma anche e soprattutto come veicolo espressivo in grado di trasmettere meglio di altri certe tipologie di messaggi.

Lay down your soul to the god rock and roll!!